Tutto il rock in una canzone? I Creedence Clearwater Revival e l’importanza di una “buona stampa”

Se è vero che la storia del rock è, fin dalle sue origini, costellata di miti, è altrettanto vero che molti di questi miti sono di costruzione relativamente recente, ovvero nati e cresciuti negli ultimi 20/25 anni. Soprattutto da quando l’editoria e la stampa specializzate, complice anche la pochezza della scena musicale pop/rock del nuovo millennio, han cominciato a guardare sempre più spesso al passato, indulgendo strada facendo a una vera e propria ossessione vintage1. Uno degli aspetti più interessanti di questo incessante viaggio a ritroso nel tempo è il “recupero” di artisti considerati più o meno sottovalutati (underrated il termine più ricorrente nella pubblicistica anglosassone), anche se magari, all’epoca, tutt’altro che ignorati o bistrattati dalla critica, quantunque senz’altro penalizzati, in termini di vendite, dalla concorrenza dei “colossi” che dominavano lo straripante panorama discografico degli anni Sessanta/Settanta. Mi vengono in mente, per fare solo due nomi fra i primissimi beneficiari di questa operazione di rivalutazione postuma, il crepuscolare singer-songwriter britannico Nick Drake, autore di tre dischi tra il 1969 e il 1972, e gli scoppiettanti Big Star di Chris Bell e Alex Chilton, due lp tra il 1972 e il 19742; assurti appunto, a prescindere dal loro indiscusso valore artistico, a miti assoluti, con conseguente, pressoché inestinguibile sfruttamento commerciale (l’industria del vintage musicale è infatti un fenomeno che si autoalimenta delle proprie stesse mitologie). Tanto da essere citati, sovente a sproposito, da chi non capisce niente di musica pop/rock quando voglia dare a intendere di capirne qualcosa.

Per contro, la pluridecennale vicenda del rock abbonda di artisti che, pur riscuotendo un grande successo di pubblico, e a volte proprio per questo, non hanno mai granché goduto del favore dei critici più sofisticati, sfuggendo così al meccanismo della “beatificazione” ex post. Tra questi, i californiani Creedence Clearwater Revival, formati dai Fratelli John e Tom Fogerty (rispettivamente: voce/chitarra solista e chitarra ritmica) e dalla granitica sezione ritmica di Doug “Cosmo” Clifford (batteria) e Stuart “Stu” Cook (basso), ne sono probabilmente l’esempio più noto3. Attivi per poco meno di cinque anni fra 1968 e il 1972, dopo una lunghissima gavetta iniziata nel 1959 prima sotto il nome di Blue Velvets poi di Golliwogs, i CCR, ennesima conferma della incredibile bulimia creativa dei tardi Sixties, sfornarono in quel breve lasso di tempo ben sette lp4; tutti di elevatissima fattura, fatta eccezione per l’ultimo, davvero esile, Mardi Gras, inciso in trio dopo l’abbandono di Tom Fogerty per insanabili divergenze col vulcanico (e un po’ dispotico) fratello minore. La loro musica è un amalgama di tutti i generi di american popular music: rock ‘n roll, blues, soul, country, folk, mischiati con rara sapienza dal genio compositivo di John Fogerty. Sette album da cui furono estratti decine di singoli, per lo più di enorme successo; da cui la nomea, che sempre li avrebbe accompagnati, di “gruppo da 45 giri”. Intendiamoci, i quattro ragazzi di El Cerrito erano effettivamente degli infallibili hit-makers con pochi rivali, in patria e Oltreoceano. Del resto, lasciando stare i Beatles che nel genere giocano un campionato a parte, riuscite a immaginare una melodia e un ritornello più accattivanti di, che so?, Have You Ever Seen the Rain? Per quanto mi riguarda no, anche se qui siamo nel campo, labile per definizione, dei gusti personali. Il fatto è che, in un’epoca in cui il rock era ormai entrato nell’età adulta e cercava, anche attraverso l’uso disinvolto di droghe lisergiche, nuovi orizzonti “progressivi” sulla scia aperta dagli stessi Beatles con Sgt. Pepper, i Creedence rischiavano di apparire quasi un residuo del passato. Quanto meno ad una prima analisi un po’ affrettata. Per il solito molto attenta, Lillian Roxon5, nel descrivere il loro primo lp per la sua Rock Encyclopedia, poneva l’accento sul recupero di un successo del 1957 di Dale Hawkins, Suzie Q.

Rock and roll wasn’t dead in 1968. It was just playing possum. Creedence Clearwater Revival proved that by reviving a mid-fifties hit Suzie Q and making it a mid-sixties hit, though they were an unknown group6.

Omettendo però di dire che, nel trattamento riservatole da John Fogerty, almeno nella versione lunga su 33 giri, quel famoso brano rock & roll era diventato una cavalcata elettrica di oltre otto minuti con un susseguirsi incalzante di assoli psichedelici7.

Caso più unico che raro, nelle liner notes scritte per il loro disco d’esordio (evidentemente senza alcuna supervisione da parte della band), il navigato critico Ralph J. Gleason, autore di un pioneristico studio sul sound di San Francisco8, nominava i Creedence solo nelle ultime cinque righe (su 78 totali), semplicemente definendoli «an excellent example of the Third Generation of San Francisco bands», cosa che i quattro non presero poi benissimo9; e non prima di avere sciorinato tutti i nomi del Gotha locale, dai Grateful Dead ai Jefferson Airplane, dai Big Brother & The Holding Company di Janis Joplin ai Moby Grape fino a Country Joe and The Fish. Insomma, si può ben dire che l’avventura del gruppo iniziò nel segno, se non certo della sottovalutazione, quanto meno della scarsa considerazione; uno stigma destinato ad accompagnarne l’intera carriera, alimentando il comprensibile risentimento di John Fogerty. Egli stesso, peraltro, vittima di una critica avara di complimenti, in quanto mai o quasi annoverato fra i migliori chitarristi della sua epoca, sebbene non gli mancassero affatto tecnica, passione e inventiva (ascoltare per credere l’incendiaria versione live proprio di Suzie Q, registrata il 14 marzo 1969 al Fillmore Auditorium di San Francisco, apparsa come bonus track nella edizione rimasterizzata in cd – 2008 – del primo album).

La verità è che nei Creedence la prevalente sensibilità pop non escludeva affatto la sperimentazione, anzi. Esempio perfetto di quanto dico è Ramble Tamble, il brano iniziale del quinto LP, quel Cosmo’s Factory universalmente considerato il loro apice creativo e una delle opere fondanti del rock americano di tutti i tempi. Il pezzo si apre su cadenze serrate, una sorta di rockabilly spiritato sul quale Fogerty, non nuovo a testi di denuncia socio-politica nell’ottica di quella working class da cui proveniva (Fortunate Son il titolo più celebre), tratteggia uno scenario paranoico; metafora di una nazione spaventata, impoverita, divisa, sprofondata dentro gli orrori del conflitto vietnamita.   

There’s mud in the water
Roach in the cellar
Bugs in the sugar
Mortgage on the home
There’s garbage on the sidewalk
Highways in the back yard
Police on the corner
Mortgage on the car
[…]They’re selling independence
Actors in the White House
Acid in digestion
Mortgage on my life10.

Poi, al minuto 1.52, il colpo di scena: un cambio di ritmo improvviso e il brano che si trasforma in un lento vortice magnetico, scandito dai colpi secchi della batteria, un saliscendi psichedelico di quasi quattro minuti lungo il quale Fogerty ricama un assolo ipnotico e lancinante che cresce su poche note sino alla ripresa, altrettanto spiazzante, del groove iniziale. È un’esperienza sonora unica, per me senza paragoni nella pur esuberante stagione creativa dei tardi anni Sessanta e per estensione, considerando io quel periodo il migliore in assoluto, nell’intera storia del rock. Azzardo, ma credo senza poi troppo esagerare, che se Ramble Tamble portasse la firma prestigiosa dei Dioscuri dei Led Zeppelin, Jimmy Page e Robert Plant, vi si sarebbero sprecate esegesi critiche. A onore del vero non mancano i riconoscimenti, per lo più postumi, anche al capolavoro dei CCR (Steven Hyden, titolare del podcast Celebration Rock, definisce Ramble Tamble «the most rockin’ song of all time»11; mentre Jeremy D. Larson evidenzia come il pezzo abbia, coscientemente o meno, influenzato alcuni dei migliori momenti dell’indie rock dei Novanta/Duemila)12; ma pur sempre, a mio modesto avviso, troppo pochi rispetto alla grandezza della canzone.

È singolare che il nadir della band si consumò proprio in questa dicotomia fra stardom commerciale e ricerca del consenso critico. Consapevoli del proprio valore e decisi a conquistare i favori del mondo schizzinoso dell’Underground, con l’ambizione di occupare lo spazio, equamente diviso fra classifica e riconoscimento artistico, lasciato vuoti dai disciolti Beatles (che peraltro avevano già ampiamente superato nelle vendite), in prossimità della pubblicazione dell’album Pendulum i Creedence fecero partire una campagna pubblicitaria a tamburo battente, affidata a una prestigiosa agenzia hollywoodiana di public relations (la Rogers & Cowan), che prevedeva anche la pubblicazione di un paperback biografico ad hoc (non esattamente memorabile)13, e che si concluse con una faraonica conferenza stampa presso il Claremont Hotel di Berkeley, ribattezzata The Night of the Generals, cui furono invitati tutti i più accreditati  giornalisti rock del Paese. Con esiti, sia detto, modesti, quando non controproducenti. Poco tempo dopo, con la polemica fuoriuscita di Tom Fogerty, la parabola della band si avviava a una mesta conclusione.

Se dopo il loro scioglimento, i Creedence Clearwater Revival non sono entrati dalla porta principale nell’olimpo dei grandi geni (incompresi) del rock, poco importa. Gli ascoltatori possono anche fare a meno dei critici. E a maggior ragione di quel che scrivo io. Questo detto, personalmente mi sembra che nei sette minuti di Ramble Tamble si concentri tutta la creatività poetica e rabbiosa di un periodo musicale irripetibile. Un’epoca che appare tanto più lontana e perduta in questa cacofonia di suoni omologati che durano spesso il tempo di un like.

Poi dice che uno guarda al passato con nostalgia.


Note

1 Su questo dilagante fenomeno, che ben possiamo definire di costume e che, per quanto possa sembrare paradossale, non coinvolge soltanto gli attempati nostalgici dell’età aurea del rock ‘n roll, ma anzi, e forse ancor più, i più curiosi fra i ventenni, si veda la bella lettura, peraltro assai critica, di Simon Reynolds (l’inventore del termine post-rock): Retromania. Musica, cultura pop e la nostra ossessione per il passato, Roma, Minimum Fax, 2017 (edizione originale, Retromania. Pop culture’s Addiction to its Own Past, New York, Farrar, Straus and Giroux, 2011).

2 Volendo tre, se consideriamo il postumo Third/Sister Lovers uscito nel 1978.

3 Nell’immagine di apertura dell’articolo: I Creedence Clearwater Revival durante le registrazioni dell’album Cosmo’s Factory. Da sinistra a destra in senso orario: Doug “Cosmo” Clifford, Tom Fogerty, “Stu” Cook, John Fogerty (Fotografia di DIDI ZILL). La bibliografia sui Creedence, tutta rigorosamente in lingua inglese, non è affatto vasta, a riprova dello scarso credito dato dalla critica “d’élite” alla band dei fratelli Fogerty. A parte la più classica delle biografie “non autorizzate”, ricolma di aneddottica, ovvero Hank Bordowitz, Bad Moon Rising. The Unofficial History of Creedence Clearwater Revival, New York, Schirmer Books, 1998; lettura senz’altro più approfondita è il volume collettaneo Finding Fogerty. Interdisciplinary Readings of John Fogerty and Creedence Clearwater Revival, a cura di Thomas M. Kitts, Lanham (MD) [etc.], Lexington Books, 2012. È poi opera imprescindibile, per quanto, com’è nello stile del personaggio, viziata da una qual certa autoreferenzialità, l’autobiografia di John Fogerty, Fortunate Son. My life, my music, New York, Little, Brown & Company, 2015; e consiglio altresì il gustoso libro di “memorie rock” di Jack Rohrer, per diversi anni sorta di “quasi manager” factotum dei Creedence: A Banquet of Consequences. True Life Adventures of Sex (not too much), Drugs (plenty), Rock & Roll (of course), and the Feds (who invited them?), Portland, Inkwater Press, 2014, che dedica ampio spazio alle vicissitudini del gruppo.

4 Nell’ordine: Creedence Clearwater Revival (Fantasy 8382), maggio 1968; Bayou Country (Fantasy 8387), gennaio 1969; Green River (Fantasy 8393), agosto 1969; Willy and the Poor Boys (Fantasy 8397), novembre 1969; Cosmo’s Factory (Fantasy 8402), luglio 1970; Pendulum (Fantasy 8410), novembre 1970; Mardi Gras (Fantasy 9404), aprile 1972. I numeri di catalogo si riferiscono alle prime edizioni USA, tutte stereofoniche.

5 Sulla figura di questa straordinaria scrittrice rock, nata ad Alassio nel ’32 da genitori ebrei-ucraini, emigrata in Australia con la famiglia per sottrarsi alle leggi razziali fasciste e infine approdata negli USA, si veda Robert Milliken, Mother of Rock. The Lillian Roxon Story, Melbourne, Black Inc., 2002.

6 Lillian Roxon, Rock encyclopedia, New York, Grosset & Dunlap, 1971, p. 127 (prima edizione 1969; edizione italiana Rock encyclopedia e altri scritti, Roma, Minimum Fax, 2014).

7 Versione, peraltro, destinata a diventare un canone. In Apocalypse Now, la (finta) band che accompagna le Playboy playmates chiamate ad allietare la truppa nelle retrovie mima Suzie Q nell’arrangiamento dei CCR. Paradossalmente, il brano, presente nella soundtrack del film di Coppola, è eseguito da un gruppo revivalista Fifties, i Flash Cadillac.

8 Ralph J. Gleason, The Jefferson Airplane and the San Francisco Sound, New York, Ballantine Books, 1969.

9 Tanto che sulla copertina di Cosmo’s Factory campeggia un cartello con la scritta “3d generation”; risposta (auto)ironica del gruppo alla anodina definizione di Gleason.

10 C’è fango nell’acqua/Scarafaggi in cantina/Insetti nello zucchero/Ipoteca sulla casa/C’è spazzatura sul marciapiede/Autostrade nel cortile sul retro/La polizia all’angolo/Ipoteca sulla macchina […] /Stanno vendendo l’indipendenza/Attori nella Casa Bianca/Acido nella digestione/Ipoteca sulla mia vita.

11 https://film.avclub.com/the-most-rockin-song-of-all-time-1798212215; ultimo accesso 9 marzo 2021.

12 https://pitchfork.com/thepitch/58-the-spirit-of-ramble-tamble/; ultimo accesso 9 marzo 2021.

13 Tranchant il giudizio di Jake Rohrer: «Then there was a crappy book, “Inside Creedence” written by John Hallowell. He may have been a fine writer for articles in Life magazine and the Los Angeles Times, but the book was transparent, forced and just plain silly». Jake Rohrer, A Memoir: The Fortunate Son, part 4 (20/5/2011), https://www.theava.com/archives/10983; ultimo accesso 1° aprile 2021. Si tratta del gradevole, ancorché effettivamente celebrativo e un po’ “piatto”, John Hallowell, Inside Creedence, New York, Bantam Books, 1971.