In apertura: Seminario Documentare la differenza, Bologna, 4 dicembre 2004 (Centro documentazione donna, Archivio Udi Modena).
L’intervista tematizza il lavoro dell’archivista nella fase costitutiva della Rete regionale archivi Udi dell’Emilia-Romagna. Ne parliamo con Mirella Plazzi, oggi funzionaria archivista della Regione Emilia-Romagna con un’esperienza, negli anni Novanta come archivista libero-professionista nell’Archivio Udi di Ravenna. L’intervista è stata realizzata da Eloisa Betti e Maria Felicia Polimeni.
Quando hai incontrato per la prima volta gli archivi dell’Udi? E qual era il tuo ruolo all’epoca?
Io mi sono laureata a Bologna in Storia contemporanea. Contemporaneamente alle lezioni, avevo iniziato a frequentare il corso di archivistica alla Scuola dell’Archivio di Stato di Bologna e mi innamorai follemente di questa materia. Quindi ho cominciato a scalpitare per iniziare a fare qualche esperienza ancora prima di laurearmi. Uno dei miei primi lavori, e questo giustifica, dal mio punto di vista, anche determinate scelte, è stato quello sull’Archivio del Comitato provinciale dell’Udi di Ravenna. Avevo frequentato il liceo a Ravenna e quindi era uno degli archivi a me più vicini, da un punto di vista anche logistico. Volevo fare questo mestiere e ho continuato a farlo a lungo, avendo a che fare con archivi sia di enti che di associazioni che di persone, per almeno una ventina d’anni come libera professionista. Ora lavoro come funzionaria della Regione e mi occupo, tra le altre cose, di offrire una consulenza a quelli che fanno ciò che prima era il mio mestiere. Quindi diciamo che non mi sono mai allontanata da quell’ambito. La mia prima esperienza sugli Archivi dell’Udi fu quella del Comitato provinciale di Ravenna, immediatamente seguito a ruota dal Comitato provinciale di Forlì (non c’era ancora Cesena unito in quel momento): lavoro che curai con una mia carissima amica e collega, ossia Magda Abbati, che poi si occupò dell’Archivio del Comitato provinciale di Bologna, in parte con la mia collaborazione. Quindi, iniziammo con questa tripletta di archivi Udi, esperienza che fu interessante anche da un punto di vista professionale, e poi, magari, cercherò di dirvi perché.
Che anni erano quelli in cui tu hai avuto questa esperienza?
Stiamo parlando della fine degli anni Ottanta inizio degli anni Novanta. Io presi il diploma alla Scuola dell’Archivio di Stato nell’87 e iniziai praticamente subito a fare questo lavoro. Lo ricordo come un momento “strano” dal punto di vista della professione archivistica, perché si iniziavano ad utilizzare non dico gli strumenti informatici che esistono ora, ma ad esempio, programmi di videoscrittura. Cioè si iniziava a pensare che costruire dei file poteva anche prolungare la vita degli strumenti di ricerca che ci apprestavamo a predisporre.
Com’è stato l’impatto con queste nuove tecnologie informatiche che stavano avanzando rispetto anche al tuo essere un’archivista alle prime esperienze? Ricordi qualche aneddoto che vuoi condividere?
Dunque, io facevo parte di una cooperativa di archiviste: erano quasi tutte donne ed erano un pochino più vecchie di me, soprattutto dal punto di vista della formazione. Tanto è vero che, per alcune di loro, ad esempio, avere una macchina da scrivere in grado di cancellare le cose che avevi appena scritto era già una conquista tecnologica. Sempre in quello stesso periodo frequentai anche un corso per catalogatore. Molti della mia generazione hanno avuto questo percorso ibrido: hanno iniziato sia la formazione come catalogatore, quindi operatore di biblioteche, sia la scuola di archivistica; poi, a un certo punto, hanno deciso quale strada scegliere perché i due percorsi, dal punto di vista professionale, si differenziavano molto. Il mondo delle biblioteche, dal punto di vista tecnologico, era molto, molto più avanzato del mondo degli archivi: già si parlava di SBN, di Sebina, si parlava di comunicare e condividere i dati. Quindi io credo che, nel mio percorso personale e professionale, avere avuto la possibilità di vedere anche quella modalità di lavoro, mi abbia spinto a cercare di capire se anche nel mondo degli archivi, che erano decisamente più arretrati dal punto di vista dell’interoperabilità, si potesse fare qualcosa. Comprai il mio primo computer nell’89, ed è stato un percorso veramente da autodidatta, che adesso mi fa anche un po’ tenerezza.
Com’è stato entrare in contatto con archivi di donne in una fase in cui anche tu eri una giovane donna appena diplomata in archivistica?
Io avevo una percezione molto ambivalente da questo punto di vista. Dunque, quando sono entrata a contatto per la prima volta con queste carte, con questo mondo, io non potevo non pensare a quando, ad esempio, da bambina andavo in giro l’8 marzo con mia nonna a vendere “Noi donne” e il calendario di “Noi donne”. Cioè l’Udi aveva sempre fatto parte del mio mondo perché mia nonna era un’attivista. In più, quello in cui frequentavo il liceo a Ravenna, nella seconda metà degli anni Settanta, era un periodo in cui un giorno sì e l’altro pure si era in piazza a fare manifestazioni, non solo per tematiche legate al terrorismo, ma anche per tematiche legate ad esempio a violenze sessuali o processi per stupri. Quindi erano temi che avevano fatto parte del mio mondo da sempre. Su queste mie note autobiografiche, si sono innestati, invece, quelli che erano i principi della scienza archivistica. Un archivio, infatti, è ciò che resta dal punto di vista cartaceo dell’attività di un ente, indipendentemente dalla natura di quell’ente. Un archivio non è una costruzione culturale, anche se definirlo naturale mi sembra eccessivo. Quindi, a me strideva, in alcuni casi, ad esempio, un certo tipo di ragionamento. Apro una piccola parentesi: in quella fase e anche forse per il mondo in cui stavo io, non era ancora così sentito il dibattito sulle parole da utilizzare, sul lessico di genere, che adesso invece è, naturalmente, molto più vivace ed è molto più normale che se ne senta parlare. Quindi, io dovevo mettere insieme un po’ queste due anime. Per cui, quando si affermava che quell’archivio doveva essere descritto in un certo modo in quanto prodotto da donne, questa cosa mi strideva perché io trovavo che un bilancio di previsione è un bilancio di previsione sia, ad esempio, se prodotto dalla Società ciclisti sia se compilato dall’Udi. Quello che è interessante è che le spese previste dalla Società ciclisti hanno delle caratteristiche molto diverse dalle spese invece previste dall’UDI, perché vanno incontro a determinate politiche culturali, quello sì. Perciò spesso avevo delle ostilità nei confronti di questi momenti e questo emerse soprattutto quando, direi una trentina di anni fa, venne creata la Rete regionale degli Archivi Udi.
Si, nel 1989…
Ecco, perfetto. Venne creata intanto in concomitanza con una felice intuizione di quello che è stato una delle persone più illuminanti e importanti nella mia vita: Nazzareno Pisauri, Soprintendente per i beni librari e documentari della Regione, anima dell’IBC.
Egli pensò che se i singoli archivi dell’Udi avessero riunito i propri progetti avrebbero potuto ambire a candidarsi a diventare un interlocutore per la Regione, nell’ambito della più vasta rete regionale degli archivi e delle biblioteche. Nacque così la Rete regionale degli Archivi Udi Emilia-Romagna, che avviò diverse iniziative nell’ambito del progetto che perdura tutt’oggi e si convenzionò con la Regione. In quelle prime fasi si creò questa sorta di comitato spontaneo che era costituito da quelle che venivano chiamate “le politiche”, ovvero le referenti dei singoli comitati provinciali che aderivano a questa rete. Ciascuna “politica” portava con sé la propria “tecnica”, ovvero l’archivista che aveva individuato per lavorare sul proprio archivio. Così, io feci parte di questo sottocomitato. C’erano dei grandi scontri che, a pensarci adesso, erano dei momenti veramente di formazione e di coscienza collettiva, perché quando le “tecniche” dicevano che un archivio si riordina in un determinato modo indipendentemente dal fatto che siano donne quelle che gli hanno dato vita, alcune “politiche”, non tutte, invece, non la pensavano in questo modo e tendevano a sottolineare altre modalità, che avrebbero probabilmente portato alla luce in maniera più evidente e immediata le peculiarità degli archivi dell’Udi, ma che, secondo noi archiviste, avrebbero anche un po’ snaturato quello che era il portato informativo dell’archivio.
Come siete arrivate a una sintesi di queste diverse posizioni all’interno di questi gruppi di lavoro?
In realtà, alcuni comitati hanno continuato a lavorare un po’ per conto proprio. Ad esempio, io ricordo che con Caterina Liotti, che stava a Modena, e con Magda Abbati, eravamo molto in sintonia rispetto a determinate scelte. Per esempio, Ferrara aveva fatto da sempre delle scelte diverse. Dipendeva anche molto dalle tempistiche dei lavori: se qualcuno, come a Bologna o a Ravenna, iniziava in quel momento la “costruzione” del proprio archivio, allora seguiva più facilmente i consigli delle “tecniche”. A Ferrara, se non ricordo male, avevano già organizzato l’archivio con una sorta di soggettario, e intendevano continuare così. Era una scelta che avevano già fatto da qualche anno e che comunque era per loro identitaria: ora lo capisco meglio rispetto all’epoca e, tutto sommato, ritengo che fosse anche giusto non uniformare tutte le scelte, ma rispettare le sedimentazioni originarie che ciascun nucleo aveva già avuto al proprio interno. Quindi, non ci fu una risoluzione univoca, ma sicuramente ricordo un grande dibattito, questo sì.
C’è qualche altro aneddoto o esperienza particolare che ricordi in questa fase di lavoro negli Archivi dell’Udi che ti va di condividere?
Dunque, negli archivi dell’Udi ci sono molti documenti simili, cioè tutto sommato le circolari, le lettere, i comunicati che arrivavano dall’Udi nazionale verso i singoli comitati provinciali erano uguali in ciascun archivio. Quindi, come vi ho raccontato prima, io che, in rapida sequenza, mi sono occupata di Udi Ravenna, Udi Forlì e Udi Bologna, a un certo punto ho avuto quasi la percezione che fossero tutti uguali. In realtà no: il passo successivo era capire che anche se la produzione documentaria e i documenti che si erano salvati, perché non necessariamente venivano tenuti tutti meticolosamente – dipendeva anche molto dalla mentalità delle funzionarie che lavoravano in questi uffici – potevano sembrare simili, in realtà c’erano delle differenze, che erano caratteristiche non solo del territorio su cui agiva l’Udi in quel momento, ma anche proprio delle persone, delle funzionarie che avevano agito nell’ambito dell’Udi. Ad esempio, a Ravenna c’era moltissima documentazione relativa al lavoro a domicilio, al lavoro agricolo, al lavoro delle contadine, al ruolo delle mezzadre, proprio perché quella è una zona, naturalmente, con una vocazione agricola molto spinta. Stiamo, infatti, parlando di comitati provinciali, che quindi andavano al di là della città in cui aveva sede l’archivio. Per esempio, a Forlì vi erano le funzionarie più ludiche, nel senso che si erano inventate delle occasioni di autofinanziamento dell’associazione, cioè dei momenti più conviviali, meno strettamente politici di altre situazioni. In tempi diversi, ad esempio, direi, che io ricordi, forse solo Ravenna e Bologna avevano attivato un particolare interesse verso la possibilità di offrire una consulenza legale a donne che ne avessero bisogno e che magari non avessero ancora o i mezzi economici o una consapevolezza per rivolgersi a un avvocato tout court. Per esempio, a Ravenna c’era una grande attenzione per dei momenti di lettura, quindi collettivi. Queste specificità, che comunque emergevano, mi sono sempre sembrate molto interessanti.
Secondo te, quali sono le sfide e le potenzialità, non solo e non tanto dei singoli archivi, ma soprattutto della Rete regionale archivi Udi dell’Emilia-Romagna della quale hai prima ricordato la genesi?
Parlando dei trent’anni di relazione tra la Rete e la Regione, il percorso è stato sicuramente, all’inizio, un po’ accidentato perché era sì una rete, ma molto spesso emergevano delle personalità che in qualche modo riuscivano, appunto, a emergere e a sbilanciare i progetti. Da qualche anno a questa parte, mi sembra ci sia una verifica più attenta sulla distribuzione dei progetti e dei finanziamenti all’interno della Rete. Purtroppo, anche se non ci stupiamo in realtà, non ci sono tantissimi archivi di donne, cioè di donne singole oppure di altre associazioni, che siano entrati in questo sistema. Però, rispetto agli archivi dell’Udi, credo che la cosa importante, per cui potrebbero essere veramente una potenzialità, sia che la documentazione relativa a determinate situazioni e conquiste che si danno molto spesso troppo per scontate, ma che non lo sono per niente, si può trovare in questi archivi. Io ho due figlie in età universitaria e quando parlo con loro, ad esempio, di asili nido, di leggi come la legge sul divorzio, la legge sull’aborto, mi rendo conto che per loro è normale che ci siano: è quasi come se fosse nell’ordine naturale delle cose. Noi, un po’ più vecchiette, sappiamo che non è per niente così. E quindi, in quegli archivi, c’è tutto il percorso che spiega che cosa ha comportato fare in modo che queste cose oggi sembrino naturali. Io credo che quello sia uno dei potenziali informativi più rilevanti: ho sempre pensato che fosse la punta di diamante.
C’è qualche altra cosa che ti va di aggiungere rispetto a questa duplice esperienza che hai fatto sia con la Rete regionale archivi Udi dell’Emilia-Romagna sia con le donne e le varie generazioni che hai avuto modo di incontrare?
Una cosa che mi verrebbe da dire come archivista è questa: quando, appunto, affrontai l’archivio dell’Udi di Ravenna era il mio primo lavoro e avevo, quindi, da una parte l’inesperienza nel lavoro e dall’altra parte tutti i “dogmi” appresi alla Scuola di archivistica. Quindi io ero all’inizio un po’ paralizzata rispetto a che cosa potevo o non potevo fare, perché alla Scuola di archivistica ci insegnavano cose che riguardavano archivi istituzionali, che, essendo enti con una certa struttura, sono lontani anni luce da quella che può essere la produzione documentaria di un’associazione privata. Quindi mi inventai questa specie di quadro di classificazione degli argomenti, perché dovevo incasellare in qualche modo tutti questi fascicoli che trovavo sparpagliati in ogni dove, in quelle stanze che erano state abitate dalle funzionarie. Per molti anni sono stata poi convinta di aver fatto una stupidaggine come archivista, cioè di aver costruito a posteriori questa sorta di elenco di argomenti, e quindi di aver fatto una proiezione, su queste carte, troppo invasiva; e tutte le volte che dovevo parlare a un convegno di archivisti di questa esperienza dovevo sempre parlarne in modo dispiaciuto e pentito. Ora ho cambiato di nuovo idea: ovvero, questo elenco di argomenti che ho in qualche modo utilizzato per classificare questi fascicoli e per restituire le informazioni che mi sollecitavano, non era una mia proiezione, ma erano lemmi che mi venivano suggeriti dalle carte. Io non ho messo in bocca all’archivio dell’Udi degli oggetti provenienti da altre esperienze, ma ho cercato di far emergere i temi e le tematiche che caratterizzavano questa attività. Per cui, naturalmente, in un archivio comunale non avrei mai avuto l’oggetto ‘aborto’, ‘violenza sessuale’; mentre in un archivio dell’Udi erano le voci di classificazione quasi più ricche di carte e di documentazione. Quindi, a questo punto, rivendico una scelta che ha dato un quadro di interpretazione, sicuramente mio, ma molto sollecitato dalle carte.
E che, mi verrebbe da aggiungere, è stato poi ripreso da altri. Infatti, la classificazione per tematiche, di cui parlavi, è una delle caratteristiche degli archivi Udi, che ci permette anche di capire le molteplici aree di attività di questa associazione.