In apertura: lanterna di carta all’entrata di un ristorante tradizionale giapponese (izakaya) a Fukuoka di notte (Foto dell’Autore).
«No, no, no!» mi sento dire da un giovane ragazzo magrolino e vestito tutto di nero all’entrata del club notturno dove gradirei entrare. «No, no, no!» mi dice bloccandomi il passaggio. Alza entrambe le braccia in aria e le sovrappone per formare una X, un ulteriore “no” visivo che riesce a rendere ancora più palpabile la tensione e a fugare ogni qualsivoglia speranza di poter entrare da parte mia: qui, tu non puoi entrare! Ma perché mai mi chiedo? Cerco di interrogare il giovane ostruzionista, chiedendogli nel mio giapponese praticamente inesistente come mai una persona come me non possa entrare. «No, no, foreigner no!» ossia, vietato l’accesso agli “stranieri”, gli “stranieri” non vanno bene. L’avevo già intuito dal momento che, a parte essere un turista straniero, non avevo fatto nient’altro di male quella notte. Rimango calmo, tranquillo. Il giovane invece sembra essere sull’orlo di una crisi di nervi. Tento di farmi spiegare come mai gli “stranieri” non possano entrare in quel locale. Il ragazzo, oramai divenuto quasi un tutt’uno con il simbolo brachiale che sta componendo in aria, accentua la già intuibilmente definitiva impossibilità per me di entrare scuotendo il capo, un “no” di testa. Insomma, non mi risponde. È come parlare al muro, o a una grande X umana. Per qualche ragione, quello che inizialmente mi era sembrato un basso e smilzo individuo, ora non mi sembrava più così piccolo.
L’aneddoto è ambientato a Tokyo, quattro anni fa, durante il mio primo viaggio da turista in Giappone. Avevo ventitré o ventiquattro anni, ed era poco prima di iniziare l’università. L’estate era oramai agli sgoccioli, e l’autunno stava per iniziare. Ricordo più che altro le sensazioni, l’emozione nell’esplorare qualcosa di nuovo, di fare un viaggio senza guida o indicazioni precise, portando con me una forte accettazione nei confronti dell’indeterminato, del possibile, dell’avventura.
Non parlavo ancora il giapponese, e certamente a quel tempo non sarei stato in grado, col mio semplice e innocente frasario da guida turistica, di iniziare un’animata conversazione sul mio più che giusto diritto da innocuo ragazzo italiano di entrare in un locale a Tokyo, l’enorme metropoli che sembra contenere una moltitudine di città dentro di sé.
Eppure, nonostante l’immensità e il ventaglio quasi infinito di possibilità, ero stato così sfortunato da incappare nell’unico locale dove non si accettano “stranieri”? Oppure, c’era qualcos’altro?
Ovviamente, nella mia limitata settimana da turista, non avrei potuto né sinceramente voluto sprecare i miei giorni tentando di dare una risposta a questo quesito. «Pazienza!» pensai candidamente.
Sarei voluto ritornare in Giappone e così fu. L’autunno, o aki in giapponese, è sempre stato la mia entrata verso il paese del Sol Levante, il momento stagionale quando partivo dall’aeroporto di Bologna per raggiungere quello di Haneda, a Tokyo.
La seconda volta che misi piede in Asia fu durante la mia esperienza di studio all’Università di Kobe, città famosa per la sua carne bovina, non troppo distante da Osaka. Kobe è una città portuale, moderna, come tutte le città giapponesi, e con una vasta China Town che decora l’Asia con l’Asia. Fu durante quel semestre di studio che mi imbattei per la prima volta in una parola giapponese che avrebbe perseguitato i miei successivi soggiorni nel paese dei fiori di ciliegio: il termine gaijin. Si scrive con l’ideogramma che significa “fuori, esterno”, ossia gai, e con quello per “persona”, ossia jin. Se semanticamente parlando può benissimo essere reso con il termine di “straniero” in italiano, dal punto di vista della nuance risulta più ambiguo da tradurre; esiste infatti già un altro termine in giapponese che indica il concetto di persona che proviene da un paese straniero, il foreigner per l’appunto, ovvero gaikokujin, leggermente più lungo di quello precedente.
Come si suol dire, è proprio nei dettagli che si nasconde il diavolo. C’è infatti una sottile ma importantissima sfumatura di significato che fa differire i due termini e che li rende alquanto diversi, ossia l’utilizzo del concetto di gai. Mentre infatti nel caso di gaikokujin il significato di “fuori, esterno” viene applicato a koku, che significa “paese”, nel caso di gaijin, esso viene applicato direttamente a jin, ossia a “persona”. In sostanza, se nel primo termine il senso di estraneità e di differenziazione viene accostato a quello di paese, allo Stato, nel secondo all’individuo, all’essere umano stesso; parafrasando con un esempio in italiano, è la stessa differenza di significato che potrebbe sussistere tra le espressioni “viene da un altro paese” ed “è un diverso, un outsider”.
In una nazione come il Giappone dove un’eccessiva schiettezza viene altamente stigmatizzata e la cortesia (omotenashi in giapponese) nei confronti del prossimo (o perlomeno del cliente che porta denaro) sembrerebbe essere considerata un valore quasi imprescindibile, fa abbastanza scalpore che un individuo e specialmente un possibile cliente possa essere additato con la parola gaijin solo perché non è giapponese.
Giurerei che quella notte a Tokyo la giovane X umana ritenesse la mia mera presenza come quella di un infastidente e noioso gaijin, un “diverso”, uno dall’apparenza e cultura strana, più che quella di un gaikokujin, un semplice cliente che casualmente non possiede nazionalità giapponese.
Dopo essere tornato in Italia in seguito a un’esperienza che giudicherei in toto meno disillusa e turistica, ebbi modo di passare quasi tre anni di fila in Giappone, dall’aki del 2019 alla primavera del 2022. Come sempre, l’arrivo era d’autunno. Mentre le foglie invecchiate dal tempo scendevano a terra durante la rossa stagione dei momiji, degli aceri scarlatti accesi di colore, il mio aereo atterrava all’aeroporto di Fukuoka, nella regione del Kyushu, nel sud del Giappone. Ero stato ammesso alla laurea magistrale biennale della Kyushu University nella città di Fukuoka per un corso internazionale di Japanese Humanities, ossia Studi Umanistici sul Giappone.
Furono due anni colmi di speranze e illusioni, risate e pianti, dolcezze e sofferenze, e per giunta anche quelli del Covid-19. Rimasi bloccato in Giappone senza la possibilità di tornare a trovare la mia famiglia in Italia per tutto quel tempo. Fu un periodo allarmante anche nel paese del Sol Levante, specialmente nei primi tempi, quando la gente cominciò a svaligiare i supermercati in cerca di mascherine, che presto divennero introvabili in quasi tutta la città. Si entrava e usciva continuamente da uno stato di emergenza, da uno di restrizione degli orari nei locali e ristoranti, in seguito denominato manbo, e da una condizione di apparente normalità. Tuttavia, dopo un intero anno di limitazioni e di “restate a casa”, anche gli inflessibili giapponesi iniziarono pian piano ad annoiarsi. Moltissimi locali cominciarono ad attuare lo yami eigyo, ossia a ignorare i divieti legati all’orario di chiusura delle attività e a tenere aperti i locali, specialmente quelli come bar e ristoranti che incentravano il loro business sulla consumazione di bevande alcoliche.
Lo yami eigyo aveva paradossalmente prodotto un viavai di consumatori in locali che, in uno stato di assenza di restrizioni governative, probabilmente non avrebbero attirato una così vasta clientela. Avevo come l’impressione che la gente uscisse di più o forse era semplicemente perché passeggiando di notte per Fukuoka, una città che per superficie è quasi il doppio di Milano, si notavano le oasi luminose dove i giapponesi svolgevano talvolta in sordina talvolta in maniera molto appariscente, ma sempre con impeccabile nonchalance, le loro attività fuori dall’orario consentito.
Durante i due lunghi anni di yami eigyo, non yami eigyo, manbo, non manbo, a casa, non a casa, ebbi la possibilità, nonostante tutto, di uscire, fare amicizia con la gente del luogo, parlare con loro, provare esperienze di ogni genere. In questo scenario variopinto, la cultura dell’additare il gaijin, il “diverso”, da parte di molti giapponesi si fece sentire forte come un ruggito, risuonando dentro di me con gli echi della mia prima esperienza a Tokyo più di quattro anni fa.
Vicino all’appartamento dove abitavo, c’era un localino chiamato Nagisa che preparava un tipo di cucina giapponese squisitamente casalinga, la cosiddetta o-fukuro no aji, ossia le ricette della mamma. Non c’erano tavoli, e si mangiava al bancone, dove la proprietaria, da abile locandiera, preparava del cibo su richiesta del cliente. Era uno spazio informale, caldo e accogliente dove più di una volta a settimana io e alcuni amici giapponesi mangiavamo e bevevamo.
«Io non capisco come un giapponese possa frequentare un gaijin!» disse una volta sorridendo rivolgendosi ai miei amici e indicando me la proprietaria di Nagisa con un boccale di birra in mano. Fu in quel momento che la magia del locale svanì improvvisamente. Mi resi conto che la sensazione di trovarmi a casa era un’illusione, una convinzione senza fondamenti. Avevo fatto letteralmente i conti senza l’oste. Io non ero a casa, e con quella dichiarazione, forse ingenua ma comunque sgarbata, la locandiera, o mama, come i giapponesi chiamano le signore di una certa età che lavorano da sole nei locali o ristoranti, me lo aveva fatto capire benissimo. La mama, così cara e gentile con tutti i suoi “figliocci” purosangue giapponesi che le portano denaro e consumano il suo cibo, aveva respinto il forestiero, il “diverso”. Quella non era stata l’unica volta in cui nello stesso locale mi ero sentito chiamare così da lei, ma mai in maniera così diretta e in un contesto così chiaro. Non ci misi più piede.
Magari, pensavo, poteva essere un semplice fatto generazionale, in quanto quasi tutti gli anziani giapponesi che incontravo usavano sempre la parola gaijin per riferirsi sia a me che a quelli come me. Una volta, addirittura, un uomo sulla sessantina, già brillo in pieno pomeriggio, che aveva iniziato a dialogare con me per esercitarsi col suo inglese in un locale dove stavo mangiando da solo, nonostante ci fossimo presentati, continuava a chiamarmi gaijin-san, sorridendo beffardo, come se “forestiero” fosse stato il mio nome. Era una situazione ridicola. Non mi stava chiamando, mi stava definendo.
In ogni caso, più avanti scoprii mio malgrado che non era in realtà una semplice questione generazionale, in quanto persino giovani della mia età o anche quelli con meno anni parlavano degli “stranieri” e del mondo al di fuori del Giappone come di una realtà ignota, sconosciuta, le cui poche conoscenze al riguardo sembravano essere state apprese tramite vox populi, o banalissimi luoghi comuni.
«I gaijin sono più aperti, vero?»
«I gaijin sono più flessibili, vero?»
«I gaijin fanno così, vero?» eccetera eccetera.
Tante domande di questo genere fatte da persone di ogni età, sesso, e ceto sociale. Capii che non esistevano mezze misure: o eri giapponese, o eri gaijin, o eri dentro, o eri fuori, o eri con loro, o eri contro di loro. Una volta, decisi di parlarne con una mia compagna di università belga.
Mi confidò che anche a lei era accaduto un fatto simile a quello mio di Tokyo: era col suo ragazzo nella prefettura di Nagasaki, e si erano imbattuti in un grazioso localino di cucina tipica giapponese. Non appena entrati, la mama si era messa a urlare gridando loro di andare via, perché non accettava gaijin. Mentre il ragazzo non capì cosa stesse succedendo dal momento che non parlava giapponese, lei, che invece lo parlava fluentemente, tentò di calmare la proprietaria spiegandole educatamente che sapeva parlare giapponese e che non ci sarebbero stati problemi di comunicazione. Ma la mama rimase irremovibile e cominciò a spingerli fuori.
«No, no, no!» ripeteva senza ascoltare la giovane coppia belga mentre li cacciava dal locale.
«E tu cos’hai fatto dopo?» chiesi alla mia compagna una volta terminato il racconto.
«Niente. Ce ne siamo andati» mi rispose lei con aria amareggiata. D’altronde, che altro avrebbero potuto fare? Protestare? Indignarsi?
Ricordo che ci fu un’occasione in cui un mio amico giapponese si arrabbiò. Ero sempre a Fukuoka, col mio solito gruppetto nipponico. Entrammo in un bar, o per meglio dire in uno snack bar, ossia tipici bar giapponesi nati nel dopoguerra muniti di karaoke, ottimi drink, e gestiti in genere da una signora anziana e una collega più giovane. Hanno un’atmosfera informale, briosa, ma in ogni caso rispettosa del cliente. Almeno di quelli giapponesi.
Non appena entrati, eravamo in tre, neanche il tempo di sederci che all’improvviso un signore di mezza età, che cantava col microfono in mano, mi guardò, e sorridendo gridò, sprizzante di gioia: «Guardate! C’è un gaijin!»
Dopodiché tutti i clienti dentro il locale, che prima stavano guardando lo schermo del karaoke, seduti composti, cominciarono a fissare me e a sorridere. Dopo essermi seduto, accennai anch’io a un sorriso rivolto al mio nuovo pubblico, sospirando dentro. In quella occasione, un mio amico si indignò per il maltrattamento subito e domandò al signore di scusarsi con me. Lui inizialmente rimase perplesso: «Perché mai dovrei scusarmi?» replicò infastidito.
Ecco. Da qui nasceva molto probabilmente l’incomprensione. Per lui, non c’era niente di male in quello che aveva fatto e in come lo aveva detto e trovava strano che qualcuno glielo facesse notare. Caspita! Il Giappone deve essere il paese dei balocchi per i non amanti del politicamente corretto! Per coloro che considerano la “libertà di espressione” individuale così importante da agognare anche a un genere di libertà che può ferire gli altri. Così pensai in quel momento.
Alla fine, il signore si scusò, ma mi chiedo se onestamente lo avrebbe fatto se il mio amico non gli avesse fatto notare la gaffe commessa.
Durante quasi tutti i miei weekend, finivo sempre per scoprire dei locali carini, intimi, ma nascosti, in cui andare a mangiare e bere qualcosa. Avevano in genere un’entrata appena illuminata di sera dalla luce tenue e rossastra di alcune lanterne di carta.
In genere, quasi tutti i locali giapponesi, anche quelli costruiti nel XXI secolo in pieno centro, presentano un elemento che si rifà all’antico o al tradizionale; moderni sì, ma senza far dimenticare dove ci si trova. Le lanterne, le porte scorrevoli la cui apertura fa suonare un campanello che avverte il personale dell’arrivo del cliente, le divise indossate dallo staff, e tanti altri particolari, ad esempio, sembrano essere quasi sempre un must. Se si analizzasse tutto ciò con una “mentalità da turista”, risulterebbe alquanto facile sottolinearne la verosimiglianza e ovvietà, dal momento che Asia significa lanterne, porte scorrevoli, etc.
Tuttavia, per quanto suggestivi, questi abbellimenti giapponesi potrebbero essere benissimo considerati una sorta di “desiderio di antico (o di status quo che dir si voglia)”, ossia un affascinante set di decorazioni tipiche asiatiche intente a emulare il passato e il tradizionale. Esse, infatti, si stagliano di continuo a Tokyo, Kobe, o Fukuoka che dir si voglia, come per mostrare ai gaijin e ricordare perennemente ai Giapponesi che faccia deve avere il Giappone e la sua “giapponesità”. Un continuo richiamo alla patria, un’incessante citazione di se stessi in mezzo ai grattacieli e al cemento, similmente al caso del santuario di Ise, nella regione del Kansai, simbolo per eccellenza dello Shintoismo giapponese, della fede animista autoctona, e quindi della, perlomeno in parte, “giapponesità”. Ogni vent’anni, esso viene distrutto e poi ricostruito, come per ribadire la sua “necessità”, esaltare la sua presenza, magnificare la sua essenza: grazie al santuario che viene scomposto e ricomposto di continuo, il senso della nazione si esprime e si materializza, onnipresente nella quotidianità e nella storia. Così facendo, il nazionalismo sorge come il sole, talora si nasconde, ma alla fine riemerge sempre; certe volte lo fa con qualche “parola di troppo”, altre volte in maniera più vistosa, giustificato o dal consumismo come nel caso dei localini e delle loro lanterne, o dalla fede nella transitorietà delle cose come nel caso estremo del santuario di Ise.
È un ciclo, forse una trappola, un eterno samsara, detto in termini buddisti, che inizia dalla porta scorrevole, continua nel modo in cui il “diverso” viene additato, e termina nella distruzione e ricostruzione del jinja di Ise, del santuario shintoista, che, come una fenice, rinasce dalle sue stesse ceneri e vola solitaria. Libera sì, ma forse anche incurante quando ferisce, bruciando, parte di quello che le sta attorno, o che magari non è capace di vedere.