Adrian Younge e Ali Shaheed Muhammad: Jazz is Dead

Suona come una sentenza, il jazz è morto. È così che Ali Shaheed Muhammad e Adrian Younge lanciano il loro nuovo progetto discografico, “Jazz is Dead”.

Ma se il jazz è morto davvero, chi è l’assassino? Oppure si è trattato di un suicido o di un banale incidente? Per tentare di capire come sia andata e se ci sono dei colpevoli bisogna fare un passo indietro di qualche decennio, più o meno a metà degli anni Settanta. Per le strade di una difficilissima NYC, piena di violenza ed emarginazione, alcuni adolescenti tra Harlem e i quartieri limitrofi cominciarono ad organizzare feste in strada, nei playground e nei parchi. Si suonava con il giradischi di casa, il party si animava in rima con il microfono e si ricercavano nuovi stili di ballo. Stava nascendo l’hip-hop, un linguaggio in continua evoluzione, i cui confini non erano ancora ben definiti, ma che ben presto si sarebbe diffuso in tutto il mondo. Quello che alcune avanguardie di musica sperimentale avevano qualche tempo prima già mostrato, lo misero in pratica dei ragazzi per le strade di Harlem e del Bronx. Il concetto di sample, il campionamento, scintilla della rivoluzione digitale che da lì a poco avrebbe cambiato la vita di molti. Alla base c’era la necessità dei dj di allungare delle parti ritmiche di un brano (in gergo break) per rendere il ballo ancora più coinvolgente e dare spazio a quello che presto sarebbe diventato il rap. Il dj con due giradischi e due dischi uguali era in grado di “isolare” quel determinato break e ripeterlo all’infinito. Nasce una nuova estetica, un nuovo modo di concepire la musica, non più sviluppato su un flusso, bensì sulla ripetizione.

Per poter creare nuova musica i dj, quelli che poi divennero produttori, avevano un costante bisogno di trovare nuovi grooves, nuovi frammenti da campionare. La prima cosa da fare era spulciare tra le collezioni di dischi dei genitori tra i classici del soul, del r&b e del jazz. Da lì cominciò un vero e proprio viaggio nella storia della discografia.

In un certo senso il produttore di musica hip-hop, agiva come un’inconsapevole proto-storico. In gergo si dice digging, lo scavare negli archivi, nelle impolverate collezioni di dischi alla ricerca di quel frammento sconosciuto e irriconoscibile, che poi ritagliato, ricomposto e incollato come una specie di Frankenstein sonoro avrebbe fatto parte di una nuova creatura musicale. Questo processo fece sì che i produttori/digger, scovando impolverate gemme del passato, rintracciassero tesori sconosciuti, riscoprendo autori che il tempo aveva riposto nel dimenticatoio. In questo processo il supporto vinile e le sue copertine davano molte indicazioni importanti sul contenuto sonoro del disco. Uno strumento d’indagine fondamentale dove si trovavano informazioni essenziali per immaginare il contenuto di un disco: i musicisti e con quali strumenti avevano suonato, l’anno e lo studio di registrazione, la casa discografica ed eventuali altri aneddoti e informazioni tra le righe. Non bisogna dimenticare che si sta parlando dell’era pre-internet, senza Google e senza Discogs, in cui reperire informazioni era un’arte, un lavoro da detective. Intersecando informazioni alla ricerca ossessiva del sample perfetto si tenta di ricostruire i cataloghi di case discografiche, carriere di musicisti e compositori. Ogni produttore ha il suo patrimonio conoscitivo, il suo mosaico storico personale che custodisce con gelosia, cifra distintiva dello stile musicale delle sue produzioni. 

In questo nuovo modo di creare musica, i musicisti non avevano più un ruolo centrale come viventi, ma piuttosto per quello che avevano fatto e inciso su vinile. Chiunque poteva prendere un campione di Miles Davis e farne un nuovo brano, senza dovere avere Miles Davis in studio o nella propria cameretta. Possedere il disco di quella precisa testimonianza sonora impressa su vinile era il patrimonio da cui campionare il frammento desiderato.

L’hip-hop ha segnato un prima e un dopo nella musica del Novecento. Era nata una nuova forma e una nuova estetica, un qualcosa che si è autodefinito come “nuova cultura”, la musica afroamericana non sarebbe stata più la stessa. Per questo l’hip-hop potrebbe essere uno dei maggiori indiziati della morte del jazz.

Dagli anni Venti alla fine degli anni Settanta il jazz era mutato molteplici volte e forse negli anni Ottanta non era più particolarmente arzillo. Il jazz era già sulla cattiva strada, non era più quella musica scatenata da ballo delle grandi orchestre, non era più la musica del be-bop e della beat generation, non era più la musica dell’Harlem Renaissance e della black consciousness afroamericana, non era più la musica dell’avanguardia e del free jazz. In realtà non è mai esistito un solo jazz, ma dagli anni Ottanta, a parte qualche importante eccezione, il jazz era diventato la musica per compiacere l’establishment culturale borghese.

Forse l’hip-hop ha ucciso il jazz, ma il jazz forse è risorto grazie all’hip-hop. Del resto per diventare immortali bisogna prima morire. “Jazz is Dead”.

«Gli artisti jazz non sono stati solo un’ispirazione che ha plasmato il mio sviluppo come musicista, ma la loro musica è profondamente radicata nelle fondamenta della cultura hip-hop», afferma Ali Shaheed Muhammad dj, producer e musicista, un ottimo esempio di come un produttore hip-hop abbia riportato alla luce gemme più o meno sconosciute del passato. Fondatore dei A Tribe Called Quest (ATCQ), formazione leggendaria hip-hop, Ali Shaheed ha forgiato un particolare tipo di suono, uno stile unico e riconoscibile, classico, fatto per durare nel tempo.

Adrian Younge, polistrumentista autodidatta e ingegnere del suono, ha dedicato la sua vita allo studio della musica soul classica. Il background di Adrian è quello hip-hop ed è grazie all’hip-hop che scopre i classici del soul e del jazz. La sua ossessione è riportare in vita il tipico suono compreso tra il 1968 e il 1973. Un suono completamente analogico possibile da ricreare solo con strumenti originali. Le sue produzioni infatti sono prive di strumentazioni digitali. Il suo studio Linear Labs è a tutti gli effetti uno studio di registrazione a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. La sua idea è quella di creare una musica fatta per il passato, il presente e per il futuro. Divenuto celebre per le colonne sonore del film “Black Dynamite” e del serial di grande successo “Luke Cage”, Adrian Younge è fondatore tra le altre cose dell’etichetta discografica che porta lo stesso nome del suo studio, Linear Labs, a cui si è associato dal 2013 Ali Shaheed Muhammad.

“Jazz is Dead” potrebbe sembrare una provocazione, ma non lo è, piuttosto è un’idea che diventa prassi. È riportare la storia nella storia. Sancire la morte del jazz per riportare il jazz al centro del contemporaneo. Uno slogan sicuramente azzardato e forse un po’ presuntuoso nell’approccio ma efficace nel risultato. L’idea di base è riportare icone del jazz, che hanno influenzato la storia del sampling hip-hop, in uno studio di registrazione che suoni esattamente come suonavano gli studi di registrazione negli anni Settanta. Tra il 2018 e il 2019 è stata registrata al Linear Labs nuova musica composta da Ali Shaheed Muhammad e Adrian Younge assieme ad alcuni giganti come Roy Ayers, Gary Bartz, Brian Jackson, João Donato, Doug Carn, gli Azymuth e Marcos Valle. Con ciascun ospite è stato registrato un intero album che uscirà sotto il nome di “Jazz is Dead”. Un sogno diventato realtà per due produttori che hanno iniziato la loro carriera come dj, campionando i musicisti con cui ora collaborano. Il progetto “Jazz is Dead” nasce con il lancio di Jazz Is Dead 001, una compilation che offre un’anteprima degli album che saranno in uscita nei prossimi mesi.

Il volume due di “Jazz is Dead” è dedicato a Roy Ayers, icona del vibrafono, colui che ha forgiato il suono soul-jazz e autore di classici come “Everybody loves the Sunshine”, “Searching”, and “Running Away”. È stato campionato da Ali Shaeed Muhammad in alcuni tra i brani più importanti dei ATCQ come “Bonita Applebum”, “Keep It Rollin’” e “Description of a Fool”.

Nel febbraio 2018, Roy Ayers ha tenuto quattro concerti sold-out a Los Angeles, parte del “Jazz Is Dead Black History Month”. Proprio in quei giorni il leggendario vibrafonista ha registrato al Linear Labs un intero album inedito assieme ad Adrian Younge e Ali Shaheed Muhammad. L’album suona come se si trattasse di un lavoro oscuro degli anni Settanta mai pubblicato prima e riportato alla luce solo nel 2020. Un album che mantiene l’energia di quegli anni con brani che potrebbero essere tranquillamente campionati per futuri nuovi classici hip-hop.

Insieme ad Ayers, Younge e Shaheed Muhammad hanno partecipato alle session di registrazione il batterista Greg Paul, i vocalist Loren Oden, Joy Gilliam, Saudia Yasmein, Elgin Clark e Anitra Castleberry, nonché Phil Ranelin e Wendell Harrison della leggendaria etichetta di spiritual jazz Tribe Records.

Le 8 tracce di questo album testimoniano l’amore non solo per l’eredità di un musicista leggendario, ma anche per la vitalità e la necessità che questa musica e questi suoni vivano nel presente, un filo rosso che probabilmente attraverserà tutte le prossime uscite di “Jazz is Dead”.