Gastronomia e decostruzione dei miti: il caso degli spaghetti al pomodoro e della carbonara

In questi ultimi tempi di restrizioni dovute alla pandemia la dolorosissima chiusura dei ristoranti ci ha impedito per diversi mesi di intraprendere nuove esplorazioni gastronomiche fuori dalle mura domestiche. Ci è rimasta almeno la magra o grassa consolazione di poterci concentrare sulla cucina casalinga e di migliorare le nostre performance culinarie partendo, magari, da alcune ricette fondamentali del nostro paese e apparentemente di semplice preparazione come dei begli spaghetti al pomodoro o alla carbonara.

Che ce vo’ si direbbe nella capitale: un italiano non può ignorare piatti tanto facili e identitari non solo delle città di Napoli e Roma da cui provengono, ma ormai dell’intera penisola. Siamo tutti sicuri di conoscerne gli ingredienti e la preparazione e lo siamo, perché siamo certi di riferirci a tavole della legge scolpite nel marmo, a tradizioni ancestrali e immutabili trasmesse da nonne e trisavole ai fornelli.

Se ci limitiamo alla sola cucina capitolina gli elementi fondamentali che compongono la tavola periodica dei primi piatti sono P (pecorino), G (guanciale), Po (pomodoro) e U (uovo) e la loro combinazione sembra talmente lineare e infallibile che la si può riassumere in poche formule matematiche, assegnando un minimo margine di incertezza alle sole variabili p (pepe) e pp (peperoncino) per l’amatriciana:

P + p = CP (Cacio e pepe), P + p + G = GR (Gricia), P + pp (più raramente e meno correttamente p. Va aggiunto, invece, un tocco di vino bianco sfumato) + G + Po = A (Amatriciana), P + G + p + U = C (Carbonara).

Per la carbonara, dunque, non dovremmo avere alcuna esitazione e ancora meno per gli spaghetti al pomodoro: passata, aglio e basilico e, volendo una spruzzata di peperoncino, in modo da formare col rosso del sugo, il bianco della pasta e il verde della pianta aromatica un patriottico tricromatismo.

Il compito degli intellettuali, però, è di seminare dubbi, come diceva Norberto Bobbio. Così un docente universitario come Massimo Montanari e un giornalista del Corriere, Alessandro Trocino, si sono cimentati, con due divertenti e documentati libretti, nell’ardua impresa di demolire le certezze gastronomiche italiane perfino riguardo agli spaghetti e alle loro due ricette più note al mondo. La carbonara non esiste (Giunti 2019) è il titolo provocatorio, ma non troppo, del libro di Trocino che parte da una sconcertante constatazione: il piatto iconico della cucina dell’Urbe non compare in alcuno dei ricettari pubblicati fino al secondo dopoguerra che menzionano invece diverse specialità romane come l’abbacchio, i saltimbocca, i carciofi alla giudia. Anche le testimonianze di altre fonti, come la carta stampata e il cinema, risalgono al massimo agli anni ’50 del ‘900.

Le sorprese non finiscono qui, anzi. La prima ricetta della carbonara venne pubblicata negli Stati Uniti nel 1952 ed è presentata come specialità del ristorante Armando’s di Chicago, mentre la prima versione italiana, riportata dalla prestigiosa rivista La cucina italiana nel 1954 elencava tra gli ingredienti, aglio (aglio !!!), gruviera (gruviera !!!) e pancetta al posto del guanciale, una vera bestemmia all’interno e all’esterno del raccordo anulare. Le dolorose scoperte, in un crescendo agghiacciante, arrivano fino all’incredibile pretesa dello chef bolognese Renato Gualandi di aver inventato la carbonara in un Hotel di Riccione nel 1944 per degli ufficiali alleati mescolando tuorli d’uovo in polvere e pancetta. L’autore non si azzarda ad accreditare un’origine della ricetta tanto sconvolgente, ma ripercorrendo le diverse ipotesi storiche sul piatto e le numerose varianti reperite nei menù storici dei ristoranti romani, che oggi farebbero rabbrividire chiunque, formula una conclusione più generale e interessante. Porsi la domanda “quando è nata la carbonara?” è sbagliato, perché le abitudini culinarie sono il risultato di “sedimentazioni, strappi e contaminazioni” che non si possono vincolare in modo troppo rigido a un solo territorio e a una sola cultura. La carbonara che gustiamo oggi non è nata già formata come Atena dalla testa di Zeus, ma è il frutto della stratificazione e della diffusione di differenti esperienze, praticate soprattutto in ambito domestico e poi entrate nel circuito della ristorazione.

Molto simile l’approccio di Montanari nel suo Il mito delle origini, breve storia degli spaghetti al pomodoro (Laterza 2019). Il grande storico della cucina prende le mosse da un’interessante riflessione di Marc Bloch: le origini non sono un inizio che spiega, sono soltanto un punto di partenza, come una ghianda non è una quercia. Considerare le radici di un fenomeno – e qui si aggiunge l’intelligente analisi dell’antichista Maurizio Bettini – come immutabili e immutate appiattisce la riflessione sullo sviluppo di qualsiasi realtà e, in ultima analisi, esclude una considerazione propriamente storica delle vicende e delle creazioni umane. L’apparente semplicità degli spaghetti al pomodoro, piatto ormai identitario di Napoli e dell’Italia, frana miseramente davanti all’esame dell’evoluzione dei pur pochi ingredienti che lo compongono. In un interessante e documentato excursus diviso in brevi capitoli, Montanari ci mostra che l’arrivo a Napoli della pasta risale alla metà del XVII secolo quando l’industria pastaria soppiantò il cavolo e la carne, fino ad allora base dell’alimentazione partenopea. È stupefacente scoprire che a lungo si preferì la pasta che oggi definiremmo scotta – e che la si condiva quasi unicamente con uno o più formaggi grattugiati, come constatò Goethe visitando Napoli verso la fine del ‘700. La salsa al pomodoro si impose in Campania soltanto all’inizio del XIX secolo; prima la si considerava un sugo spagnolo, perché fu nella penisola iberica che il tomatl messicano venne schiacciato fino a formarne un liquido per accompagnare piatti diversi.

I lavori di Montanari e Trocino, insomma, ci mostrano quante influenze diverse e contaminazioni convergano in due semplici piatti di pasta fino mettere in dubbio le nostre convinzioni più consolidate e la stessa possibilità di affermare univocamente cosa siano la vera carbonara e i veri spaghetti al pomodoro. Sicuramente i piatti che oggi mangiamo e consideriamo tradizionali non sono che l’ultima versione di un processo lungo, complesso e non definitivo. Tuttavia, pur nella loro concordanza sulla tesi di fondo, Il mito delle origini e La carbonara non esiste non sono dello stesso valore: nell’opera di Montanari la ricchezza dei dati è organizzata con maggior chiarezza e profondità di analisi; il libro di Trocino, oltre a contenere uno spaventoso svarione – il letterato e gastronomo dell’800 Ippolito Cavalcanti viene menzionato come “amico di Dante (Alighieri !!!)” –, si perde nella seconda parte in dettagli poco utili come ad esempio i diversi modi di rompere il guscio dell’uovo.

Comunque sia, è sicuramente giusto proteggere i nostri tanti ottimi prodotti dalle terribili adulterazioni a cui sono sottoposti all’estero – per restare al nostro caso le carbonare inondate di panna e gli spaghetti al ketchup – che oltretutto generano danni non indifferenti alla nostra economia. Tuttavia, la gastronomia è diventata negli ultimi anni un elemento identitario ribadito con fin troppa insistenza e con punte di insopportabile integralismo. Richiamiamoci piuttosto alla dimensione del divenire anche in cucina e affermiamo con quel vecchio filosofo tedesco che “il vero è l’intero”. Da respingere, invece, il pensiero di quegli altri tedeschi di minor spessore intellettuale che vedevano nel sangue e nella terra (Blut und Boden) le origini immutabili del loro popolo e della loro cultura. Lasciamo perdere il sangue e gustiamoci un buon sugo di pomodoro.