Musica e Storia. Un esperimento di laboratorio radiofonico

L’idea mi è sopraggiunta facendo, come recita il proverbio, di necessità virtù. In piena emergenza sanitaria, con le scuole da un giorno all’altro chiuse e una didattica a distanza calata dall’alto e da portare avanti nonostante le tante difficoltà organizzative, ho riavvolto il nastro delle classiche lezioni in aula per iniziare a instaurare una nuova relazione e un linguaggio che non prevedeva più il confronto diretto con gli alunni. Qualcosa di molto difficile poiché entrano in gioco anche altri fattori emotivi e le tante resistenze formate da consuetudini consolidate. A dire il vero, quando iniziò tutta questa strana vicenda, ero interiormente molto combattuto, e lo sono ancora oggi. Non sapevo se proseguire con una modalità che prevedeva non troppi strappi con il recente passato, in piena continuità con la programmazione. L’unica novità da introdurre, in questo caso, erano i mezzi informatici, e le tante piattaforme messe a disposizione. L’alternativa era scompaginare il precedente assetto di una linearità riadattata e fare in modo di trasformare l’autentica questione dell’isolamento dell’insegnante, della distanza, di un depotenziamento del controllo dell’insegnante sul lavoro attivo degli alunni, in una normale condizione di lavoro, come quando, ad esempio, nelle radio si veicolano in diretta diversi contenuti, parole, storie, citazioni, battute e soprattutto tanta musica. Così mi è balenato questo pensiero e ho voluto provare a prendere in contropiede la nuova condizione di insegnante costretto a stare a distanza, che svolge lezioni in un remoto luogo tra le mura domestiche ad alunni spaesati e ancor più pigri, e trasformare per due ore il mio piccolo studio pieno di libri e di materiale didattico in una redazione radiofonica.

In realtà, ho rispolverato una recente idea che avevo nel mese di novembre presentato a scuola, il liceo linguistico di Cefalù, nei consigli di classe, per attuare quella che fino a ieri si chiamava “alternanza scuola-lavoro” rivolta agli alunni della secondaria di secondo grado. Il progetto si riferiva a una web radio scolastica che in principio doveva sostituire il vecchio giornalino d’istituto e occuparsi non solo di questioni inerenti la vita scolastica, le uscite didattiche, gli appuntamenti, le grandi tematiche sociali e culturali, ma soprattutto diventare l’occasione per ampliare la didattica attraverso delle vere e proprie lezioni svolte nella modalità radiofonica in cui gli argomenti e i temi trattati nelle singole discipline erano pianificati ed elaborati in un palinsesto da una redazione formata dagli alunni con la supervisione degli insegnanti. Con la progettazione del laboratorio radiofonico si intende mettere in risalto un veicolo in grado di socializzare i contenuti non attraverso il nozionismo ma con una modalità orizzontale che incoraggi lo studente a un maggiore esercizio della propria espressività. Come ha scritto il Miur in una nota del 25 ottobre 2018:

La radio, per la sua versatilità e flessibilità, risulta essere un mezzo efficace per rivalutare una comunicazione verbale mirata allo sviluppo di competenze espressive all’interno di nuovi “paesaggi sonori”. La radio è altresì lo strumento più qualificato per far acquisire agli studenti, oggi sempre meno protagonisti di un’elaborazione autonoma e critica dei processi della comunicazione, la padronanza di modelli comunicativi.

La scelta verso questo tipo di didattica attraverso uno strumento vivo come la radio è stata mirabilmente spiegata in tutte le sue implicazioni didattiche, culturali e psicologiche da Alberto Pian1. Come ha fatto notare Pian, rifacendosi alla tradizione filosofica antica, è necessario conservare il piacere della narrazione e dello scambio dei saperi per via orale. Infatti, è attraverso l’oralità che si compie il primo passo cognitivo in qualsiasi disciplina e per qualsiasi apprendimento, a ogni età. Con le tecnologie attuali, sempre più diffuse e semplici da usare, lo strumento del dialogo è facilmente trasferibile nel “digitale” e il podcast audio svolge una fondamentale funzione in questa direzione educativa. La scelta del parlato, invece che del video o di altre forme (che comunque sono sempre integrabili), oltre a far interagire docenti e alunni sulla scelta dei contenuti che si desidereranno raccontare (interviste impossibili, dialoghi sulla scienza, radio talk, discussioni sull’attualità, alternati con la musica come strumento attivo di conoscenza), aprono la classe e la scuola a un mondo molto ampio. Un percorso impegnativo, ma intrigante e coinvolgente. Le applicazioni presenti nel web sono molteplici, e la radio

come caratteristica intrinseca, corrisponde meglio degli altri media ai bisogni degli utenti, perché stimola il mondo dei sentimenti […] la radio si ritaglia il suo spazio nell’immaginario, creando una dimensione quasi di sogno solitario e collettivo allo stesso tempo, trasformandosi in una sorta di macchina della realtà virtuale2.

La didattica radiofonica evidenzia l’importanza dell’ascolto e del parlato riguardo alla sfera emozionale. Il lavoro mentale di un ascoltatore, sul piano cognitivo, è qualitativamente e quantitativamente differente da quello di chi guarda dei video. Attraverso la radio è possibile immergersi in una realtà introspettiva/riflessiva. Un linguaggio che con i mezzi attuali va anche oltre la semplice realtà radiofonica e che può unire in sé tutte le tecnologie digitali.

A partire da queste considerazioni metodologiche, il laboratorio di didattica radiofonica che propongo riguarda il tema “musica e storia”. Qualche anno fa ho letto il libro di Alessandro Portelli su Bruce Springsteen3 e mi colpì molto come la formazione musicale negli Stati Uniti sia parte integrante non solo dell’educazione scolastica, molto più che in Europa, ma soprattutto dell’educazione civile. Altre volte ho ascoltato Portelli insistere su questo punto e sul fatto che è possibile spiegare gli episodi della storia attraverso la produzione musicale di un determinato periodo storico. Musica e parole se debitamente contestualizzate non fanno altro che svelarci aspetti peculiari di una determinata congiuntura storica. Ad esempio, Guido Crainz nel suo libro sul miracolo italiano4 ha dedicato diverse pagine alla produzione coeva di film e canzoni. Questi ultimi sono manufatti culturali e come tali esprimono mentalità, sentimenti, modi di sentire e percepire la realtà.

Il percorso didattico che vado a illustrare riguarda, in particolare, la condizione dei neri negli Stati Uniti dagli anni Quaranta agli anni Ottanta. Per realizzare questa puntata radiofonica è stato necessario innanzitutto scrivere una scaletta dei contenuti. Questo è un lavoro che, in una fase più avanzata della sperimentazione didattica, sarà molto utile far svolgere agli alunni stessi. In definitiva, saranno loro a decidere e costruire non solo il palinsesto delle diverse puntate della web radio ma a scrivere – attraverso lo studio, la ricerca e la raccolta di documenti guidata dal docente – il testo redazionale da mandare in onda.

La trasmissione è durata circa cinquanta minuti. Ho iniziato con una introduzione sulla nascita della musica popolare negli States agli inizi del Novecento. Musica popolare che si è articolata nel corso del tempo in diversi generi: spiritual, gospel, blues, jazz, swing, rhythm and blues, rock and roll, soul, funk, rap, reggae, hip hop, ecc., tutti derivanti o influenzati dalla cultura degli afro-americani. Le prime forme di black music erano state, già nel corso del XIX secolo, le cotton songs cantate dagli schiavi impiegati nelle piantagioni di cotone. Erano canti malinconici e sofferti di lavoro e di vita quotidiana, di amori nati tra i campi e le baracche.

Più tardi, le chiese divennero il principale luogo in cui ci si riuniva per cantare i Gospel o “canti di Dio”, mentre per le strade si diffondeva il blues. Ed è di questo particolare genere che, per iniziare, abbiamo ascoltato un celebre esempio:“Cotton-Field” del 1940 scritta da Huddie Ledbetter, meglio noto come Lead Belly (1888-1949), uno dei leggendari chitarristi blues.

Altro personaggio straordinario è Barbara Dane, una vivace donna che ancora oggi a novant’anni fa concerti in America. Bianca, capelli biondi è stata un punto di riferimento per la musica blues. Nel pezzo che ho proposto alla classe la troviamo in coppia con Lightnin’ Hopkins nel 1965 in “I’m Going Back, Baby”. È stata poi la volta della voce straordinaria di Etta James, un prodigio della musica afroamericana cresciuta sulle orme di Billy Holiday, con una canzone che ci racconta gli amori ai tempi della schiavitù. È la celebre canzone “The sky is crying” scritta da Elmor James nel 1959 e cantata, appunto, da Etta James:

I got a bad feeling, my baby, my baby don’t love me no more, I got a bad feeling, my baby don’t love me no more. Now the sky been crying, the tears rolling down my door.

Usciti dalla grande crisi degli anni Trenta e dalla Seconda guerra mondiale, l’America degli anni Cinquanta è una tempesta emozionale. “Rock around the clock” di Bill Haley farà ballare gli americani fino a tarda notte, in una rinnovata euforia e ritrovata incoscienza. Ma dietro l’angolo c’è una rivolta che monta. È quella dei diritti civili. Una straordinaria ragazza, Rosa Parks, ribalta l’America. Il sindacato afroamericano degli addetti alle carrozze letto, uno dei pochi lavori che i neri potevano fare, si affermò come uno dei grandi sindacati mondiali impegnati nella lotta alle diseguaglianze. Il movimento per i diritti civili fu in grado di esprimere, negli Stati Uniti, una notevole intelligenza politica e una struttura organizzativa efficace e capillare. Il già citato Alessandro Portelli ci racconta un episodio che ho voluto riportare ai ragazzi:

Fra l’altro cercando un posto dove riunirsi per continuare il boicottaggio [quelli del movimento] individuarono una chiesa, dove c’era un giovane pastore che non ne sapeva nulla, appena arrivato da Atlanta e gli dissero: «possiamo usare la vostra chiesa?» e questo giovane pastore di 26 anni di nome Martin Luther King gli rispose: «venite pure».

Quindi, non è stato Martin Luther King a fare il movimento, ma il movimento ha fatto Luther King. La musica nel contesto americano è stata molto importante, più che altrove. Ha veicolato oltre che emozioni anche contenuti politici e senso di appartenenza a un movimento di rivendicazione sociale:

How many years can some people exist, before they’re allowed to be free?

Così si chiedeva Bob Dylan nel 1963 nella meravigliosa “Blowind in the wind”. Alla sua domanda rispose Sam Cooke con la canzone “A change is gonna come” che divenne subito l’inno del movimento per i diritti civili:

It’s been a long, been a long time coming/But I know a change is gonna come, oh yes it will.

La musica più di ogni altra analisi sociologica ci fa scoprire un altro volto degli Stati Uniti, quello che non si era mai riconciliato con il benessere perduto o mai posseduto, e che nel frattempo sparò al presidente JFK, a Dallas, in Texas. E proprio dagli stati del Sud un altro grande artista ci racconta l’America del lavoro sottopagato, della working class formata principalmente dai neri, e delle periferie operaie, dove l’alternativa è tra una busta paga da fame e la galera. Si tratta di Johnny Cash, che propone una fusione di blues e spiritual con la musica folk degli Appalachi. La canzone che ho proposto si intitola “Folsom Prison Blues”, in una versione live del 1968 direttamente dalle carceri degli Stati Uniti d’America.

Siamo giunti al Sessantotto e al posto della musica di contestazione, della libertà individuale, della trasgressione, delle droghe espansive e delle sperimentazioni poetiche e linguistiche che caratterizzavano il rock alternativo dell’epoca, nella country music troviamo ancora una volta le fatiche del lavoro, la nostalgia, e lo sradicamento dei giovani che abbandonano il sud agricolo per il nord industriale, o il deterioramento fisico e mentale di chi lavora nelle miniere. Anche le ballate amorose hanno una connotazione di classe: al posto dell’amore libero, troviamo matrimoni precoci, tradimenti (le “cheating song” sono addirittura un sotto genere della country music), divorzi, conflitti.

È l’America lacerata dal benessere, contraddittoria, dove imperversano le frustrazioni di chi sa che non potrà mai raggiungere il grande sogno americano. E fu proprio Bruce Springsteen a cantare negli anni ’80 questa America, continuando a tessere il filo di una lunga tradizione di lotte sociali. Questa è “I’m on fire” (1984):

Sometimes it’s like someone took a knife, baby/Edgy and dull and cut a six-inch valley/Through the middle of my soul/At night I wake up with the sheets soaking wet.


Note

1 Alberto Pian, Didattica con il podcasting, Roma, Laterza, 2009.

2 Pian, Didattica con il podcasting, cit., p. 32.

3 Alessandro Portelli, Badlands. Springsteen e l’America: il lavoro e i sogni, Roma, Donzelli, 2015.

4 Guido Crainz, Storia del miracolo italiano, Roma, Donzelli, 1996.