In apertura: la copertina del 45 giri di Hey Joe della Jimi Hendrix Experience, edizione francese (1966).
Il brano Hey Joe nella strafamosa versione della Jimi Hendrix Experience non è soltanto una delle più note canzoni rock di tutti i tempi; è un vero e proprio modello con cui si sono misurati e, pur nel fluire delle mode musicali, continuano a misurarsi, generazioni di musicisti rock più o meno in erba. Una specie di battesimo, di rito d’iniziazione al sacro fuoco del rock‘n’roll. Ora, se tutti gli appassionati di musica rock ne hanno scolpiti in testa gli accordi, in pochi, forse, si sono fermati a riflettere sulle liriche. Che in effetti riservano delle sorprese e possono stimolare una riflessione su temi, ahinoi, di stretta e continua attualità. Ma procediamo con ordine, con un po’ di storia. Le origini del brano sono state a lungo controverse, con diversi musicisti che ne hanno rivendicata o, per meglio dire, millantata la paternità, a cominciare da quel Chester Powers (in arte Dino Valenti), autore di un’altra hit generazionale dell’età dell’Acquario, Get Together1, nonché master mind dietro una delle più importanti band psichedeliche della scena di San Francisco, i Quicksilver Messenger Service. In realtà, è un dato ormai definitivamente acquisito che a firmare Hey Joe fu un ben più oscuro folksinger della South Carolina, Billy Roberts (nato William Moses Roberts Jr), ispirato da vari traditionals fra cui Little Sadie, una murder ballad d’inizio Novecento che narra la storia di un uomo mandato a processo per avere assassinato la sua compagna (la moglie o la fidanzata, a seconda delle varianti) e incisa anche da Bob Dylan.
Per un qualche motivo la canzone di Roberts divenne popolare nei circuiti folk di Los Angeles, diffusavi fra gli altri da un giovane ed entusiasta David Crosby, finendo per approdare a lidi rock e per diventare un classico (se non il classico per antonomasia) del garage rock e dintorni. Non se ne contano le registrazioni a cavallo tra fine ’65 e inizio ’67; le più note quelle dei Leaves2 (prima in ordine di tempo, poi consacrata dall’inserimento nella seminale raccolta postuma Nuggets3), degli Standells, dei Love, dei Music Machine (in una inusuale trasposizione rallentata dominata dal canto teatrale di Sean Bonniwell) e dei Byrds, che, non proprio convinti, la incisero dietro insistenza di Crosby, eseguendola altresì all’International Monterey Pop Festival la sera del 17 giugno 1967, precedendo di un giorno lo stesso Hendrix. Quanto alla versione down tempo della Jimi Hendrix Experience, registrata nell’ottobre del 1966 e pubblicata come singolo in Inghilterra nel dicembre4, è opinione comune che derivi dall’arrangiamento del songwriter Tim Rose5, uso a eseguire il pezzo al Cafe Wha? di New York, uno dei cuori pulsanti del Greenvich Village all’epoca del folk revival6, dove fu intercettato dall’orecchio attento del manager di Hendrix, l’ex bassista degli Animals Chas Chandler. Da allora, l’adattamento del grande chitarrista di Seattle, con relativo assolo, si è imposto come quello definitivo, “coverizzato” a sua volta nei contesti più disparati (se ne conta persino una versione in italiano con testo, però completamente cambiato, di Francesco Guccini7), tanto che, con buona pace del negletto Roberts e di tutti gli altri sedicenti autori del brano, Hey Joe s’identifica ormai a tutti gli effetti con il nome di James Marshall Hendrix8.
Fin qui, la musica. Ma veniamo alle parole, che ci introducono a una storia non proprio commendevole, né più né meno quella di un femminicidio propriamente inteso, con il protagonista, Joe per l’appunto, che uccide la sua «old lady» perché l’ha sorpresa a filarsela con un altro uomo («You know I caught her messin’ ‘round with another man) e fugge in Messico per non farsi acciuffare dalla giustizia.
I’m goin’ way down south
Way down where I can be free
Ain’t no one gonna find me
Ain’t no hangman gonna
He ain’t gonna put a rope around me
Fa ancor più specie che, nel concitato call and response con il femminicida, il suo interlocutore parteggi di fatto per lui, esortandolo a darsela a gambe verso la libertà («you better run on down»). Per comprendere il perché di tutto ciò, al di là del caso specifico del nero Hendrix, bisogna risalire agli albori degli anni Sessanta dello scorso secolo, ovvero alla scoperta da parte della generazione postbellica dei giovani bianchi angloamericani delle forme di musica tradizionale delle radici, il folk e soprattutto il blues9. Un idioma “sporco”, sensuale, disinibito, lontano anni luce dai buoni sentimenti edulcorati del pop radiofonico, che come tale esercitava su ragazzi e ragazze smaniosi di libertà un fascino del tutto particolare. Ma anche un idioma intriso di cultura maschilista o, secondo il termine ormai invalso nell’uso comune, patriarcale. Un esempio su tutti, che si ascolta non senza inquietudine: Me and the Devil Blues del misterioso Robert Jonshon10, un brano del 1937 di rara potenza espressiva, dove il protagonista (del quale si diceva avesse stretto un patto col Diavolo in cambio dei segreti del blues) sceglie di accompagnarsi al Principe delle tenebre, con quel che ne consegue anche in termini di relazioni uomo-donna.
Early this mornin’
When you knocked upon my door
Early this mornin’, ooh
When you knocked upon my door
And I said, “Hello, Satan
I believe it’s time to go”Me and the Devil
Was walkin’ side by side
Me and the Devil, ooh
Was walkin’ side by side
And I’m goin’ to beat my woman
Until I get satisfied
Né il tema si esaurisce nell’ambito ristretto delle luciferine dodici battute, anzi. Cosa dire infatti, per limitarci ai “grossi nomi”, della canzone Run for Your Life, composta nel 1965 da John Lennon, non nuovo a più blande manifestazioni di misoginia (si ascoltino I’ll Cry Instead e soprattutto You Can’t Do That, entrambe da A Hard Day’s Night), per lo straordinario album dei Beatles Rubber Soul?. Definito da Paul McCartney «a bit of a macho song»11 e per la verità in seguito misconosciuto dallo stesso Lennon («I never liked “Run for Your Life”», avrebbe dichiarato nella sua famosa intervista del dicembre 1970 a Jann S. Wenner per “Rolling Stone”12), il brano aveva la sua fonte in un successo di Elvis Presley del 1955, Baby, Let’s Play House, autore il bluesman afroamericano Arthur Gunter, a sua volta liberamente ispirato a una country & western song di qualche anno precedente (I Want to Play House with You). Canta Elvis:
Now listen to me, baby
Try to undertstand
I’d rather see you dead, little girl
Than to be with another man
Gli fa eco Lennon, rincarando la dose:
Well, I’d rather see you dead, little girl
Than to be with another man
You better keep your head, little girl
Or I won’t know where I amYou better run for your life if you can, little girl
Hide your head in the sand, little girl
Catch you with another man
That’s the end, little girl
Insomma, una minaccia di morte in piena regola, senza nemmeno il beneficio della metafora. E l’elenco potrebbe continuare più o meno all’infinito, anche ben oltre l’epoca d’oro della musica rock e l’onda lunga dell’influsso blues, passando per la black music e l’hard-rock, per arrivare al machismo dell’heavy metal, alla esplicita misoginia di un gruppo art-punk come gli inglesi Stranglers o di certo rap metropolitano, fino a declinazioni insospettabili come quell’autentica rappresentazione dello stalking che è l’iconica Every Breath You Take dei Police (1983).
A onor del vero, inizialmente sempre per il tramite della “musica del Diavolo”, nel pop-rock si danno anche casi di murder songs da una prospettiva femminile13. Come per il brano Chauffer Blues della grande artista blues Memphis Minnie (nome d’arte di Lizzie Douglas, l’autrice14 di quella When the Levee Breaks che quarant’anni dopo i Led Zeppelin trasformeranno in un ipnotico hard blues psichedelico), che i Jefferson Airplane ripresero nel loro album d’esordio (Takes Off, 1966) affidandolo all’interpretazione della loro prima cantante, Signe Toly Anderson15. In questo caso, a voler sparare è la donna, gelosa del fatto che il suo “autista personale” possa scarrozzare in giro delle altre ragazze.
Don’t want my chauffeur
Don’t want my chauffeur
Drivin’ them girls
Drivin’ them girls all around
I’m gonna steal me a pistol
And shoot my chauffeur down
Ora, quanto sopra detto non significa affatto che i baldi esecutori in chiave garage-rock di Hey Joe, Jimi Hendrix, John Lennon ecc., peraltro alfieri della filosofia peace & love, fossero dei violenti pronti ad ammazzare per un nonnulla (sull’attitudine non violenta di certi rapper e cantanti punk/heavy metal a venire si potrebbe a lungo discutere, ma tant’è). Significa che interpretavano un canone, mutuato appunto dalle musiche “adulte” della tradizione, con il suo contenuto codificato di argomenti e di termini scabrosi. Argomenti e termini che oggi stridono fortemente con la nostra sensibilità, ma che allora, negli anni Sessanta/Settanta, erano considerati accettabili proprio perché inseriti dentro una tradizione riscoperta e riconosciuta.
A questo punto, però, la domanda, probabilmente inane ma per certi versi inevitabile visti i tempi, è: come mai, almeno fino ad ora, la popular music è generalmente sfuggita alle sanzioni del politically correct e al furore iconoclasta della cancel culture, che sta dilagando proprio nel mondo anglosassone, la patria del rock? Mi pare infatti che, con pochissime eccezioni, la più rilevante delle quali, anche perché trattasi di autocensura, riguarda l’evergreen dei Rolling Stones Brown Sugar, che l’immarcescibile gruppo di Mick Jagger e Keith Richards ha deciso, per evitare polemiche, di eliminare dalla scaletta dei concerti americani del 202116 perché accusato di contenere un’apologia dello schiavismo17; il rock sia stato risparmiato dalla cesoia della censura, abbattutasi invece senza scampo sui classici della letteratura (per non parlare del cinema), da Omero a Shakespeare, da Hawthorne a Scott Fitzgerald e via discorrendo18. Forse perché il rock non viene sistematicamente insegnato nelle scuole e nei campus universitari e la sua influenza non è considerata abbastanza “nefasta”? Forse perché le attiviste e gli attivisti del Me Too, del Black Lives Matter e degli altri movimenti impegnati in questo tipo di battaglie non si sono (ancora) soffermati a riflettere sui testi di certe canzoni? Difficile credere, infatti, che la musica rock goda di una sorta d’impunità dinanzi al tribunale del revisionismo culturale che non risparmia le pietre miliari della grande letteratura universale; più facile credere a una disattenzione temporanea.
Per venire a “casa nostra”, dove, quantunque per lo più limitate ad altri ambiti (in primis quello storico/politico), le istanze della cancel culture pure si stanno diffondendo, chi, oggi come oggi, poniamo un qualunque giovane trapper (ovvero l’esponente di un genere musicale non di rado connotato da sessismo e omofobia), potrebbe comporre senza conseguenze, soprattutto a livello di risonanza social, un verso come quello di Colpa di Alfredo di Vasco Rossi, ironico certo ma più che esplicito nella sua ironia da provincia emiliana: «è andata a casa con il negro, la troia»?19. Eppure, non soltanto a nessuno è mai venuto in mente di censurare quella celeberrima canzone ma, in quegli autentici riti popolari collettivi che, da un ventennio a questa parte, sono diventati i mega concerti oceanici del “Blasco” nazionale, al momento topico il pubblico, ivi compreso quello femminile (sulla eventuale presenza di un pubblico nero non è dato sapere), si sgola a cantare in coro le due parole “proibite”.
Personalmente, sono dell’opinione (nemmeno granché originale a dirla tutta) che le opere d’arte, quali che siano, dovrebbero sempre essere considerate nel particolare contesto storico in cui sono state concepite e realizzate, senza forzature retroattive, tanto più che certi giudizi postumi sono fatalmente condizionati dalle mode del momento, per loro stessa natura volatili ma che, se assecondate senza discernimento e spirito critico, rischiano di provocare danni di lungo periodo. Nondimeno, è ragionevole ipotizzare che presto o tardi anche tutte le “scorrettezze” di cui abbonda la musica pop-rock degli scorsi decenni finiscano sotto la lente d’ingrandimento di qualche censore.
Nel frattempo, i giovani appassionati di rock‘n’roll continueranno a esercitarsi sullo spartito di Hey Joe e i fan di Vasco a entusiasmarsi con Colpa d’Alfredo senza porsi minimamente il problema.
Note
1 Conosciuta anche come Let’s Get Together o Everybody Get Together, un inno alla pace e alla fratellanza in perfetto stile flower power, famosa soprattutto nella versione degli Youngbloods di Jesse Colin Young.
2 In questo caso, nei crediti del disco il brano è attribuito a Dino Valenti.
3 Il doppio album Nuggets (Original Artyfacts from the first Psychedelic Era 1965-1968), uscito per la Elektra Records nel 1972 (nr. di catalogo 7E-2006) a cura del critico musicale Lenny Kaye, poi divenuto celebre come chitarrista e sparring partner di Patti Smith nel Patti Smith Group (che tra l’altro inciderà una sua propria versione di Hey Joe), è stato determinante per la riscoperta del garage rock in piena epoca progressive, esercitando una notevole influenza sul successivo movimento punk americano.
4 Negli Usa il singolo uscì soltanto nel maggio del ’67, ma, a differenza di quanto avvenuto in Inghilterra, fu inserito nel 33giri di debutto della Jimi Hendrix Experience, Are You Experienced.
5 La si può ascoltare nel disco d’esordio, l’omonimo Tim Rose (Columbia CL 2777/ CS 9577, febbraio 1968), dove, con il titolo Hey Joe (You Shot Your Woman Down), è accreditata come traditional adattato e arrangiato dall’autore.
6 Per il contesto, si veda Stephen Petrus, Ronald D. Cohen, Folk City. New York and the American Folk Music Revival, Oxford, Oxford University Press, 2015.
7 Edita in 45giri nel 1967 (La Voce del Padrone MQ 2094), a nome Martò, pseudonimo di Giancarlo Martelli.
8 Tutto questo in estrema sintesi. Per una disanima più approfondita del brano, delle sue origini, delle sue implicazioni socio-culturali, il rimando obbligatorio è al testo di Alberto Mario Banti, unico nel panorama storiografico italiano: Wonderland. La cultura di massa da Walt Disney ai Pink Floyd, Roma-Bari, Laterza, 2017, che vi dedica un intero paragrafo, pp. 384-394.
9 Scoperta all’origine di uno dei fermenti musicali più importanti dei Sixties, il cosiddetto Blues revival inglese. A tal proposito, si veda il classico Bob Groom, The Blues Revival, London, Studio Vista, 1971, e, più recente e con uno sguardo allargato oltre l’Inghilterra, Ulrich Adelt, Blues Music in The Sixties. A Story in Black and White, New Brunswick, Rutgers University Press, 2011.
10 L’ascendente esercitato dal canzoniere di Robert Johnson sulla musica rock degli anni Sessanta è incalcolabile. Su di lui si vedano Bruce Conforth, Gayle Dean Wardlow, Up Jumped the Devil. The Real Life of Robert Johnson, Chicago, Chicago Review Press, 2019; Annye C. Anderson, Preston Lauterbach, Brother Robert. Growing up with Robert Johnson, New York, Hachette Books, 2020; nonché la graphic novel di Jean Michel Dupont, Mezzo, Love in Vain. Robert Johnson, 1911-1938, London, Faber & Faber Social, 2016. Per alcune considerazioni in merito del grande critico Greil Marcus: “The New York Review of Books”, 3.12.2020, https://www.nybooks.com/articles/2020/12/03/robert-johnson-devil-nothing-to-do-with-it/, ultima consultazione: 21 luglio 2022.
11 Così Paul in quella che è considerata la sua biografia ufficiale: Barry Miles, Many years from now, London, Secker & Warburg, 1997, p. 238 (edizione italiana Many years from now. Ricordo di una vita, Milano, Rizzoli, 1997).
12 Jann S. Wenner, Lennon remembers. The full Rolling Stone Interviews from 1970, London-New York, Verso, 2000, p. 85 (prima edizione: Lennon remembers. The Rolling Stone Interviews, San Francisco, Straight Arrow, 1971; prima edizione italiana John Lennon ricorda. L’intervista integrale del 1970 per Rolling Stone, Vercelli, White Star, 2008). L’intervista era apparsa in origine sui numeri 21 gennaio e 4 febbraio 1971 di “Rolling Stone”.
13 Su questo aspetto torna più volte Banti, Wonderland, cit., es. p. 87, p. 411.
14 Per l’esattezza coautrice, avendo firmato il pezzo (1929) con Wilbur “Kansas Joe” McCoy.
15 Nel disco dei JA il brano è accreditato a un uomo, Lester Franklin Melrose, influente produttore e talent scout della scena blues di Chicago.
16 Cfr. “Corriere della Sera”, https://www.corriere.it/spettacoli/21_ottobre_13/rolling-stones-via-brown-sugar-concerti-riferimenti-schiavitu-0264826c-2c22-11ec-98f9-fbd4bdd13a87.shtml, ultima consultazione: 22 luglio 2022.
17 Gold coast slave ship bound for cotton fields/Sold in the market down in New Orleans/Scarred old slaver knows he’s doing alright/Hear him whip the women just around midnight (La nave di schiavi della Costa d’Oro è diretta ai campi di cotone/ venduta giù al mercato di New Orleans/Il vecchio schiavista con la cicatrice sa che sta facendo bene/Puoi sentirlo frustare le donne proprio intorno alla mezzanotte).
18 Su questo ormai rilevante fenomeno, con focus sulla dimensione statunitense, cfr. Costanza Rizzacasa D’Orsogna, Scorrettissimi. La cancel culture nella cultura americana, Roma-Bari, Laterza, 2022.
19 Se la parola “troia” utilizzata per designare una donna ha sempre posseduto un significato negativo, altrettanto non può dirsi del termine “negro”, impiegato in lingua italiana, almeno sino a tutti gli anni Ottanta del Novecento, senza accezione spregiativa, anche in contesti militanti (tant’è che black power veniva regolarmente tradotto potere negro), ma è un dato di fatto ch’esso sia ormai, da molto tempo, diventato inaccettabile, motivo per cui anche la canzone di Vasco Rossi potrebbe a ragion veduta incappare nel radar del politically correct. Al riguardo: Accademia della Crusca, https://accademiadellacrusca.it/it/consulenza/nero-negro-e-di-colore/734, ultima consultazione: 25 luglio 2022.