«Alle ore due ant[imeridiane] del giorno 6 settembre nella stiva N. 2, in braccio al proprio genitore, moriva una fanciulla dell’età di anni 7, la quale venne tosto buttata a mare. Alle ore 9 cessava di vivere una bambina di mesi 11; questa era stata ricoverata nell’ospedale, ed appena spirata fu buttata a mare, presente il medico e passeggeri»1. È questo uno dei brani più drammatici del libro L’odissea del Piroscafo Remo, una memoria scritta da un passeggero nel febbraio del 1894, pochi mesi dopo la fine del viaggio che costò la vita a 96 emigranti italiani, per colera, tifo e difterite. Il volume è poco noto alla storiografia2 ed è pressoché sconosciuto al grande pubblico, se si eccettua un paragrafo del libro Odissee del giornalista Gian Antonio Stella3; eppure, sarebbe molto utile ripubblicarlo e farlo conoscere, per fornire nuovi strumenti di riflessione a un dibattito pubblico che, su questi temi, ha raggiunto vette di rara ignoranza su quali siano le basi dell’identità italiana, forgiata non poco nelle tragedie dell’emigrazione, con il loro carico di sfruttamento, false promesse, violenze e respingimenti ai porti.
1. Miseria e false promesse
Il piroscafo Remo salpò da Genova il 15 agosto 1893, due giorni prima di un’altra tragedia dell’emigrazione italiana, il massacro di Aigues Mortes, quando 500 francesi inferociti massacrarono i lavoratori italiani accusati di rubare loro il pane4. Molti dei passeggeri della nave provenivano dalla Bassa pianura modenese, colpita duramente dalla crisi agraria di fine Ottocento. Nel solo anno 1888 dal Comune di Cavezzo emigrarono 415 persone (su una popolazione di 4.876 abitanti). Un’inchiesta condotta l’anno seguente nel Comune di Mirandola spiegava le ragioni di questo enorme esodo, «fino ad allora sconosciuto in una terra che aveva sempre dato di che vivere ai propri abitanti»5. Le cause principali di questa fuga di braccia erano «la miseria e la mancanza di lavoro per braccianti ed operai. La maggior parte dei contadini della nostra campagna, carichi di numerose famiglie – si legge nella relazione – sono cameranti e privi di un lavoro giornaliero sicuro e proficuo per sé e per la loro famiglia. […] I nostri braccianti preferiscono emigrare nell’incertezza di un sicuro guadagno, persuasi di non trovare maggiore miseria di quella che hanno in patria»6. «Nello scorso anno – scriveva sempre nel 1889 il mensile locale, l’Indicatore Mirandolese – famiglie intere dei nostri cameranti coloni assieme alle loro piccole masserizie partivano per Genova per prendere ivi l’imbarco per le lontane spiagge del Brasile e della Plata. Anche noi dunque abbiamo toccato con mano e siamo stati testimoni oculari di questa deplorevole piaga dell’Emigrazione, che già da molto tempo affligge tante altre parti dell’Italia. Tale piaga ogni giorno più s’allarga e minaccia di assumere forme contagiose. […] L’esodo sconsolato di queste plebi rurali – concludeva amaro l’articolista – fra cui si vedevano vecchi cadenti, donne incinte, fanciulli piangenti per il freddo e per la fame che smarriti fuggivano dalla patria ingrata, e si dirigevano oltre mare, in cerca di sorti migliori, senza sicura garanzia, formava il più desolante degli spettacoli, che deve anche dar da pensare a tutti coloro che si occupano sul serio degli interessi nazionali»7.
Se la miseria era la causa delle partenze, a sciogliere i dubbi di chi era incerto ci pensavano gli agenti d’emigrazione, che con discorsi, volantini e libretti rassicuravano sulle condizioni di viaggio e magnificavano le opportunità offerte dai Paesi d’approdo, nascondendo spesso alcune verità ben chiare a chi organizzava questi traffici di uomini; prima di tutto, che i viaggi si rivelavano spesso delle vere e proprie odissee, poi i frequenti casi di raggiri, illeciti e soprusi ai danni di chi aveva deciso di dare una svolta alla propria vita lasciando il Paese d’origine.
All’inizio degli anni Novanta dell’Ottocento, erano due gli agenti che operavano nel mirandolese. Il primo era il capitano Celso Ceretti, noto garibaldino e anarchico8, rappresentante della Società della Navigazione generale, che secondo l’Indicatore Mirandolese stava facendo «ottimi affari». Il secondo era il tipografo-editore Candido Grilli, agente de La Veloce di Genova, che invece aveva «poco esito». «Dal nostro Comune – si legge sul periodico nell’agosto del 1891 – sono già partite quest’anno oltre 300 persone […] per conto della Società della Navigazione generale con viaggio e vitto pagato fino al Brasile. Molti altri si preparano alla partenza che avrà luogo compiuta la stagione dei raccolti nelle campagne»9.
Uno di questi emigranti era il cavezzese Cesare Malavasi, autore del volume, che venne stampato proprio dall’agente-editore Grilli. Arrivato insieme alla moglie al porto di Genova, Malavasi dovette «munire di buona mancia» i facchini perché imbarcassero i bagagli, che superavano il peso consentito10. La maggior parte degli emigranti attendeva la partenza in un grande salone, stando seduti o sdraiati sul pavimento: «Alcuni si cibavano altri dormivano. Vidi donne le quali stanche per le sofferenze ed insonnie delle passate notti, erano assopite in una specie di letargico sonno; e piccoli figli che, a loro insaputa, succhiavano il latte dalle loro mammelle. Si udivano pianti, grida, lamenti, ed imprecazioni in mille guise, causate da motivi diversi. Rimasi meravigliato a quella vista, a quello spettacolo e, se bene ricordo, simile emozione giammai avevo provato in tutto il tempo di mia vita»11.
2. Il viaggio della speranza
Il giorno di ferragosto, alle 3 e mezza del pomeriggio, i 900 passeggeri salirono a bordo, dopo che una commissione sanitaria «aveva preso in esame l’inoculazione del vaiolo ai bambini, ed all’ingrosso esaminati gli altri emigranti»12. La nave aveva una stazza di 2.964 tonnellate, era lunga 100 metri e larga 12. Era stata costruita nel 1891 nei cantieri Ansaldo di Sestri Ponente, con il nome di Michele Lazzaroni, su commissione della società Mazzino di Genova. Aveva 60 posti di prima classe e ben 900 di terza. Nel 1892 lo stesso proprietario l’aveva ribattezzata Remo13.
Chi partiva conosceva solo a grandi linee i dettagli della traversata, ma in questo caso i viaggiatori furono lasciati appositamente all’oscuro di un particolare decisivo e cioè che la prima destinazione era Napoli, dove imperversava un’epidemia di colera. I timori di alcuni passeggeri meglio informati furono addirittura smentiti, senza il minimo pudore, da un agente d’emigrazione14.
La nave tolse l’ancora alle 4 e 10 del pomeriggio e poco prima della mezzanotte del 16 agosto giunse all’imbocco del porto di Napoli, dove entrò il giorno seguente. Qui furono imbarcati altri 700 passeggeri e una grande quantità di merci, fra le quali 400 botti di vino. I nuovi emigranti erano guardati con sospetto, perché oltre a ridurre spazio e viveri, aumentavano il rischio di malattie.
Alla sera del 17 agosto la nave ripartì. Superato lo stretto di Gibilterra il 21 agosto, il piroscafo affrontò le onde «imperiose ed infuriate» dell’Oceano. «Comparsi in coperta, quasi tutti furono in preda al mal di mare; si udivano lamenti, si rimiravano contorcimenti e sforzi causati dai forti conati, da far raccapricciare. Fu distribuito il caffè, ma quasi nessuno – scrive Malavasi – potè approfittarne, e lo stesso dicasi di tutti gli altri cibi di quella giornata»15. Dopo la sosta a Napoli il vitto aveva cominciato a scarseggiare e ad essere più scadente, tra le proteste dei passeggeri. A partire dal 24 agosto scoppiarono «diverbi e risse per l’occupazione dei posti». Una di queste coinvolse Rosalia Biscuola, concittadina di Malavasi. Salita in coperta per occupare il posto dei giorni precedenti, lo trovò impegnato «da una donna del mezzogiorno; la pregò a ritirarsi ma questa si rifiutò. La Biscuola depose le sue robe ma la meridionale per ben tre volte, con insistenza glie le respingeva. L’ardita mia conterranea adiratasi allora si slanciava sull’avversaria e vibratale una forte dose di cazzotti. Se la meridionale non avesse portato un bambino fra le braccia, che le servì di scudo, se ne sarebbe buscata una quantità maggiore. Altre meridionali nel contempo trovavansi in aiuto della collega, ed in allora l’ardita Cavezzese se ne sarebbe riportata la peggio. Ma la sorte volle che in quel momento esse pure fossero intente a bisticciarsi per la stessa ragione, per cui l’incidente passò loro inosservato»16.
Da una ricerca nell’Archivio storico comunale di Cavezzo, emerge che nel giugno del 1893 il marito della focosa Rosalia, Teodorico Lugli, 42 anni, agricoltore, aveva chiesto il passaporto per l’estero per recarsi col nipote Ildegardo Lugli a San Paolo del Brasile, con «certezza d’occupazione». Avendo ottenuto un lavoro remunerativo, Tedorico aveva chiesto a Rosalia (sposata in seconde nozze) e alla figlia, Ernesta Lugli, di raggiungerlo. Nell’Archivio storico comunale sono conservate tante altre domande di passaporto di quel periodo, compresa quella di Brunechilde Minelli, imbarcata sul piroscafo Remo insieme alle figlie Maria e Ida (o Iva).
Il viaggio proseguì tra gravi disagi, maltrattamenti, angherie da parte degli ufficiali di bordo e furibonde liti. Quattro toscani che cercavano di convincere altri emigranti a non presentarsi al ritiro del rancio, vennero legati alle grosse catene dell’ancora in una prigione sotto prua17.
Il cibo era pessimo. Il 2 settembre al mattino venne servito un caffè «molto simile ad acqua calda». Alle 11 iniziò la distribuzione «di piccoli maccheroni impropriamente chiamati, al brodo; e per pietanza pochissima carne tagliata in minutissimi pezzi. L’altro rancio consisté in poco riso, lunghissimo e buono a nulla, e carne salata bollita, con contorno di lenticchie». Altre volte erano serviti ceci, patate, tonno e insalata, baccalà in umido «ed altre porcherie, le quali, non che di cattivo sapore, erano anche di gran pregiudizio alla salute di tutti, producendo alla massa dei passeggeri diarree, dissenterie, con dolori tali da far raccapricciare»18.
Con l’avvicinarsi della “terra promessa”, si propagò sul Remo una grande eccitazione. Tutti parlavano dell’America, distante ormai pochi giorni di viaggio. Qualcuno cominciava a pensare che i sogni di ricchezza – o quantomeno di un tangibile progresso nella propria umile condizione – stessero per avverarsi; altri si limitavano a pianificare il viaggio da Santos, porto di sbarco, fino a San Paolo, meta finale per molti emigranti. Per risparmiare tempo alcuni pensarono addirittura di pagare quest’ultimo tragitto di tasca propria, anziché approfittare del trasporto gratuito offerto dagli agenti di viaggio.
3. La tragedia e il respingimento
Il clima di grande euforia venne interrotto bruscamente il 6 settembre, alla notizia (che ho citato in apertura) della morte di due bambine, gettate in mare alla presenza dei parenti disperati. Ma per il carico umano del piroscafo Remo era soltanto l’inizio.
«Piove dirottamente, il freddo è gagliardo, è un disagio generale, specie per donne e bambini. Nell’imbrunire venne chiamato il medico per far visita ad un catanzarese gravemente ammalato nella prima stiva, piano inferiore. Venuto il medico, dopo accurata visita, disse trattarsi di indigestione d’acqua. Sono convintissimo che quel seguace di Esculapio avesse ben compreso trattarsi di colera quasi fulminante, ma ebbe ben d’onde, se non volle mettere apprensione a bordo! All’ammalato ordinò fosse apprestato cognac, marsala e brodo e prima delle 8 pom[eridiane] venne trasportato all’ospedale»19.
Il mattino del 7 settembre venne avvistato il faro di Cabo Frio, in Brasile. La navigazione proseguì, in direzione sud-ovest, verso Rio de Janeiro e Isola Grande. Quando quest’ultima distava ormai soltanto 70 miglia, due meridionali si ammalarono «di colera, per cui furono fatti sortire dall’ospedale tutti gli altri, dei quali niuno era gravemente ammalato, se si eccettua il catanzarese, il quale cessò di vivere alle 2 pom[eridiane]»20. Verso sera la nave si arrestò ad Isola Grande, in attesa della visita sanitaria. Il giorno seguente una commissione sanitaria, giunta con un vaporetto, ordinò al comandante del Remo di retrocedere di 20 miglia, per gettare in mare il cadavere del catanzarese prima di ritornare in rada. Qui il piroscafo rimase in attesa di ulteriori disposizioni, sotto la minaccia dei cannoni di una corazzata brasiliana. Nella notte tra l’8 e il 9 settembre furono ricoverati un uomo e una donna che davano segni evidenti di colera. Poi, al mattino arrivò la notizia che gettò tutti nel più profondo sconforto. Il Governo brasiliano aveva deciso di respingere in blocco gli italiani.
Non era la prima nave a subire questa sorte e non fu l’ultima. A molte navi italiane venne negata la possibilità di attracco. Anche per questo motivo, molti nostri connazionali morirono durante le traversate della speranza. Furono ad esempio centinaia i morti di colera tra i 1.333 passeggeri della Matteo Bruzzo, respinta a cannonate dalle autorità uruguayane e costretta, come il Remo, a smaltire l’epidemia vagando per i mari e gettando i cadaveri nell’Oceano. I casi di incidenti su questi piroscafi erano così frequenti che per definirli si iniziò ad usare il termine di “vascelli della morte”. Il piroscafo Carlo Raggio, in quarantena nella rada di Isola Grande insieme al Remo, ebbe 211 morti per un’epidemia di colera e morbillo. Sulla stessa nave erano già morti altri passeggeri, sei anni prima, a causa della fame.
Sul Remo, nella notte tra il 9 e il 10 settembre «un calabrese, che trovavasi in coperta, preso da congestione cerebrale, precipitava dalla sala che mette nella prima stiva. Rizzatosi per tre o quattro volte, ben altrettante ricadeva, dando di cozzo così forte nel pavimento di ferro, da sembrare impossibile che non si sfracellasse il cranio. Chiamato d’urgenza il capo-stiva questi faceva appello ai conterranei dello sventurato, i quali, sebbene a malincuore, gli prodigarono le cure indicate in simile evenienza». Durante la notte avveniva anche il decesso del figlio di un certo Primo Luppi di San Prospero (Modena). «Nel mattino, in coperta, sul volto di ognuno si leggeva il dolore e la mestizia; moltissimi avevano le gote bagnate di lagrime: ma fu d’uopo rassegnarsi all’avverso destino»21, commentava Malavasi.
Il piroscafo venne rifornito d’acqua e viveri, tra i quali 13 buoi, farina, polli e pasta. Il 12 settembre morirono un piemontese che aveva a bordo moglie e due figli, un meridionale di una sessantina d’anni e un bambino nella terza stiva. Versava poi in gravi condizioni il figlio di un certo Angelo Bosi di Disvetro, frazione del Comune di Cavezzo. Prima di sera si ammalò anche Clementina Meschiari, sempre di Disvetro, per una forte febbre. «Visitata dal medico, le venne prescritto un certo farmaco che per questa volta le ridonò la salute».
Prima che giungesse la sera, comparve un vaporino rimorchiatore di un battello, che portò medicinali e la notizia che, nel giorno appresso, sarebbero arrivati i viveri domandati». Alle 8 del pomeriggio la corazzata da guerra, levate le ancore, lasciò solo l’equipaggio del Remo.
Al mattino del 13 settembre una certa Filomena Garuti, moglie di Angelo Bosi, era stata portata all’ospedale «per vomito, diarrea e granchia: nel contempo in prossimità a noi passava il piroscafo Andrea Doria quivi giunto ieri, il quale recavasi a dar sepoltura ai cadaveri che aveva a bordo; giungeva anche il noto vaporino che ci portava il compimento dell’acqua […] Una veneta alle ore 4 pom[eridiane ] chiedeva al medico di potere far visita a suo marito ricoverato nell’ospedale; questi sulle prime si oppose, poscia la mise a cognizione dell’avvenuto decesso dell’affezionato di lei consorte. In quest’ora ammalava certa Mazza Cleonice da Cavezzo per dissenteria e vomito, e veniva visitata dal medico. Venuta la sera si seppe che la Garuti Filomena aveva peggiorato e che la Mazza era stata ricoverata nell’ospedale».
Malavasi ci ha lasciato anche un interessante campionario degli stati d’animo dei passeggeri: «Vidi uomini e donne intente nella lettura e nella meditazione di cose sacre; ne vidi altri che si occuparono di letture profane ed anche oscene; donne che durante quasi tutta la giornata recitavano il rosario, ed altre che inveivano contro i figli e contro i mariti scagliando contro loro le più turpi villanie; mariti che per sventura o per dissesti maledicevano ai figli ed alle mogli o che vomitavano le più atroci bestemmie. Udii infine la vedova del piemontese […] far articolare orazioni funebri ai due suoi teneri figli, a pro del defunto genitore. Una simile varietà di cose e di fatti mi commosse al vivo»22.
4. Il ritorno in Italia, i nuovi lutti, i raccomandati
La sera del 13 settembre il Remo salpò per l’Italia. Il mattino dopo «a qualcuno fu fatta concessione di aprire i propri bauli ed estrarne oggetti di vestiario, per la ragione che gli abiti indossati dalla maggioranza erano non solo sudici, ma anche infestati da immondi insetti. Decessi non ne mancarono […] Siamo nelle ore ant[meridiane] del giorno 15 settembre e muore di colera una vezzosa bambina d’anni 7; nella terza stiva ne moriva un’altra, ed una donna gravemente ammalava. Ad un’ora pom. cessava di vivere la Mazza Cleonice: nell’ospedale eranvi ammalati e morti. Ora al colera sonsi associati il tifo e la difterite ed ognuno con vero eroismo sta aspettando il proprio turno per morire, giacché ritiensi moralmente impossibile che persone mal trattate, esauste di finanze, addolorate per la perdita, chi del padre, chi del marito, chi della moglie, chi del fratello, che dell’amico, possono aver tanta forza da sopravvivere a tante calamità»23. Nei giorni seguenti la situazione non migliorò:
Sono molti che ammalano nel giorno 16 settembre, e che in conseguenza vengono ricoverati nell’ospedale, e a bordo si vocifera che sei siano stati pasto dei pesci.
Ad un’ora pom[eridiana] dal Commissario si seppe che tanto la Garuti Filomena quanto il di lei figlio, avevano pagato l’inneritabile tributo alla natura. Cessò anche di vivere per colera l’Agata Tozzini, ad onta che il marito [Pietro Naldini da Calci (Pisa)], in linea eccezionale e di favoritismo, avesse potuto discendere nell’ospedale quando gli talentava, e prodigare all’ammalata tutte le cure, durante l’infierire del morbo.
Molti erano i bambini ammalati nella terza e quarta stiva nel mattino del giorno 17 settembre, ed alle ore 10 ant[imeridane] riammalava la Meschiari Clementina, la quale aveva a bordo il marito Pivetti Primo ed un figlio di soli mesi cinque. Il marito addolorato andò pel medico, e solo ad un’ora pom[eridiana] gli venne dato di trovarlo. La Meschiari sentivasi dissenteria, dolori intestinali, inappetenza, stringimento di stomaco ed era presa da febbre. […] L’orologio di bordo segnava le 5 pom[eridiane] allorché nella Meschiari verificavasi recrudescenza, aggiungendosi, agli altri malanni, anche il vomito e granchi per cui dovè essere ricoverata nell’ospedale. Prima della ritirata il marito Pivetti, per ordine del medico portava nell’ospedale il bambino Tonino perché la madre potesse allattarlo, ma poco dopo ordinavagli che lo ritirasse, e lo portasse con sé in cuccetta.
Il 23 settembre anche Clementina Meschiari morì. Al marito «immerso nel dolore, rimase il compito di prodigare, si di giorno che di notte, tutte le dovute cure al piccolo figlio Tonino, il quale, per deficienza di latte, era ridotto agli estremi»24.
5. La quarantena all’Asinara e l’inchiesta sugli abusi
Negli ultimi giorni di settembre, quando ormai la nave si apprestava ad entrare nel Mediterraneo, l’epidemia iniziò a calare d’intensità, ma i morti erano già 76. Il 29 settembre il piroscafo fece tappa a Tenerife, quindi si avviò per l’Asinara, dove i passeggeri sarebbero stati posti in quarantena. In quei giorni morì anche la piccola Iva Flandoli, che era partita insieme alla madre e alla sorella per ricongiungersi col padre. Il Remo giunse nell’isola a nord est della Sardegna il mattino del 6 ottobre. All’Asinara erano state scavate sei grandi fosse, profonde tre metri, per raccogliere i morti di quattro bastimenti colpiti dalle epidemie (oltre al Remo, il Carlo Raggio, il Vincenzo Florio e l’Andrea Doria). Il 7 ottobre cominciò la disinfezione della nave. Gli ammalati furono trasportati all’ospedale, mentre i passeggeri sani furono inviati alla disinfezione. Alle 10.30 del 14 ottobre arrivò nell’isola un altro dei piroscafi respinti dal Brasile, il Vincenzo Florio, i cui 19 decessi erano destinati a salire.
Terminate le operazioni di disinfezione, la nave ripartì per Napoli, dopo il via libera di una commissione sanitaria. Prima di partire, tuttavia, alcuni passeggeri meridionali indirizzarono una lettera al prefetto partenopeo per denunciare i trattamenti subiti nella traversata. Nel frattempo Malavasi era stato nominato, insieme ad altri due passeggeri, in un comitato incaricato di presentare al comandante della nave le lamentele raccolte tra i passeggeri.
La nave arrivò a Napoli il 18 ottobre e da qui, il giorno seguente, ripartì inaspettatamente per Nisida. Il prefetto, ricevuta la lettera, aveva infatti ordinato un’immediata inchiesta, affidandola alla Capitaneria del porto di Napoli. La commissione incaricata interrogò diversi passeggeri e marinai. Dall’inchiesta emersero numerose irregolarità e arbìtri. Un certo Luigi Pedrazzi di Cavezzo, ad esempio, aveva ripetutamente chiesto al vice commissario della nave di poter aprire i propri bauli per prendere indumenti, ottenendo sempre risposta negativa. Pedrazzi chiese allora alla sua concittadina Maria Zucchi di presentarsi al vice commissario dichiarando a sua volta di avere bisogno di aprire un baule, facendo leva sul fatto, scrive Malavasi, «che le donne, specie se bellocce, spesse volte sono chiavi potente che tutti disserrano». L’ufficiale acconsentì, ma quando all’appuntamento si presentò anche Pedrazzi, il vice commissario, «inasprito», lo sfidò «al duello, lasciandogli la scelta dell’armi»25. Emerse anche che alcuni passeggeri erano stati maltrattati e che ad altri erano stati sottratti denaro e alimenti.
La commissione d’inchiesta svolse rapidamente il suo lavoro e al mattino del 22 ottobre furono levate le ancore dalla rada di Nisida per Napoli, dove furono sbarcati i meridionali, e quindi verso Genova. Il 26 ottobre mattina gli ultimi passeggeri scesero sul molo. Se la drammatica vicenda del Remo si poteva dire conclusa, la miseria dei passeggeri proseguiva. «La maggioranza – concludeva sconsolato Malavasi – sembrava provare sollievo e refrigerio col narrare, senza la menoma reticenza, lo squallore in cui si sarebbero fra breve trovati: senza pane, senza tetto, nell’impossibilità di potere guadagnare un soldo, senza sapere di che saziare la fame loro, della moglie e di numerosa prole. Non sono parole, sono fatti, e raccapriccio ad ogni istante che il mio pensiero vola a quei momenti di tanta miseria, di tanto scoramento»26.
Note
1 Cesare Malavasi, L’odissea del piroscafo Remo ovvero Il disastroso viaggio di 1500 emigranti respinti dal Brasile, Mirandola, Grilli, 1894, p. 28.
2 Dal catalogo Opac Sbn, sono conservate copie alla Biblioteca nazionale centrale di Firenze e in altre tre biblioteche italiane (due delle quali modenesi). Una copia è conservata anche nel Fondo antico della Biblioteca comunale di Mirandola “Eugenio Garin”.
3 Gian Antonio Stella, Odissee. Italiani sulle rotte del sogno e del dolore, Milano, Corriere della Sera, 2004. L’esistenza del volume era stata segnalata al giornalista del Corriere della Sera dall’autore di questo saggio.
4 Per una recente ricostruzione della vicenda cfr. Enzo Barnabà, Aigues-Mortes, il massacro degli italiani, Formigine, Infinito, 2015.
5 Simona Baraldi, L’emigrazione dal mirandolese dall’unità d’Italia alla prima guerra mondiale, tesi di laurea, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Facoltà di Lettere e Filosofia, Corso di Laurea in Lingue e Culture Europee, anno accademico 2002-2003, rel. Prof. Giovanna Procacci, p. 42.
6 Archivio Storico Comunale di Mirandola, anno 1889, “Popolazione”, f. 5, Informazioni mensili sull’emigrazione all’Estero.
7 L’emigrazione in America, «l’Indicatore Mirandolese», gennaio 1889, pp. 8-9.
8 Sulla sua figura cfr. Franco Verri, Celso Ceretti garibaldino mirandolese, Verona, Fiorini, 2007.
9 L’emigrazione, «l’Indicatore Mirandolese», agosto 1891, p. 65.
10 Malavasi, L’odissea, cit., p. 7.
11 Ivi, p. 8.
12 Ibid.
13 Nel 1894, dopo la tragedia, il piroscafo venne venduto alla società Ligure Romana di Navigazione di Genova, che le cambiò il nome due volte (Para e Minas), forse per cancellare ogni brutto ricordo. L’imbarcazione fu nuovamente venduta nel 1898 a La Ligure Brasiliana Società Anonima di Navigazione e nel 1914 all’armatore Angelo Parodi di Genova. L’imbarcazione finì le sue travagliate vicende nel modo più tragico. Il 15 febbraio 1917 venne infatti affondata da un sottomarino tedesco U39 nel Mar Ionio, mentre viaggiava da Napoli a Salonicco. Morirono centinaia di persone, tra soldati e civili.
14 Malavasi, L’odissea, cit., p. 8.
15 Ivi, p. 15.
16 Ivi, pp. 18-19.
17 Ivi, p. 21.
18 Ivi, p. 25.
19 Ivi, p. 29.
20 Ivi, p. 30.
21 Ivi, pp. 34-35.
22 Ivi, pp. 37-39.
23 Ivi, p. 41.
24 Ivi, pp. 42-49.
25 Ivi, pp. 87-88.
26 Ivi, p. 94.