James Douglas Morrison alla sbarra. Ovvero: quando trasgredire era un affare serio

Well, I’ve been down so Goddamn long
That it looks like up to me
Well, I’ve been down so very damn long
That it looks like up to me
Yeah, why don’t one you people
C’mon and set me free
I said, warden, warden, warden
Won’t you break your lock and key
I said, warden, warden, warden
Won’t ya break your lock and key
Yeah, come along here, mister
C’mon and let the poor boy be
 
(The Doors, Been Down So Long, 1971; lyrics by Jim Morrison)

Era la sera del 2 marzo 2001, quando sul palco del Festival di Sanremo il “super ospite” Brian Molko, androgino leader sedicente carismatico di una band britannica non esattamente memorabile, i Placebo (non me vogliano gli eventuali fan, è mera questione di personal tastes), dopo avere omaggiato il pubblico televisivo nazionalpopolare col dito medio alzato a favore di telecamera, spaccò la sua Fender Stratocaster contro un amplificatore1. Atto di protesta contro una platea ingessata e ostile, lontana anni luce dall’essenza trasgressiva del rock & roll incarnata dalla band; questa la spiegazione del “ribelle” Molko, prontamente accompagnato fuori dal palco al grido di “scemo scemo”. Sì, come no: un atto davvero irriverente, spiazzante, rivoluzionario. Tralasciando il fatto che Pete Townshend degli Who disintegrava chitarre su chitarre già diversi anni prima che Brian Molko venisse al mondo, seguito poi da decine e decine di imitatori più o meno consapevoli, il punto vero è che nel momento in cui i Placebo davano – si fa per dire – spettacolo a Sanremo la carica provocatoria del rock si era esaurita già da molto tempo, riducendosi a stereotipo, a “posa”, quando non a vera e propria irritante macchietta.

Nei “favolosi anni Sessanta”, quando il rock ha vissuto la sua epifania, identificandosi appieno con la contestazione giovanile che dalle università della California finì per propagarsi per mezzo mondo, non era affatto così. Giusto o sbagliato che fosse, e talvolta confuso e qualunquistico2, il “ribellismo” dei giovani rockers, più o meno arbitrariamente auto-investitisi del ruolo di portavoce della loro generazione, scaturiva da un’attitudine sincera, da una “visione del mondo” realmente antagonistica. E, quel che più conta ai fini di questo articolo, poteva anche costare caro; assai più di un innocuo dileggio da parte di una perplessa platea sanremese.

L’esempio, almeno secondo me, più emblematico di questo atteggiamento è costituito dalla vicenda giudiziaria che riguardò Jim Morrison, il (non sedicente) carismatico frontman dei Doors, a seguito di un concerto al Dinner Key Auditorium di Miami3, Florida, il 1° marzo del 1969. All’epoca i Doors, formatisi a Los Angeles nell’estate del 19654, avevano pubblicato tre album nel giro di diciotto mesi5 e si trovavano all’apice della loro fama. Fama a cui, oltre alla indubbia bellezza e originalità delle canzoni, molto aveva contribuito la figura pubblica del non ancora ventiseienne figlio di un ammiraglio della US Navy, James Douglas Morrison: “l’onnipotente Re lucertola” nella sua stessa definizione6. Vero e proprio animale da palcoscenico, iper-sensuale, istrionico, sfacciato, provocatorio, Morrison aveva via via trasformato i concerti dei Doors in un qualcosa a metà strada fra il rituale sciamanico e il comizio di piazza, non di rado contrariando i suoi stessi compagni, preoccupati di contenerne gli eccessi, col passare del tempo fattisi sempre più alcolici. Non era la prima volta che un concerto dei Doors veniva interrotto bruscamente dall’irruzione della polizia (l’episodio più noto a New Heaven, Connecticut, il 9 dicembre 1967)7, ma sul palco del Dinner Key Auditorium e poi in un’aula di tribunale andò in scena qualcosa che assomigliava moltissimo a una resa dei conti: quella tra l’establishment e la “rivoluzione” giovanile.

Del resto, Richard Nixon si era da pochissimo insediato alla Casa Bianca, sospintovi da un’ondata ultra conservatrice cui si contrapponeva una protesta crescente, con al centro il conflitto in Vietnam, di cui i giovani (insieme all’ala più radicale del movimento nero) costituivano la spina dorsale. In questa “lotta tra due mondi” la musica rock rappresentava agli occhi di larga parte dell’opinione pubblica e della politica statunitensi un fattore fortemente destabilizzante. Se pure vi erano delle eccezioni, come un ormai paranoico Elvis Presley, che addirittura si sarebbe offerto di entrare nei servizi segreti per contrastare la diffusione delle droghe tra i giovani (proprio lui, che faceva uso smodato di anfetamine e di tranquillanti) e difendere i sacri valori americani contro l’avanzata del comunismo8, i più celebri musicisti rock, da John Lennon a Jimi Hendrix, da Bob Dylan fino appunto a Morrison, erano considerati “elementi pericolosi”, potenziali sobillatori, diretti o indiretti, delle masse govanili; e per questo tenuti sotto controllo da CIA ed FBI, come ormai ampiamente noto e dimostrato dalle carte di archivio desecretate9.

I fatti sono risaputi (non fosse altro perché al centro della celebre – a mio giudizio pessima – pellicola di Oliver Stone del 1991)10, sebbene ancora oggi mai interamente chiariti. In un auditorium stipato all’inverosimile in ogni ordine di posti, quasi il doppio della capienza consentita (ai concerti dei Doors l’over-booking era una pericolosa consuetudine, che sfuggiva al controllo della band), Morrison, arrivato in cospicuo ritardo e in evidente stato di alterazione alcolica, non in grado, o comunque pochissimo interessato a cantare, prese a provocare e ad aizzare il pubblico fino a esortarlo a uno strip-tease collettivo. In seguito, il lead singer dei Doors avrebbe dichiarato di aver voluto mettere alla prova la sua capacità di “controllare” e dominare i fans, ispirato dalle performance della compagnia teatrale newyorkese del Living Teathre11; fatto sta che dopo neanche un’ora dall’inizio del (non) concerto, mentre gli altri tre Doors, spaventati e arrabbiati col loro imprevedibile e umorale cantante, avevano già abbandonato il palco, il servizio d’ordine pose fine al tutto, riuscendo non si sa come a far sì che la calca dei quasi 12.000 spettatori, molti dei quali in preda alle più svariate sostanze allucinogene e ormai semi-svestiti, defluisse senza incidenti. 

Tre giorni più tardi, mentre la band, secondo una tabella di marcia prestabilita, villeggiava in Giamaica, il Dipartimento di polizia della Miami-Dade County spiccava ben sei mandati di arresto contro Morrison, con l’imputazione, fra le altre, di atti osceni ed esibizionismo. Il cantante – vi si leggeva – aveva esposto i genitali mimando una masturbazione. Non si sa da dove nascesse quell’accusa (nell’immediatezza dei fatti si disse da alcune foto pubblicate dal giornale «Miami Herald»12, ma, sebbene esistano in effetti numerose foto del concerto, nessuna ne è mai saltata fuori del gesto incriminato), visto che non si sarebbe trovato un solo testimone in grado di suffragarla oltre ogni ragionevole dubbio, ma tant’è: il dado era tratto. Sui Doors e sul loro leader si abbatté in men che non si dica la ritorsione dell’America puritana: tutti i concerti già in programma, con l’eccezione di un breve tour in Messico, che per l’occasione si dimostrò assai più tollerante del potente vicino, furono cancellati («The end of our live career, at least for a while»13, avrebbe ricordato il batterista John Densmore). Il 23 marzo, al Miami Orange Bowl, l’imponente impianto sportivo polifunzionale della città americana – anch’esso, come il Dinner Key Auditorium, oggi non più esistente –, si tenne il Rally for Decency (il raduno per la decenza), con la partecipazione di ben 30.000 persone, in un tripudio di salmi e di bandierine a stelle e strisce. Organizzato da un gruppo di studenti, per lo più cattolici, della Miami Springs High School guidati dal diciassettenne Mike Levesque, con il sostegno di una stazione radio locale e la benedizione dell’arcivescovo Coleman Francis Carroll (in verità un prelato di ampie vedute progressiste), il Rally, da cui erano tassativamente banditi «longhairs and weird dressers», voleva essere un grande rito espiatorio collettivo per la profanazione operata da Morrison14. Il presidente Nixon in persona si complimentò con il giovane Levesque per l’«iniziativa ammirevole» che – scriveva –, gli faceva ben sperare per il futuro della Nazione15. Si apriva così una sorta di santa crociata anti-rock, con Miami in prima linea, tant’è che di lì a poco il Municipio  della città stoppava un festival musicale di tre giorni che avrebbe dovuto iniziare il 1° aprile, con i Grateful Dead a fare da headliner, con la motivazione che «si trattava dello stesso tipo di persone e dello stesso tipo di musica dei Doors»16; paragone che, per inciso, forse per la reciproca acrimonia che divideva le due scene musicali di Frisco e di LA17, non piacque affatto ai diretti interessati («I took offense to that», così Densmore)18.

Non mancò, anche sul fronte opposto della barricata, chi si smarcò da Morrison e compagni, insinuando che si fosse trattato di una calcolata mossa pubblicitaria. Come la grande critica musicale Lillian Roxon, autrice di una seminale Rock Encyclopedia, che alla voce Doors, scritta proprio a ridosso dei fatti, commentando il calo di popolarità del gruppo presso la comunità “alternativa” seguito all’uscita di Waiting For The Sun, che la stampa della controcultura aveva tacciato di eccessiva commercializzazione19, concludeva causticamente:

Things are looking up for the Doors. One more bust and they’ll be back in favor with the underground20.

Ma se di mossa pubblicitaria si trattò (e davvero non lo fu), fu una pubblicità pagata a caro prezzo. Il processo contro Morrison (The State of Florida vs James Douglas Morrison) ebbe inizio il 10 agosto 1970 dinanzi alla Dade County Courthouse di Miami e si concluse 40 giorni più tardi, dopo ben 16 udienze, affollate di pubblico e di cronisti, e una pletora di testimonianze, nessuna delle quali, come detto, fu in grado di provare che l’imputato avesse effettivamente commesso atti osceni21. Morrison, che era assistito dall’avvocato Max Fink, tenne, durante tutta la durata del dibattimento, un comportamento assolutamente ineccepibile. Chiamato a deporre in due sedute, il 16 e 17 settembre, il cantante rispose con calma e cognizione a ogni domanda. Infine, il 20 settembre, la corte, presieduta dal giudice Murray Goodman, pronunciò il verdetto emesso dalla giuria di sei elementi (quattro uomini e due donne): Morrison venne assolto dalle imputazioni di comportamenti indecenti e ubriachezza molesta (lewd and lascivious behavior; public drunkness) ma fu condannato per oltraggio al pudore e volgarità gratuita (indecente exposure; open profanity). Scortato alla Dade County Jail, fu rilasciato qualche ora dopo dietro una garanzia fideiussoria di 50.000 dollari. La sentenza definitiva venne fissata inizialmente per il 23 ottobre, quindi posticipata al 30. Il leader dei Doors rischiava fino a otto mesi di reclusione, oltre a una sanzione pecuniaria. Intervistato il 13 ottobre dalla giornalista rock Salli Stevenson, Morrison ammise la colpa di open profanity ma annunciò che avrebbe fatto ricorso contro l’imputazione di oltraggio al pudore. Aggiungendo in ogni caso che anche la prima accusa avrebbe potuto essere impugnata in virtù di un recente pronunciamento della Suprema Corte che garantiva la massima libertà di espressione nell’ambito delle performance artistiche in nome del Primo Emendamento22. La questione di fondo, comunque, gli pareva un’altra, assai più grave.

Penso che più che di uno scandalo sessuale si sia trattato di una questione politica. Penso che abbiano calcato sugli aspetti sessuali perché non avevano elementi sufficienti per condannarmi sul piano politico […] Credo che a essere processato sia stato uno stile di vita, piuttosto che il mio caso specifico23.

Il 30 ottobre la sentenza definitiva condannò Morrison a 500 dollari di multa e sei mesi di carcere, che poté evitare in virtù della precedente garanzia fideiussoria. Il processo di appello non si sarebbe mai celebrato perché nel frattempo, trasferitosi in Francia con la compagna Pamela Courson, il fondatore dei Doors morì nel suo appartamento parigino il 3 luglio del 1971, per cause mai del tutto accertate. Nel dicembre 2010 l’allora governatore della Florida Charlie Crist gli concedeva la grazia postuma.

La morte dell’uomo pose dunque fine alla sua vicenda giudiziaria. Ma il personaggio Morrison era già morto da tempo, dinanzi alla sbarra del tribunale di Miami. Il Dioniso, lo sfrenato sacerdote del rock, era scomparso per sempre. Basta dare un’occhiata ai video dei (pochi) concerti successivi al Dinner Key Auditorium e all’inizio dell’iter processuale. Fra tutti quello all’Isola di Wight del 29 agosto 1970, durante il grande festival che fu il canto del cigno di un’intera epoca, esordio di un tour europeo che la band dovette giocoforza interrompere per tornare precipitosamente negli USA. Morrison, pur offrendo una grande interpretazione vocale, vi appare spento, gli occhi chiusi, immobile o quasi davanti al microfono. Anche se la sua figura quasi ieratica, mentre nella luce intensa del crepuscolo sfumano le ultime note di The End, è forse la più potente ed evocativa di tutta la sua parabola artistica. Ma probabilmente, chissà, gli stessi fatti di Miami erano stati un incidente da lui voluto e cercato per cambiare vita. Perché stanco

dell’immagine che si era creata intorno a me, immagine che io stesso, talvolta consapevolmente, più spesso inconsapevolmente, avevo contribuito a costruire. Ma il gioco si era spinto troppo oltre, così ho deciso di porre fine a tutto quanto, in una unica sera gloriosa24.

Da cui la decisione di smettere una volta per tutte con il rock & roll (non prima però di averci regalato altri tre Lp, tra cui, ultimo, il capolavoro L. A. Woman) e di rifarsi un’identità lontano, a Parigi, sulle tracce dei suoi amati poeti simbolisti.

In un certo senso, il duello tra rock e “sistema” si era risolto a favore di quest’ultimo. Da quel momento in poi, strada facendo, anche il rock ne sarebbe divenuto sempre più parte integrante. Con buona pace di tutti i Brian Molko a venire.


Note

1 Sul “caso” Placebo/Sanremo si veda: https://www.rockol.it/news-706833/placebo-a-sanremo-spaccano-strumenti-cosa-e-successo-video?refresh_ce; ultimo accesso 24 marzo 2020.

2 Come altrimenti definire un brano, peraltro musicalmente straordinario, come Street Fighting Man dei Rolling Stones, prima traccia della facciata B del (fantastico) album Beggars Banquet, con versi ambigui come: Everywhere I hear the sound of marching, charging feet, boy ‘Cause summer’s here and the time is right for fighting in the street, boy Hey! think the time is right for a palace revolution, but where I live the game to play is compromise solution Hey, said my name is called Disturbance; I’ll shout and scream, I’ll kill the King, I’ll rail at all his servants Well now what can a poor boy do except to sing for a rock & roll band? Cause in sleepy London Town there’s just no place for a street fighting man, no. A proposito dei quali, nota il critico Richie Unterberger: «Perhaps they were saying they wished they could be on the front lines, but were not in the right place at the right time; perhaps they were saying, as John Lennon did in the Beatles’ Revolution, that they didn’t want to be involved in violent confrontation. Or perhaps they were even declaring indifference to the tumult» (https://www.allmusic.com/song/street-fighting-man-mt0006430249; ultimo accesso 25 marzo 2020). In ogni caso, pubblicato come singolo negli USA alla fine di agosto del 1968, ai margini della turbolenta Convention Democratica di Chicago, il brano fu messo all’indice da diverse radio americane per i presunti contenuti sovversivi, mentre l’originaria picture sleeve del 45 giri, raffigurante una foto di scontri di piazza tra polizia e manifestanti, venne prontamente ritirata dal mercato (motivo per cui oggi quella copertina è un ricercato e quotatissimo oggetto sul mercato collezionistico del vinile).

3 L’auditorium, ricavato nei primi anni Cinquanta da un vecchio hangar dismesso, non esiste più da qualche tempo; al suo posto sorge il nuovo Municipio della città di Miami.

4 La bibliografia sui Doors è sterminata. Dovendo operare una selezione scelgo Mike Jahn, Jim Morrison and the Doors. An unauthorized book, New York, Grosset & Dunlap, 1969, primissima biografia (non autorizzata) del gruppo, documentata, ben scritta e quanto mai interessante perché ce ne offre una visione in medias res, non filtrata dal senno del poi. Quindi il famosissimo e controverso Jerry Hopkins, Danny Sugerman, No One Here Gets Out Alive, Boston, Warner Books Inc., 1980 (prima edizione italiana Nessuno uscirà vivo di qui, Milano, Gammalibri, 1984), che, seguendo la pubblicazione nel 1978 del disco “postumo” di spoken word An American Prayer e l’utilizzo sapiente di The End per la colonna sonora del capolavoro di Francis Ford Coppola Apocalypse Now (1979), molto contribuì alla riscoperta mainstream del “mito” morrisoniano. Tra i titoli più recenti, senz’altro Greil Marcus, The Doors. A Lifetime of Listening to Five Mean Years, New York, PublicAffairs, 2011 (prima edizione italiana The Doors. Cinque anni di musica e parole, Bologna, Odoya, 2012); mentre nell’ambito dei memoir il miglior contributo, a parer mio, rimane quello del batterista dei Doors John Densmore, Riders on the storm. My life with Jim Morrison and The Doors, New York, Delacorte Press, 1990 (prima edizione italiana, Riders on the storm. La mia vita con Jim Morrison e i Doors, Roma, Arcana, 2011).

5 The Doors (gennaio 1967, EKL 4007/EKS 74007), Strange Days (settembre 1967, EKL 4014/EKS 74014), Waiting For The Sun (EKL 4024/EKS 74024). Date di pubblicazione e numeri di catalogo (mono/stereo) si riferiscono alle prime edizioni statunitensi.

6 I am the Lizard King, I can do anything, canta Morrison nel brano Not to touch the Earth, terza traccia del primo lato di Waiting For the Sun. I versi sono in realtà estratti da un poemetto dello stesso Morrison, The Celebration of The Lizard, riprodotto nella copertina interna dell’album.

7 Cfr. The first bust: Doors slammed for obscene reasons, in «Rolling Stone», 20 gennaio 1968; anche in The Rolling Stone Rock ‘n’ Roll reader, a cura di Ben Fong-Torres, New York, Bantam Books, 1974, pp. 199-200.

8 Era il 21 dicembre 1970 quando “the King of Rock & Roll” incontrò il 37° presidente degli Stati Uniti nello “Studio ovale” di Washington, offrendogli i suoi servigi per la causa americana; offerta che Nixon, pur apprezzando il gesto e l’intenzione, ritenne più conveniente declinare. Dall’episodio è stato tratto anche un film, Elvis & Nixon (2016), per la regia di Liza Johnson, protagonisti Michael Shannon e Kevin Spacey.

9 Su questi aspetti, cfr. Mimmo Franzinelli, Rock e servizi segreti: musicisti sotto tiro: da Pete Seeger a Jimi Hendrix a Fabrizio De Andrè, Torino, Bollati Boringhieri, 2010.

10 The Doors, con uno spiritato Val Kilmer nei panni del protagonista: ricostruzione come minimo stereotipata, quando non esageratamente macchiettistica, oltre che infarcita di inesattezze storiche, non solo della personalità di Morrison ma più in generale del clima dell’epoca. Come rimarcato in più circostanze, tra gli altri, dallo stesso tastierista dei Doors Ray Manzarek: «No, il film di Oliver Stone su Jim Morrison non mi è piaciuto per niente […] Stone ha fornito un ritratto di Jim non corrispondente alla realtà, lo ha fatto passare per un pazzo e un ubriacone ma Morrison non era solo questo. Era un artista, un personaggio pubblico e, soprattutto, una persona spiritosa. Nel film di Stone non ho mai visto, neanche una volta, Jim sorridere […] La cosa più bella è che Stone è venuto da me per intervistarmi e abbiamo parlato per due giorni interi. Io gli ho raccontato tutto su quegli anni, sul mondo psichedelico, sulla Los Angeles di allora; gli ho parlato di Jim il poeta, il ribelle, l’artista. Stone ha registrato tutto diligentemente su una cassetta. Peccato che non ne abbia tenuto conto: quando ho letto la sceneggiatura, non volevo credere ai miei occhi. Quella non era la storia dei Doors […] e quel Jim non è il vero Jim». http://www1.adnkronos.com/Archivio/AdnAgenzia/1995/06/02/Spettacolo/THE-DOORS-RAY-MANZAREK-CONTRO-OLIVER-STONE_175500.php (ultimo accesso 7 aprile 2020).

11 Sulla connessione tra Morrison e il Living Theatre, con riferimento anche all’episodio di Miami, ha scritto Daveth Milton, We want the world. Jim Morrison, the Living Theatre and the FBI, Birmingham, Bennion Kearny, 2012.

12 Cfr. John Burks, Uh-Oh, I think I exposed myself out there, «Rolling Stone», 5 aprile 1968, in The Rolling Stone Rock ‘n’ Roll reader, cit., pp. 203-208, p. 204.

13 John Densmore, op. cit., p. 222.

14 Cfr. Morrison’s penis is indecent, «Rolling Stone», 19 aprile 1969, in The Rolling Stone Rock ‘n’ Roll reader, cit., pp. 208-210.

15 Il testo completo della lettera, datata 25 marzo 1969, si può leggere in Public papers of the Presidents of The United States. Richard Nixon. Containing the Public Messages, Speeches, and Statements of the President, 1969, Washington, United States Government Printing Office, 1971, p. 255.

16 Morrison’s penis is indecent, cit., p. 209.

17 Del “conflitto” tra le due scene ho scritto brevemente in It was fifty years ago today. Riflessioni critiche di un non critico sull’anno più importante della storia del rock, in «Clionet. Per un senso del tempo e dei luoghi», n. 1, 2017, p. 129.

18 John Densmore, op. cit., p. 230.

19 «Has someone discovered that with a little priming The Doors albums can sell real big?» si chiedeva il giovane critico Rich Mangelsdorff, una delle migliori penne musicali della controcultura hippie, recensendo il disco per un foglio underground di Milwaukee («Kaleidoscope», vol. 1, n. 21, 23 agosto-12 settembre 1968).

20 Lillian Roxon, Rock encyclopedia, New York, Grosset & Dunlap, 1971, p. 152 (prima edizione 1969; edizione italiana Rock encyclopedia e altri scritti, Roma, Minimum Fax, 2014).

21 Cfr. Obscenity trial: a split decision, «Rolling Stone», 15 ottobre 1970, in The Rolling Stone Rock ‘n’ Roll reader, cit., pp. 212-213. Una dettagliata cronologia del processo in: http://mildequator.com/otherhistory/miami.html (ultimo accesso 21 aprile 2020).

22 Salli Stevenson, An interview with Jim Morrison, in «Circus», gennaio 1971.

23 «I think it was more of a political than sexual scandal. I think they picked on the erotic aspect, because there would really have been no political charge they could have brought against me […] I think that really it was a life style that was on trial more than my specific incident». Ibid.

24 «I think… I was just fed up with the image that had been created around me… which I sometimes consciously, most of the time unconsciously, cooperated with. It just… it got too much for me to really stomach and so I just put an end to it in one glorious evening». Ibid.