Dall’Africa a Woodstock, passando per Londra. Genesi della musica che cambiò il mondo

From Africa to Woodstock, passing through London. Genesis of the music that changed the world

In apertura: edizione speciale della rivista “Cover Life”, 1969. Woodstock Music Festival. Garry Lawrence/Alamy Foto Stock.

Negli anni della segregazione razziale e della lotta per i diritti civili, la potenza della musica afroamericana entrava nel sangue di Elvis Presley e lo portava a scalare le classifiche di tutto il mondo, rendendolo la prima vera rockstar nella storia dell’umanità. Il Re di Memphis fu talmente stregato e ispirato dal blues degli afroamericani che affermò di aver ricevuto «una chiamata ad essere nero»1. Ma quali erano gli elementi di rottura, le caratteristiche percepite dal pubblico come delle novità irresistibilmente attraenti, che permisero ad Elvis di scuotere il panorama socioculturale degli anni Cinquanta? E cos’hanno in comune l’Africa, Londra e il rock and roll? Dove nasce la rivoluzione culturale che a partire dagli anni Sessanta fece tremare l’Occidente elettrizzando i corpi di milioni di giovani pronti a rompere con la rigidità della tradizione?

La risposta giace, più viva che mai, nel Delta del Mississippi. E suona proprio come un vecchio blues.

1. La culla del blues. Il Mississippi Delta

Amiri Baraka, nella prefazione all’edizione italiana di Blues People. The Negro Experience in White America and the Music That Developed From It, afferma:

Il blues rispecchia sia gli stadi iniziali di un linguaggio e di un’esperienza musicale afroamericani, sia forme nuove, sviluppatesi dopo la Guerra civile, quando la cultura afroamericana non era più strettamente circoscritta ai riferimenti religiosi o alle restrizioni sociali della schiavitù. […] Il blues è una forma profana afroamericana, rurale e urbana. Quella rurale è la più antica, e risale all’epoca della schiavitù. Le diverse forme urbane riflettono, invece, il movimento storico e sociale dei primi neri che, dalla Guerra civile in avanti, si spostarono dalle piantagioni alle città meridionali e che, verso la fine degli anni Ottanta dell’Ottocento (ndr), iniziarono a spingersi verso nord per sfuggire all’opera di ricostruzione al Ku Klux Klan, oltre che per cercare un mondo nuovo2.

Nell’estate del 1944, la rivista americana “Time” stimò che dall’inizio del decennio erano già 50.000 i neri che avevano lasciato il Mississippi per andare su al nord. La Grande Migrazione iniziata con la Prima guerra mondiale non era ancora finita alla fine della seconda, eppure nel Delta la popolazione era ancora in stragrande maggioranza nera. Nella contea di Coahoma, c’erano tre neri per ogni bianco; in quella di Tunica, subito a nord, il rapporto era sette contro uno. Il Delta nel suo complesso annoverava 293.000 neri e 98.000 bianchi3.

Il Delta è una pianura piatta e fertile a forma di foglia che parte poco a sud di Memphis e arriva fino a Vicksburg, lunga circa trecento chilometri. Fu solo dopo gli anni della ricostruzione che la regione ricominciò ad attirare significativi investimenti. Per tutto l’Ottocento e per la prima parte del Novecento i neri emigrarono nel Delta attratti non soltanto dalla promessa di un lavoro ma dalla maggiore libertà garantita da un mercato delle braccia in espansione4.

Nelle piccole contee i bluesmen sfruttavano ogni angolo disponibile per mettersi a suonare e racimolare qualche spicciolo – spesso incappando nei giudizi negativi dei passanti, scandalizzati da quella musica così aggressiva e piena di testi dai contenuti non troppo prosaici. Nella penombra e nel fango del Delta, così lontano dalla frenesia delle città in continua espansione del Nord grazie all’opera spontanea di musicisti più interessati a guadagnarsi da vivere evitando il giogo della piantagione che a fare la storia, nacque una delle musiche più importanti del nostro tempo.

2. I musicisti del Delta. Da Robert Johnson a Muddy Waters

Uno di questi musicisti fu Robert Johnson, passato alla storia come il primo vero bluesman; il bluesman che vendette l’anima al diavolo in cambio di un’abilità chitarristica che lasciò il mondo a bocca aperta, destinata a cambiare la storia della musica per sempre.

Robert Johnson era determinato a non lasciare che la sua vita venisse assorbita dal fango del Delta. Intraprese la carriera del musicista di strada iniziando a suonare per i lavoratori nella piantagione di famiglia, ma si rese presto conto che i pochi spiccioli nelle mani dei mezzadri erano il massimo a cui poteva aspirare, e non erano sufficienti per vivere. Così, intraprese la strada del songster. Il suo sogno era esibirsi nei juke joints, locali dove la comunità afroamericana si ritrovava il sabato sera per ascoltare musica dal vivo o dai juke box, giocare d’azzardo, ballare e bere alcolici – dove i suoi idoli, Son House e Willie Brown, guadagnavano molto bene con la loro musica da tempo. Li seguiva di cittadina in cittadina strimpellando qualche blues improvvisato con le loro chitarre, ma il verdetto di Son House fu inappellabile: Robert Johnson non sarebbe mai divenuto un bluesman di successo. Il mito di Robert inizia proprio con questa scottatura, in seguito alla quale il musicista fece perdere le sue tracce per un anno. La leggenda vuole che Robert Johnson si sia recato all’incrocio («the crossroads»), un topos dell’hoodoo (una corrente esoterica afroamericana diffusa negli Stati ex-Confederati, derivante dal Voodoo) e si sia inginocchiato porgendo la chitarra al diavolo, che la accordò e chiese a Johnson se fosse stato disposto a barattare la sua anima per quella chitarra, e, ovviamente, che lui abbia accettato.

Quando fece ritorno a Robinsonville, Mississippi per assistere alla performance di Son House e Willie Brown, Robert Johnson entrò dentro al locale impugnando la sua chitarra. Quello che avvenne dopo, è ricordato come la miglior esibizione blues della storia, nonché l’origine dell’electric blues. Nessuno credeva a ciò che aveva visto e, soprattutto, ascoltato.

La storia di Robert Johnson è intrisa di magia nera e di hooodoo, una serie di credenze e rituali di cui la comunità afroamericana si avvaleva per esorcizzare le difficoltà della vita nel Sud degli Stati Uniti. La zona del Delta, infatti, era famosa per essere il più esteso terreno di caccia del Ku Klux Clan in tutta la ex-Confederazione. Qualunque nero, in particolare coloro che non si adattavano all’immagine del servo mezzadro squattrinato e nullatenente, poteva svegliarsi la mattina e trovare una croce a cui era stato dato fuoco durante la notte, o una dipinta sulle pareti esterne della casa. E allora, per il malcapitato c’era solo una cosa da fare: partire e cambiare nome, per evitare il linciaggio. Il Delta aveva la più alta percentuale di linciaggi in tutti gli Stati Uniti, tanto da diventare una sorta di minaccia utilizzata dai padroni al Nord per richiamare all’ordine i lavoratori afroamericani che non stavano dando il meglio di sé.

Toccò a Muddy Waters, all’anagrafe McKinley Morganfield, raccogliere l’eredità di Robert Johnson e portarla a Chicago. Muddy produceva il miglior whisky casalingo della zona, e si esibiva come bluesman da anni. Quando Alan Lomax e John Work, due cacciatori di canzoni folk della Library of Congress, avevano battuto da cima a fondo la zona di Clarksdale nell’estate del 1941 in cerca di Robert Johnson, non sapevano che qualcuno aveva di recente propinato un whisky con stricnina al più grande bluesman di sempre. Robert Johnson era morto, ma Lomax e Work erano convinti che c’erano altri musicisti in zona che suonavano bene quanto Johnson e avevano un seguito altrettanto devoto tra quelli che passavano il fine settimana a bere superalcolici distillati in casa e a giocare d’azzardo. Ce n’era uno in particolare che somigliava parecchio a Johnson: il suo nome era Muddy Waters. Robert aveva inciso solamente 29 pezzi con la American Record Company, ma questi avevano raggiunto ogni angolo del Delta, compresa la capanna di Morganfield.

Lomax lo pagava solo dieci dollari a canzone, ma garantiva che gli avrebbe spedito una copia del disco se la registrazione fosse stata all’altezza e Muddy, pur senza lasciarlo trasparire, sognava di realizzare un disco da quando ancora ragazzino aveva sentito per la prima volta Charley Patton. Nel luglio e agosto del 1942 Lomax tornò, stavolta registrando molti pezzi, e Muddy decise che era giunto il momento di lasciare la vita della piantagione – spinto anche delle continue discriminazioni salariali fra lui e gli stagionali bianchi – e partì per Chicago. La chitarra elettrica stava acquisendo popolarità in quegli anni, e Muddy e i suoi musicisti costituirono la prima vera band elettrica; la prima ad utilizzare l’amplificazione per rendere ancora più feroce e carnale la loro musica.

Muddy Waters ha così capitanato la trasformazione del blues del Delta da musica folklorica regionale a vera e propria musica popolare che prima conquistò un ampio seguito fra i neri, poi tra gli europei bianchi, e per finire in tutto il mondo, presso pubblici sterminati. Prima che Muddy Waters s’imponesse a Chicago, il blues del Delta era soltanto musica fatta da e per i neri del Delta. Chicago negli anni Venti, Trenta e Quaranta aveva le sue star del blues, che venivano da tanti posti (Tampa Red, Georgia Tom, Big Maceo dell’Alabama, John Lee “Sonny Boy” Williamson dal Tennessee), ma nei primi anni Cinquanta il blues di Chicago era già blues del Delta amplificato, e Muddy apriva la strada e dettava il passo5.

3. Il blues, dal Mississippi Delta all’Inghilterra

Muddy Waters si esibì per la prima volta in Inghilterra nel 1958, e cambiò per sempre la storia della musica. Il suo sound elettrico, pieno e fragoroso sconvolse un’intera generazione di musicisti pronti a raggiungere il successo.

I primi a raccogliere il testimone furono Keith Richards e Mick Jagger, membri fondatori dei Rolling Stones, nome che si diedero grazie alla loro condivisa passione per il singolo Rollin’ Stone inciso da Muddy Waters nel 1950 (il cui B-Side conteneva una cover di Walking Blues di Robert Johnson).

La passione di questi ragazzi del sud dell’Inghilterra per la musica afroamericana era nata grazie ai genitori, i quali passavano i pomeriggi alla radio in attesa di un colpo di fortuna che gli avrebbe portato un pezzo di Sarah Vaughan, Ella Fitzgerald, Billie Holiday o Louis Armstrong. Elvis imperversava in tutte le stazioni radiofoniche, nei cinema, nelle televisioni e portava un’aria che nell’Inghilterra post-bellica non si respirava da anni: un’aria di benessere all’americana. La Gran Bretagna era un paese in macerie, in bianco e nero; Elvis e Chuck Berry raccontavano di una vita in technicolor. L’amicizia fra Keith Richards e Mick Jagger iniziò per caso, proprio grazie alla loro passione per la musica afroamericana. Keith in quel periodo impazziva per Muddy Waters, e anche Mick, che possedeva una quantità esorbitante di vinili e cominciò a condividerli con l’ormai inseparabile amico. In poco tempo, i due misero in piedi un gruppo. Il loro obiettivo principale era quello di far conoscere la musica che li aveva portati insieme al più grande pubblico possibile.

Quando i Rolling Stones si esibirono per la prima volta in America, lo fecero con una cover di I Just Wanna Make Love To You di Muddy Waters. Sapevano bene di non poterla eseguire come Muddy, e decisero di aggiungere un tocco tutto loro. La suonarono velocissima, e il pubblico impazzì. «Stavamo facendo conoscere agli americani la loro vecchia musica!» dice Keith Richards6.

Lo shock culturale una volta arrivati in America fu totale per i Rolling Stones. L’America segregata era incomprensibile per dei ragazzi inglesi che non riuscirono mai a adattarsi ai loro privilegi da bianchi quando si trovavano negli States. Il razzismo, racconta Keith Richards, era un’assurdità per chi come loro sognava di raggiungere Chicago per registrare un disco alla Chess Records, un’etichetta discografica nata nel 1950 nota nell’ambiente musicale come simbolo della cultura afroamericana, casa di Muddy Waters, Chuck Berry, Howlin’ Wolf ed Etta James.

Quando in seguito al loro successo nelle classifiche americane furono invitati a Shindig!, una trasmissione televisiva dell’emittente ABC, i Rolling Stones si diedero immediatamente da fare per includere i loro idoli nello show. Riuscirono ad invitare Howlin’ Wolf, uno dei bluesmen del Mississippi Delta di maggior successo, e quella fu la sua prima volta in televisione. Ma non si fermarono a questo traguardo, decisero che c’era ancora qualcuno che il pubblico americano bianco doveva conoscere: Muddy Waters. Mick Jagger fece il suo nome in redazione e la risposta fu «Chi diavolo è Muddy Waters?», Jagger e Richards ne rimasero sconvolti e risposero «Mi stai dicendo che non sai chi è? Ci siamo chiamati così per uno dei suoi dischi, Rollin’ Stone!». Riuscirono anche questa volta a puntare la luce dei riflettori su un altro dei loro idoli, e fu la prima apparizione televisiva anche per Muddy Waters7.

La storia dei Rolling Stones è una delle epopee rock più celebrate e longeve. Ma non molti sanno che questa epopea iniziò proprio quando Robert Johnson s’inginocchiò all’incrocio, e soprattutto, che i Rolling Stones ne erano perfettamente consapevoli.

4. L’anima afroamericana della rivoluzione rock’n’roll. La strada per Woodstock

La novità degli anni ’50 fu che i giovani del ceto medio e alto, almeno nel mondo anglosassone, che sempre più determinava il tono generale della moda e della cultura di massa, cominciarono ad accogliere come loro modello ciò che era, o ciò che essi consideravano fosse, la musica, i vestiti, perfino il linguaggio delle classi inferiori dei centri urbani. La musica rock fu l’esempio più impressionante. A metà degli anni ’50 il rock uscì all’improvviso dal ghetto della musica che le case discografiche americane classificavano nei propri cataloghi come “Race” o “Rythm and Blues” e che era destinata ai neri americani poveri, per diventare il linguaggio musicale universale dei giovani e in particolare dei giovani bianchi. I giovanotti eccentrici ed eleganti delle classi lavoratrici in passato avevano talvolta derivato il proprio stile dalla moda raffinata degli strati sociali superiori o dalle sottoculture della classe media, come la bohème artistica; le ragazze delle classi lavoratrici avevano fatto lo stesso in misura ancora più alta. Ora sembrò vanificarsi un curioso rovesciamento8.

Eric Hobsbawm descrive così nel suo Secolo breve il periodo di transizione del blues dalla cultura afroamericana a quella popolare, veicolato dal successo del rock and roll. Il risultato di questa trasmigrazione culturale? Woodstock.

La Fiera della Musica e delle Arti di Woodstock fu una manifestazione, passata alla storia come il più grande evento musicale mai organizzato, che si svolse a Bethel, una piccola città rurale nello stato di New York dal 15 al 18 agosto del 1969, all’apice della diffusione della cultura hippie. Durante il festival si esibirono artisti del calibro di Jimi Hendrix, Janis Joplin, Carlos Santana, Joe Cocker e Bob Dylan. Furio Colombo – reporter Rai che firma alcuni dei servizi più memorabili di sempre come i Beatles in India nel 1968, l’uccisione di Martin Luther King Jr a Memphis lo stesso anno e la guerra in Vietnam – afferma:

Woodstock è un punto terminale. Non inizia niente a Woodstock: lì accade una cosa grandiosa, un evento sociale legato alla musica giovane, ma anche legato alla società americana e al momento sociale e politico che stava vivendo. Tuttavia, Woodstock è anche un punto quasi conclusivo. Anzi, alcune partite di passione e partecipazione politico-sociale che interessavano molto i giovani presenti a Woodstock, si erano già chiuse nel 1968; si erano chiuse con la morte di Martin Luther King, con l’assassinio di Bob Kennedy, con gli scontri di piazza alla convention democratica di Chicago nell’agosto di quello stesso anno9.

In quel festival, il festival celebrativo della nascita del figlio del blues, il rock and roll, convergevano gli anni del movimento per i diritti civili, del movimento pacifista anti-Vietnam, del movimento femminista. Era la sublimazione di una generazione che aveva imparato dagli afroamericani cosa significa essere privati della libertà, e aveva fatto di quest’ultima l’unica cosa per cui valeva veramente lottare. L’opposizione alla guerra divenne di massa nel 1968, negli Stati Uniti come nell’intero mondo occidentale. Si mobilitarono le sinistre contro-culturali e quelle studentesche, con l’occupazione di edifici d’élite come la Columbia University a New York. Si mobilitarono i neri del Black Power e quelli dei diritti civili, malgrado le diversità e le reciproche ostilità. I giovani del Sessantotto hanno vissuto con intensità la frattura generazionale, assumendo la propria «novità» come valore da affermare e come criterio per giudicare. La loro volontà di rottura con il passato non esprimeva insofferenza, ma rifiuto, non fastidio, ma contrapposizione: la contestazione di genitori, insegnanti, professori, politici, militari, dell’autorità in tutte le sue forme è stata anche contestazione delle generazioni precedenti e del passato da queste rappresentato. In tale contrapposizione, i giovani assunsero atteggiamenti aspri, violenti, impietosi rispetto a chi era venuto prima, nel rifiuto di accettare e di comprendere quei passaggi e quelle mediazioni che formano il tessuto della storia anche nei momenti di più radicale discontinuità. Il neonato rock and roll era la colonna sonora ideale per questa tempesta perfetta. La situazione paradossale e contraddittoria del mondo in cui vivevano ha ispirato a quella del Sessantotto la sensazione di costituire la prima generazione cui non spettava semplicemente, come tutte le altre, di vivere una transizione tra un passato e un futuro relativamente omogenei, ma su cui incombeva il compito, ben più inebriante, di scegliere tra un passato e un futuro radicalmente alternativi10. Gioventù significò sperimentare stili di vita inediti, essere membri di una estesa comunità chiamata “il Movimento” (senza aggettivi e con la maiuscola), condividere una «controcultura».

Le canzoni di Bob Dylan e il rock celebrato al festival di Woodstock, accompagnarono tutte le manifestazioni di protesta11. Nei testi del blues si mescolano il personale e il politico, il fantastico e il demonico, il lamento d’amore e la vanteria erotica, ma i blues che si possono definire di protesta sono relativamente pochi. Perché la protesta possa elaborare la propria retorica, creare comunità e tradursi in azione politica, occorre la presenza di un ambiente ad alta conversazione sociale, cittadino e interclassista, come quello che si è venuto a creare alla fine degli anni Sessanta, che ha dato inizio alla Rivoluzione culturale. La libertà di cui cantavano i bluesmen, spesso indirettamente, aveva trovato approdo in una generazione alla ricerca di una vita autentica che non dipendesse dagli schemi di potere che governavano il mondo.

Woodstock era, in un certo senso, il risultato dell’influenza che la musica afroamericana aveva avuto su quegli artisti che, come i Rolling Stones, erano riusciti a portare all’America qualcosa che avevano già, ma oscuravano col razzismo: la capacità di trasformare la miseria in bellezza.


Note

1 Wesley Morris, The 1619 Project, in “New York Times Magazine”, agosto 2019.

2 Amiri Baraka, (LeRoi Jones), Il popolo del Blues. Sociologia degli afroamericani attraverso il Jazz, Milano, ShaKe Edizioni.

3 Samb Hicks, Richie Unterberger, Music USA: The Rough Guide, Rough Guides, 1999.

4 Robert Palmer, Deep Blues. Una storia culturale e musicale, Milano, ShaKe Edizioni, 1981.

5 Ibid.

6 Documentario Keith Richards: Under the influence, Netflix, 2015.

7 Ibid.

8 Eric J. Hobsbawm, Il secolo breve. 1914-1991, Milano, BUR Rizzoli, 2018 (1995), p. 383.

9 “Classic Rock”, Woodstock, n. 13, agosto-settembre 2019.

10 Agostino Giovagnoli, Storia e globalizzazione, Roma-Bari, Laterza, 2003, pp. 61-62.

11 Arnaldo Testi, Il secolo degli Stati Uniti, Bologna, Il Mulino, 2017, cap. “Trionfo e crisi dello Stato liberale”.