Piccola storia di come una nave partita da Kingston nel 1948 ha influenzato “London Calling” dei Clash e “Metal Box” dei PIL, nel loro quarantesimo anniversario

Il 23 novembre e il 14 dicembre 2019 sono caduti i quarantesimi anniversari di due opere fondamentali nella storia della musica rock: “London Calling” dei Clash e “Metal Box” dei PIL (Public Image Ltd.), rispettivamente il terzo album dei “four horsemen” Joe Strummer, Mick Jones, Paul Simonon e Topper Headon, e il secondo della creatura post Sex Pistols di Johnny Rotten/John Lydon1.

Giuliano Santoro – in un articolo sul disco dei Clash pieno di spunti interessanti e pubblicato su “Jacobin Italia” – ha evidenziato come “London Calling” sia, allo stesso tempo, una «pietra miliare» e un’opera che «continua a risuonare nelle nostre esistenze quotidiane»2. Un’affermazione che vale anche per il lavoro dei PIL. Se in “London Calling” i Clash, da una prospettiva più politica e sociale che personale, descrivono una realtà che non è poi così distante dalla nostra, lo stesso fanno i PIL in “Metal Box”, viceversa da una prospettiva più personale che politica e sociale.

In “London Calling” c’è Londra, ovviamente: la title track racconta una metropoli, oggi terra promessa per molti, ma che già allora nascondeva le sue contraddizioni dietro l’immagine “swing”. Ma quello dei Clash, sottolinea sempre Santoro, è anche «il primo disco di rock’n’roll globale della storia della musica»3,  nel quale il gruppo per mezzo di una trama lirica e musicale meticcia – miscela di svariati generi: punk, reggae, rockabilly, funk, soul, rock, ska, jazz e blues – evoca e connette i più diversi scenari – i ghetti giamaicani e le periferie di Londra, i grattacieli di New York e l’America del sud – restituendo il quadro generale e le interconnessioni tra i vari problemi che riguardavano (e riguardano ancora oggi) il pianeta: i disastri ambientali, il consumismo spinto, le droghe, l’eroina come rifugio e la cocaina come incentivo alla produzione; la violenza della polizia e la violenza fine a se stessa delle gente comune; e ancora l’assenza di prospettive, la disoccupazione, il lavoro sottopagato, il razzismo.

“Metal Box” pone invece l’individuo, piuttosto che il globo, al centro dell’opera. Il 1979 era stato un anno orribile per John Lydon: aveva perso la madre, ammalatisi di cancro, e il suo ex migliore amico, Sid Vicious, per l’eroina. Quasi a volere prendere il controllo del dolore, anche i PIL – Lydon alla voce, Keith Levene alla chitarra, Jah Wobble al basso e nessun batterista accreditato in copertina (la suonano un po’ tutti) – miscelano sonorità e linguaggi appartenenti a luoghi distanti e differenti tra loro, vedremo quali, dando forma a una vera e propria colonna sonora, claustrofobica e asfissiante, dello stato di angoscia esistenziale che accompagna e tormenta l’uomo di ogni epoca. In “Swan Lake”, per esempio, canzone in cui Lydon affronta la morte della madre.

Due album, anche all’ascolto tanto diversi quanto complementari, che hanno una caratteristica in comune dunque: essere il risultato di una originale fusione tra stili musicali diversi a cui i Clash e i PIL erano giunti a partire da una passione che li accomunava, quella per la musica reggae. 

Si è spesso attributo a Don Letts un ruolo determinante nell’origine di questa passione4. Giamaicano di seconda generazione, londinese, oggi regista e disc jockey della BBC, a metà degli anni Settanta Letts lavorava come commesso da “Acme Attractions”, uno scantinato adibito a negozio di abbigliamento usato, a pochi passi da un luogo fondamentale della storia del punk: la boutique di Vivienne Westwood e Malcolm McLaren, al centro della scena fashion di Kings Road a Londra. Ma in realtà è lo stesso Letts a smentire che le cose stiano in questi termini: «La gente si è fatta l’idea sbagliata che sia stato io a convertire al reggae tutti i punk […]. Non è vero […] punk come Paul Simonon, Joe Strummer e John Lydon erano già stati conquistati dal reggae prima che comparissi io», «quei ragazzi se ne intendevano di reggae ed erano seriamente interessati alla roba che mettevo sul piatto»5. Oltre a comprare capi d’abbigliamento infatti, giù da “Acme Attractions” era possibile ascoltare i dischi reggae che Letts suonava6. «A Lydon e ai ragazzi dei Clash piaceva la musica che mettevo in negozio e da lì abbiamo capito di avere interessi in comune. Gli garbavano i giri di basso e il fatto che le canzoni avessero un significato. E non disprezzavano neanche l’erba»7.

Il fatto che ragazzi bianchi e inglesi degli anni Settanta, come Lydon, Strummer e Simonon, se ne intendessero di un genere giamaicano e nero come il reggae non deve sorprendere: ciò era dovuto al melting pot di certi quartieri delle grandi città del Regno Unito che, a partire dal secondo dopoguerra, cominciarono ad essere sempre più popolati da immigrati delle “Indie Occidentali”. Era il 1948 quando la prima ondata approdò al porto di Tilbury da Kingston, a bordo della nave SS Empire Windrush, e si stima fossero intorno ai 160.000 gli immigrati caraibici che alla fine degli anni Cinquanta risiedevano in Gran Bretagna8. A Londra popolavano, tra gli altri, i quartieri di Brixton, Finsbury Park e Notting Hill.Poiché la maggioranza dei caraibici era giamaicana, furono i costumi dell’isola quelli che divennero dominanti in quelle comunità, come la cultura dei “sound system”. Questi fecero la loro apparizione nei primissimi anni Cinquanta nei ghetti di Kingston: erano dei camion sui cui cassoni venivano caricati un generatore di corrente, dei giradischi, ed enormi altoparlanti, per organizzare degli street party. Il primo sound system anglo-caraibico fu invece allestito nel 1955 da Duke Vin, il “Duke Vin the Tickler’s” attivo a Ladbroke Grove nell’area di Notting Hill a Londra9. Negli stessi anni, sempre per fare festa “inna Kingston style”, “in stile Kingston”, si diffusero a Londra anche i blues party. Erano feste organizzate in osterie illegali, allestite in case private o scantinati, dove si ascoltava e ballava musica diffusa dalle casse di un grammofono casalingo e si consumavano alcol, cannabis e curry di capra.

Suonato nei quartieri abitati dai caraibici, nei blues party e dai numerosi sound system che seguirono l’esempio di Duke Vin, nella prima metà degli anni Sessanta, lo ska fu il primo genere musicale giamaicano a raggiungere una certa popolarità in Inghilterra10. Fui poi la volta, nella seconda metà degli anni Sessanta, del rocksteady e dell’early reggae, successive evoluzioni dello ska che ebbero grande successo di vendita11.

Nel 1972 uscì il film “The Harder They Come”, che raccontava la storia di Ivan, un ragazzo della campagna giamaicana, interpretato dal cantante Jimmy Cliff, che alla morte della nonna si trasferisce a Kingston per cercare lavoro e iniziare una carriera come cantante, ma che a causa delle circostanze avverse finisce col diventare un fuorilegge, uno spacciatore di marijuana perseguitato dalla polizia. “The Harder They Come” racconta una vicenda in cui gli immigrati di seconda generazione – che, se non vi erano nati, avevano passato oltre metà della loro vita in Inghilterra – potevano identificarsi12. Questi ragazzi infatti, nonostante non sapessero molto delle loro origini giamaicane, erano spesso trattati come fuorilegge, o diventavano tali, anche a causa del “razzismo istituzionale” inglese che, quando non li perseguitava, ne limitava le possibilità di realizzazione sociale. Furono invece i sound system e i blues party dove, come sempre era avvenuto, si suonava la musica che proveniva dalla madrepatria, a dare a questi ragazzi in crisi una identità comune in cui riconoscersi, attraverso il roots: un nuovo sviluppo della musica reggae, caratterizzato da un ritmo rilassato ed ipnotico, con il basso elettrico in primo piano, le cui tematiche erano riferite alla riscoperta di “roots and culture” – le radici della cultura giamaicana che venivano individuate nella religione rastafariana e nell’afro-centrismo – e alla resistenza e alla ribellione contro “Babilonia”, metafora di un paese governato da un potere ingiusto e corrotto.

Questo deciso virare della musica giamaicana su temi religiosi, politici e sociali – sostanzialmente assenti nei dischi ska, rocksteady e early reggae – era determinato dalla situazione in Giamaica: un paese funestato dalla povertà, ereditata dagli anni del colonialismo, e dai continui scontri politici tra due fazioni rivali che si contendevano il potere da quando, nel 1962, l’isola aveva ottenuto l’indipendenza. A fronteggiarsi per le strade a colpi di arma da fuoco erano i socialisti del People’s National Party guidato da Michael Manley, che nel 1972 erano al governo del paese, e i conservatori del Jamaica Labour Party guidato da Edward Seaga.

La musica, le parole e le copertine dei dischi roots – tra i quali i fondamentali album di Bob Marley & The Wailers usciti tra il 1973 e il 1977: “Catch a Fire”, “Burnin’”, “Natty Dread”, “Rastaman Vibration” e “Exodus” – cominciarono a plasmare le idee, ma anche l’aspetto di tantissimi giovani anglo-caraibici. A metà decennio era ormai normale vedere ragazzi con i dreadlocks nelle strade di certi quartieri delle metropoli inglesi, mentre diversi musicisti cominciarono ad «esprimere le loro inquietudini in una protesta potente quanto tutto ciò che arrivava da Kingston»13. “Babilonia” nel loro caso era l’Inghilterra e i suoi quartieri degradati, fatti di casermoni e scuole diroccate, dove la gente viveva ammassata e affrontava una esistenza fatta di disoccupazione diffusa e di angherie razziste subite dalla polizia inglese14. Una protesta che non poteva lasciare indifferenti molti ragazzi bianchi che subivano la stessa mancanza di prospettive, che erano cresciuti negli stessi quartieri, che avevano frequentato le stesse scuole e che vivevano o sentivano di vivere una simile condizione da oppressi nell’Inghilterra dell’epoca.

Nell’estate londinese del 1976 si verificarono dei disordini tra neri e la polizia al carnevale caraibico di Notting Hill: una grande festa che si tiene ancora oggi, ogni anno, caratterizzata dalla presenza di numerosi sound system provenienti da tutto il paese. Già nel 1958 lo stesso quartiere era stato teatro scontri notturni tra neri insediatisi lì da poco e bianchi autoctoni, innescati da un’aggressione a sfondo razziale15. Nel 1976, l’arresto di un giovane nero per un presunto tentativo di borseggio degenerò in una rivolta. I reparti anti-sommossa e le Rover 2000 della polizia, che sfrecciavano nelle strade del quartiere per portare rinforzi, furono bersagliati da pietre, mattoni, bottiglie e lattine. Un cellulare della polizia fu dato alle fiamme. Dopo gli scontri più di cento agenti dovettero ricorrere a cure mediche in ospedale. Finirono in ospedale anche circa sessanta partecipanti e altrettanti furono gli arresti.

Ai disordini di Notting Hill presero parte i giovani punk, Paul Simonon e Joe Strummer dei Clash, che quel giorno passeggiavano per le strade sotto la Westway, dove si svolgeva il carnevale, facendosi prendere dal reggae prima e dagli scontri con la polizia dopo. Per Strummer non fu difficile immedesimarsi: all’epoca aveva 24 anni e aveva passato gli anni precedenti «a suonare per strada e a vivere in case occupate, continuamente cacciato, continuamente molestato, continuamente testimone dei soprusi compiuti dalla polizia contro le minoranze razziali»16. Per Simonon fu naturale immedesimarsi: era cresciuto a Brixton – nei pressi della famigerata zona chiamata “Front Line”, dove scoppiavano regolarmente disordini tra immigrati delle Indie Occidentali e la polizia – e nella stessa Notting Hill: erano di origine caraibica molti dei suoi compagni di scuola e amici di infanzia, con i quali aveva condiviso la passione per la musica reggae.

I fatti di Notting Hill furono di grande ispirazione per i Clash. Il testo del loro primo singolo “White Riot” – «i neri hanno un mucchio di problemi, ma non esitano a tirare un mattone; i bianchi vanno a scuola, dove ti insegnano ad essere scemo» – incitava i bianchi a ribellarsi e a combattere nelle strade come avevano fatto i neri al carnevale. Nella copertina del disco i membri del gruppo indossano capi di abbigliamento, tute da lavoro e camicie, sui quali avevano tracciato slogan come “Heavy Duty Discipline” (Disciplina a prova di bomba) e “Heavy Manners” (Brutte maniere), mutuati dalle canzoni dell’artista giamaicano Prince Far I. Il passo successivo fu includere nel loro album di debutto una cover di una canzone roots reggae: “Police And Thieves” di Junior Murvin, che, in quel periodo, insieme ad altre come “War ina Babylon” di Max Romeo and The Upsetters e “Legalize It” di Peter Tosh, tutte uscite nel 1976, era possibile sentire «dappertutto, in ogni club in cui si andava a ballare». «Frequentavamo le feste giamaicane, ovunque ci lasciassero entrare senza problemi» raccontava Joe Strummer17. Sempre più appassionati dal roots reggae, di cui amavano le sonorità ma soprattutto l’attitudine ribelle e i testi contro “Babilonia”, nel gennaio del 1978 lo stesso Strummer e Mick Jones intrapresero un viaggio a Kingston allo scopo di comporre nuovo materiale. Non è chiaro che tipo di esperienza, magari “rivoluzionaria”, credevano di fare, ma è certo che la situazione in cui si ritrovarono – una zona della città dove la gente viveva a livelli di povertà estrema e nella notte si sentivano colpi di arma da fuoco – anziché stimolarli sul piano artistico li intimorì a tal punto da convincerli a circolare il meno possibile in quella città ostile18.

Deludente era stata anche l’esperienza vissuta da Strummer pochi mesi prima, nell’estate del 1977, quando aveva partecipato a un concerto reggae all’Hammersmith Palais, una sala concerti londinese. L’evento ispirò il testo della canzone “White Man in Hammersmith Palais”, in cui Strummer esprime il suo disappunto per essere andato alla ricerca di una pura esperienza “roots rebel” ed essersi ritrovato coinvolto in uno spettacolo semplicemente evasivo e privo di contenuti. Nella stessa canzone in cui Strummer si pone interrogativi sull’eccessiva fascinazione romantica che aveva sviluppato per il roots, in un testo che rappresenta un notevole passo avanti, dal punto di vista lirico, rispetto agli slogan di “White Riot”, i Clash fanno un altrettanto notevole passo avanti dal punto di vista musicale: la capacità di fondere in maniera originale generi musicali diversi come il punk e il reggae divenne un caratteristica precisa dello stile del gruppo, ormai orientato verso quel sound “globale” che farà di “London Calling” un disco epocale.

Nello stesso gennaio del 1978 in cui Joe Strummer e Mick Jones si trovavano in Giamaica, i Sex Pistols erano in tour negli Stati Uniti e prossimi alla fine. Il più talentuoso ed eclettico di loro, John Lydon, era stanco del suo personaggio, “Johnny Rotten”, ma, soprattutto, stanco della musica dei Sex Pistols. In quei giorni, tra una data e l’altra, Lydon tentò invano di far sperimentare al gruppo una canzone nuova. «Composi Religion durante la tournée» – sarà una delle canzoni del primo album dei PIL – «volevo allontanarli dai tre accordi del R&R e portarli verso cose più stuzzicanti»19. Lydon aveva da sempre gusti molto più diversificati e raffinati di quanto la sua immagine da “re del punk” lasciasse intendere: «Mi piacciono tutti i generi di musica» aveva confessato nell’estate del 1977 a “The Punk and His Music”, un programma andato in onda sulla stazione londinese Capital Radio, durante il quale fece delle proposte musicali che lasciarono sbigottiti i fan più ortodossi dei Sex Pistols. La maggior parte di queste testimoniavano della sua passione per il reggae, chicche roots e dub20 come “Born for a Purpose” di Dr Alimantado, “I’m not Ashamed” dei Culture e “King Tubby Meets the Rockers Uptown” di Augustus Pablo21. Una passione, quella di Lydon per la musica giamaicana, che risaliva, come per Paul Simonon, al periodo all’adolescenza, nei primi anni Settanta, nel suo caso passata nel quartiere multietnico di Finsbury Park, dove la sua famiglia di origine irlandese aveva ottenuto una casa popolare. In quegli anni, di giorno passava le giornate presso un negozietto reggae sotto la stazione del quartiere – «dovetti frequentarlo per un anno, coi miei capelli lunghi e la camicia di cotone grezzo, prima di sapere cosa ordinare: la clientela nera era talmente ostile e sorpresa che dovevo aspettare finché il negozio si svuotava»22 – mentre di sera si avventurava con gli amici nell’esplorazione dei sound system e dei blues party, abitudine che mantenne anche durante e dopo l’esperienza con i Sex Pistols.

Tale era la sua passione e preparazione in materia che, dopo la fine dell’esperienza dei Sex Pistols, nel febbraio 1978, Richard Branson della Virgin Records decise di coinvolgerlo in qualità di esperto in un viaggio in Giamaica il cui fine era quello di fare audizioni e mettere sotto contratto degli artisti reggae23.

Al ritorno dai Caraibi, Lydon impiegò ciò che gli restava dei soldi guadagnati con i Sex Pistols per versare l’anticipo di una casa al numero 45 di Gunter Grove, una villetta a schiera dell’epoca vittoriana nella zona più degradata del quartiere Chelsea. A Gunter Grove il frigo era sempre fornito di birra chiara, cannabis e anfetamina circolavano liberamente per la casa, e ogni sera si faceva festa con numerosi invitati, grazie agli enormi altoparlanti sistemati nel soggiorno che pompavano i bassi di una colonna sonora roots e dub senza soluzione di continuità.

Da frequentatore dei blues party, l’idea di Lydon era di ricreare quelle situazioni – in cui «un effetto di basso appena decente poteva spaziare dall’heavy all’apocalittico», «mentre il baccano del pubblico […] accentuava la sensazione di claustrofobia con urla, applausi e sbattere di lattine rinforzati da un gioioso frastuono di fischietti, tamburelli e clacson»24 – nella casa che aveva scelto per riunire il suo nuovo gruppo e trarne ispirazione. Era questo tipo di esperienza sonora che Lydon voleva realizzare con i PIL, il cui sound doveva essere caratterizzato dal suono del basso «in primo piano», come ricorda Jah Wobble che del gruppo fu il primo bassista. Ma Lydon e i PIL non guardavano solo alla musica giamaicana come fonte di ispirazione. Uno dei generi musicali più sperimentali degli anni Settanta proveniva dalla Germania ed era quello che i giornalisti inglesi avevano sprezzantemente chiamato “krautrock”, caratterizzato dal cosiddetto “motorik beat”: un ritmo di batteria metronimico, ipnotico e ripetitivo, inventato da Jaki Liezebeit, batterista dei Can, ispirato dal tribalismo africano. Queste coordinate musicali appartenevano all’orizzonte di John Lydon, che tra le proposte presentate alla trasmissione di Capital Radio, aveva inserito anche un ritmo “motorik” come “Halleluhwah” dei Can, canzone presente nel disco “Tago Mago”, come ricorda Don Letts un altro degli ascolti fissi a Gunter Grove25.

Basso giamaicano e ritmi di batteria afro-teutonici erano le basi a partire dalle quali Lydon voleva lasciarsi alle spalle il punk inglese, di cui era stato il simbolo, ma che in realtà aveva sempre considerato un genere derivativo rock’n’roll, del tutto privo di elementi interessanti dal punto di vista musicale. Il primo album dei PIL però, “Public Image”, è ancora caratterizzato da un sound per certi versi debitore dei Sex Pistols, che tuttavia, come ha scritto il critico Simon Reynolds, fa «intravedere come sarebbe stato “Never Mind the Bollocks” se la sensibilità reggae-krautrock di Lydon avesse prevalso»26. Non è il caso di “Metal Box”, che è invece l’album in cui i PIL portarono alle estreme conseguenze la parabola del punk, la cui promessa era quella di archiviare tutta la musica precedente, riuscendo nell’impresa di archiviare il punk stesso.


Note

1 A corredo di questo articolo ho voluto creare una piccola playlist con alcune delle canzoni citate, reperibile all’indirizzo: http://open.spotify.com/user/1166953357/playlist/3BMLanWWv8ljuZJRBEaIWP?si=CbdhyGWRRri6hZzNlei_OA.

2 Giuliano Santoro, La guerra è dichiarata e la battaglia inizia, in “Jacobin Italia”, consultabile all’indirizzo http://jacobinitalia.it/la-guerra-e-dichiarata-e-la-battaglia-inizia/.

3 Ibid.

4 Per esempio, nell’interessante Storia del punk edita qualche anno fa da Hoepli, l’autore Stefano Gilardino scrive: «Il matrimonio a sorpresa tra punk e reggae è la dimostrazione di come, spesso, le intuizioni più geniali nascano in maniera spontanea e naturale. Questa fruttuosa unione dura dal 1976 e ha regalato incroci meravigliosi, confermando la regola che vuole la contaminazione come soluzione privilegiata per un’evoluzione artistica autenticamente rivoluzionaria. L’idea, in questo caso, viene a un giovane rasta britannico, figlio di immigrati giamaicani e domiciliato a Brixton, quartiere nero londinese per eccellenza. Il suo nome è Don Letts […]. Se nel DNA dei Clash e in quello del futuro Rotten ci sono tracce di musica caraibica, il merito è principalmente suo». Cfr. Stefano Gilardino, La storia del punk, Hoepli, Milano 2017, pp. 65-66.

5 Letts è un testimone privilegiato che viene sempre interpellato dagli autori dei libri sui Clash, i Sex Pistols e sulla scena punk londinese di quegli anni. Queste dichiarazioni sono tratte rispettivamente da una delle migliori storie dei Clash ad opera di Pat Gilbert, The Clash, death or glory. La vera storia, Arcana, Roma 2011 (1a ed. inglese 2004), p. 168, e dall’autobiografia dello stesso Don Letts, Punk & dread. Quando la cultura giamaicana incontrò il punk, Shake, Milano 2015 (1a ed. inglese 2006), p. 66.

6 Letts è anche noto per essere stato il dj del Roxy, il primo locale punk di Londra, attivo dal dicembre 1976 all’aprile 1977. Non avendo a disposizione una vasta scelta di dischi di un genere appena nato come il punk, per riempire gli spazi tra i gruppi che si esibivano dal vivo, Letts metteva su i dischi reggae della sua collezione. Per farsi un’idea di quelle serate ascoltate la compilation “Dread Meets Punk Rockers Uptown” dai lui curata e per sua stessa ammissione «una selezione di quello che mettevo al Roxy e nello scantinato dell’Acme Attractions». Letts, Punk & dread, cit., p. 76.

7 Ivi, p. 66.

8 La cifra è riportata a p. 91 dell’opera fondamentale sul reggae giamaicano e britannico scritta da Lloyd Bradley, Bass Culture. La musica dalla Giamaica: ska, rock steady, roots reggae, dub e dancehall, Shake, Milano 2008 (1a ed. inglese 2000).

9 Cfr. ivi, p. 94.

10 Lo ska ebbe ampia diffusione anche grazie ai “mod”, un movimento giovanile dell’epoca, composto da ragazzi bianchi dei quartieri popolari che andavano in giro a cavallo dei loro scooter “Vespa” o “Lambretta”, vestiti con eleganza e impasticcati di anfetamine, che lo adottarono all’interno della loro colonna sonora. Forse, si ipotizza in Bass Culture, «era stata la vicinanza tra mod operai inglesi e neoimmigrati, nelle case popolari come sul posto di lavoro, a favorire questo genere di connubio culturale». Tra gli artisti ska, oggetto di un vero e proprio culto fu il cantante giamaicano Prince Buster, che «diventò un’icona mod, e durante le sue frequenti tournée trovò falangi di mod britannici pronti a scortarlo a cavallo del loro immancabile scooter da una data all’altra». Ivi, pp. 116-117.

11 Come già avvenne con i mod che avevano abbracciato lo ska, rocksteady e early reggae furono adottati come colonna sonora dagli skinhead, anche questo un movimento giovanile inglese nato dall’evoluzione del movimento mod. La crescente popolarità di questi generi musicali non sfuggì a Lee Gopthal che, a capo dell’etichetta Trojan Records, si mise a produrre dischi che andavano incontro a questa richiesta. Era la nascita di quello che sarebbe diventato noto come il “boom Trojan”, ufficializzato dalla hit-parade britannica del 15 novembre 1969 che vedeva tre singoli Trojan fra i primi venti: “Return of Django” degli Upsetters al quinto posto, “Wonderful World, Beautiful People” di Jimmy Cliff al settimo e “Liquidator” degli Harry J All Stars alla diciassettesima posizione. Fu la prima volta che un genere proveniente dalla Giamaica ebbe una presenza così massiccia nelle classifiche nazionali inglesi. Cfr. ivi, pp. 181 e sgg.

12 Il film ebbe uno strepitoso successo anche grazie alla sua colonna sonora che «fino al 1984, l’anno di “Legend”, l’antologia postuma di Bob Marley, è stato l’album di reggae più venduto di tutti i tempi». Ivi, p. 214.

13 Ivi, p. 289. Tra gli artisti anglo-caraibici che abbracciarono il roots reggae, vanno menzionati almeno Matumbi, Aswad, Steel Pulse, Misty in Roots e Delroy Washington.

14 All’epoca era in vigore la cosiddetta “sus law”: si trattava del diritto attribuito alla polizia di fermare e perquisire individui sospettati (“sus-pect”) di essere coinvolti in attività criminali, di cui la polizia abusò sistematicamente negli anni Settanta e Ottanta per molestare, in particolare, le minoranze razziali per mezzo di una routine di brutalità e molestie. Come racconta Bradley, anche le «serate dei sound system, i blues parties, le discoteche e i festival caraibici erano bersagli facili e frequenti, anzi, la semplice parola reggae era diventata sinonimo di “individui pericolosi che fumano sostanze illegali” e quindi le adunanze venivano interrotte con il pretesto della retata antidroga […]. Quando gli Steel Pulse in “Blues Dance Raid” descrivono vividamente la brutalità, i vandalismi e la cattiveria pura e semplice della distruzione di un sound system, raccontano fatti realmente avvenuti, non fantasia». Una storia simile è raccontata in “Babylon”, film diretto dal regista anglo-italiano Franco Rosso, ambientato nella Londra di fine anni Settanta, che racconta le vicende di un dj nero, del suo sound system di quartiere e delle difficoltà nel portarlo avanti a causa del razzismo e dell’ostilità da parte dei vicini e della polizia. Ivi, pp. 310 e sgg.

15 Il primo carnevale caraibico si tenne nella zona di St. Pancras nel gennaio del 1959. L’idea era quella di fare qualcosa per alzare il morale della comunità caraibica londinese dopo i disordini interrazziali dell’agosto precedente. Da quel momento in poi ogni anno, ad agosto, si tenne un carnevale che si spostò a Notting Hill nel 1965. La partecipazione al carnevale aumentò progressivamente negli anni e oggi il “Carnival” è diventato uno dei più importanti festival di strada in Europa, animato ogni anno da più di un milione di presenze. Cfr. Letts, Punk & dread, cit., pp. 70 e sgg.

16 Gilbert, The Clash, death or glory, cit., p. 131.

17 Riportato in Gilardino, La storia del punk, cit., pp. 51-52.

18 Sulla loro esperienza a Kingston, Strummer e Jones scrissero una canzone poi inclusa nel secondo album dei Clash, “Give ‘Em Enough Rope”, intitolata “Safe European Home”, il cui testo dice «sono stato in un posto dove ogni faccia bianca è un invito alla rapina, seduto qui nella mia sicura casa europea, non voglio più tornare laggiù».

19 Lo racconta Lydon a Jon Savage in Punk! I Sex Pistols e il rock inglese in rivolta, Arcana, Roma 1994 (1a ed. inglese 1991), p. 432.

20 Il dub è una variante del reggae che deve il suo nome alla pratica del “dubbing instrumental”, ovvero l’abitudine di pubblicare sul lato B dei singoli roots le versioni strumentali delle stesse canzoni manipolate dai produttori, che su di esse sperimentavano nuovi utilizzi del mixer, portando in risalto il basso e la batteria e aggiungendo effetti come il riverbero e l’eco (le cosiddette “dub version”). Da tale pratica si sviluppò, intorno alla metà degli anni Settanta, un vero e proprio genere musicale autonomo.

21 La trascrizione integrale dell’intervista e l’intera scaletta di proposte musicali fatte a “The punk and his music” sono riportate su fodderstompf.com, un ricco archivio “non ufficiale” sui PIL e John Lydon, all’indirizzo http://www.fodderstompf.com/ARCHIVES/REVIEWS%202/capital77.html#int.

22 Savage, Punk!, cit., p. 113.

23 Il viaggio di Lydon in Giamaica fu un’esperienza decisamente più felice di quella vissuta dai Clash appena un mese prima. I contratti siglati durante quel viaggio, grazie alla consulenza dell’ex Sex Pistols, con artisti quali Big Youth, U Roy, Burning Spear, gli Abyssinians, Prince Far I, i Gladiators, i Mighty Diamonds, i Twinkle Brothers, e Johnnie Clarke, convinsero Branson e la Virgin a fondare l’etichetta specializzata “Front Line” il cui successo fu tale che, come afferma Bradley in Bass Culture, «il suo logo con il pugno chiuso e il filo spinato diventò un simbolo di qualità nel mondo roots». Cit. Bradley, Bass Culture, cit., p. 330.

24 Ivi, p. 280.

25 Questo ricordo di Don Letts, è riportato nella prima autobiografia di John Lydon, Johnny Rotten. L’autobiografia, Arcana, Roma 2007 (1a ed. inglese 1994), p. 290.

26 Simon Reynolds, Post-punk. 1978-1984, Isbn, Milano 2010 (1a ed. inglese 2005), p. 46.