Intervista a Vittoria Tola. Una storia dell’Archivio centrale Udi e dell’Associazione nazionale archivi Udi

Interview with Vittoria Tola. A history of the Udi Central Archives and the National Udi Archives Association

In apertura: XI Congresso nazionale Udi, 20-23 maggio 1982, Roma (Centro documentazione donna, Archivio Udi Modena).

L’intervista affronta genesi e potenzialità dell’Archivio centrale Udi e della rete che raggruppa gli archivi dell’UDI sul territorio nazionale. Ne parliamo con Vittoria Tola, Responsabile nazionale dell’Udi e Presidente dell’Associazione nazionale degli archivi dell’Udi. L’intervista è stata realizzata da Eloisa Betti e Tobia Ciarrocchi.

Quando hai incontrato Udi e che ruoli hai ricoperto nel corso della tua esperienza?

Ora sono Presidente dell’Associazione nazionale archivi dell’Udi, fino a tre anni fa sono stata responsabile nazionale della segreteria nazionale dell’Udi, incarico che avevo assunto nel 2011 e sono nella segreteria nazionale e responsabile dell’Archivio centrale. La mia esperienza nell’Udi, però, parte da molto tempo prima perché sono arrivata all’Udi nei primi anni Settanta, dall’ università di Roma, dove iniziava il movimento neofemminista. Però a me sembrava, per gli studi che avevo fatto e per le mie esperienze familiari e sociali, che Udi fosse ancora molto importante per la sua storia che nasceva dall’antifascismo, dalla Resistenza e dalle donne Costituenti che avevano posto le basi con la Costituzione della nostra democrazia. Le donne dell’Udi proponevano e si impegnavano per nuovi diritti delle e per le donne (dal diritto di voto a tutti i diritti sul lavoro e per la maternità) dopo una lunga parentesi storica di discriminazioni che in Italia affondava le radici non solo nel fascismo – che aveva costruito le condizioni giuridiche, sociali e politiche per una “inferiorizzazione” delle donne con il codice Rocco e la riforma Gentile – ma che erano rintracciabili anche nel codice umbertino e napoleonico. La realtà dell’Udi, da giovane universitaria, mi pareva fondamentale e affascinante: le battaglie che stavano cominciando come l’abolizione di alcune norme del codice Rocco contro la contraccezione e l’aborto come reato contro la stirpe e contro la razza, ma anche le lotte per gli asili nido, la centralità per il diritto allo studio e per il nuovo Codice di famiglia che, soprattutto grazie all’impegno dell’Udi, riuscì a cambiare finalmente ed essere approvato. Erano anni di mobilitazioni importanti, che coinvolgevano in tutt’Italia donne molto diverse tra loro, colte e incolte, povere e benestanti, lavoratrici e casalinghe, giovani e meno giovani.

Queste caratteristiche rappresentano l’origine del mio interesse per l’Udi. In quelle mobilitazioni inoltre, si mescolavano anche le preoccupazioni per la questione del terrorismo che si presentava tormentoso nel paese: molte di noi capirono riflettendo sulla violenza politica che insieme a questa esisteva una violenza contro le donne permanente, stabile e molto subdola in molti ambiti, che veniva sostenuta ancora dal codice Rocco in famiglia, sullo stupro, sul delitto d’onore e il matrimonio riparatore nella parte non toccata del Codice Rocco anche dopo il nuovo diritto di famiglia. Questi fenomeni possono sembrare preistorici, ma un cambiamento legislativo e culturale è stato possibile grazie all’azione dell’Udi e all’alleanza con tutte le associazioni, i collettivi del movimento femminista, con il Movimento di liberazione della donna (Mdl) e si sono concluse solo nel 1996 quando il Parlamento ha finalmente dichiarato lo stupro un reato contro la persona e non contro la morale, anche se la violenza maschile non è certo stata sconfitta.

Puoi dirci qualcosa sul congresso del 1982 durante il quale è stata presa la decisione di creare gli archivi dell’Udi? Che ruolo ha avuto la tua generazione?

Dopo che io sono arrivata all’Udi ci sono stati il IX il X congresso. Il primo era il tentativo di affermare un ruolo delle donne e della loro nuova consapevolezza nello sviluppo del mondo; il secondo rifletteva sulle nuove strutture e sui nuovi valori per la società italiana a partire dalle donne. Questa trasformazione doveva fare i conti con la curiosità e le relazioni che noi, come nuova generazione che arrivava in politica, avevamo costruito con donne del neofemminismo a volte discutendo, a volte con conflitti con scelte differenti sulla questione dell’aborto, differenze che sono state poi man mano superate grazie a una maggior relazione tra noi e a un’osmosi tra le varie realtà molto forte. A noi sembrava che le nuove condizioni cambiassero le pratiche, i metodi e le caratteristiche di come si faceva politica delle donne: con questo spirito fu preparato l’XI congresso che voleva destrutturare tutta la poderosa organizzazione dell’Udi, per rendere meno gerarchico e più libero e agevole il confronto tra le donne. L’Udi, contrariamente alle altre realtà del movimento delle donne aveva una straordinaria struttura organizzativa che, nata dal primo Congresso di Firenze dopo la Liberazione (1945), toccava tutta Italia, con sedi quasi in ogni città grande o piccola. In quegli anni eravamo convinte che si dovesse cambiare per essere più libere noi ma anche nei rapporti con le altre realtà di donne e, soprattutto, per affrontare una questione che già in quegli anni si poneva con molta forza, cioè il problema dei finanziamenti perché le sedi costavano: costava per Udi fare politica e pagare le funzionarie per quanto a volte molto poco. Noi dell’Udi di Roma, generazione di giovani, volevamo organizzazione e luoghi decisionali più snelli e leggeri però ci sembrava anche azzardato non creare le condizioni per mantenere – come dicevano per altro molti collettivi femministi, o il Mld, o figure prestigiose del femminismo come della politica di sinistra – una struttura organizzata. Continuava inoltre a porsi questa necessità per salvaguardare tutta la documentazione nazionale e locale che già esisteva nell’Udi. Ad esempio, a Roma non c’erano solo le sedi locali, ma c’era anche l’Udi nazionale che era collocata accanto all’Udi di Roma, di cui in quel momento ero la responsabile, di fianco c’era anche il centro Elsa Bergamaschi che era un centro di formazione e di documentazione importante anche sul piano librario.

Quale è stato il percorso che ha portato alla creazione dell’Archivio centrale Udi di Roma?

Gli anni dopo il Congresso furono molto complessi e le responsabili di sede che si succedevano, come Lidia Menapace, Rosangela Pesenti, Emilia Lotti e tante altre non avevano poteri per intervenire sulle necessità della sede Nazionale e per gestire e ordinare i materiali dell’Archivio. Il problema della riorganizzazione dell’Archivio centrale fu preso in mano da tre donne straordinarie come Luciana Viviani, Maria Michetti e Marisa Ombra, figure fondamentali non solo della storia dell’Udi e che venivano tutte e tre dalla storia dell’antifascismo e della Resistenza: Marisa Ombra, non a caso, è poi diventata anche vicepresidente nazionale dell’Anpi, Maria Michetti era stata una partigiana romana, amministratrice, dirigente non solo dell’Udi ma anche del Partito comunista, come Luciana Viviani, anche parlamentare. Quindi queste tre donne decisero che la prima cosa da fare in quel momento era organizzare l’archivio e renderlo consultabile, valorizzare la storia dell’Udi perché diventava sempre più evidente che i costi di via della Colonna Antonina, dove aveva sede l’associazione, non sarebbero stati sopportabili a lungo. Si misero a lavorare, accompagnate e aiutate da molte altre donne, cercando di definire come tutto quel materiale poteva essere organizzato e alla fine, anche con l’aiuto di grandi archiviste come Linda Giuva ed altre, decisero di organizzarlo su base cronologica e tematica.

Una volta risolta la questione dell’archiviazione ci scontrammo con un altro grande problema, ossia trovare il modo di spostare tutto quel materiale in una sede adeguata e, soprattutto, che non costasse. Maria, Luciana e Marisa impedirono che, come aveva fatto l’Udi di Roma che si era trasformato in Udi la Goccia, l’archivio venisse spostato al Buon Pastore occupato, straordinaria struttura secentesca del Comune che in una parte è diventato poi la Casa Internazionale delle Donne, perché (e secondo me non avevano tutti i torti) non c’era la certezza che, durante l’occupazione del Buon Pastore, l’Archivio sarebbe stato messo in sicurezza. Iniziò dunque una lunga battaglia, portata avanti in particolare da Maria Michetti, con il Comune di Roma per ottenere una sede che costasse poco, che fosse pubblica e che avesse le caratteristiche necessarie per conservare l’archivio perché l’esposizione lineare dell’archivio in metri è veramente notevole. Per riuscire a risolvere questo problema fu necessario un finanziamento nel settantesimo anniversario della nascita dell’Udi e del Cif, da me chiesto alla Regione Lazio che diede i soldi al Comune di Roma per ristrutturare una sede che poi è diventata la sede Udi di via Arco di Parma. Questo fu possibile perché nel frattempo l’archivio era stato riconosciuto dalla Soprintendenza regionale di notevole interesse storico. Dopo alcuni anni, però, ci rendemmo conto che c’era un nuovo problema perché in quella sede, che pure era stata restaurata bene, non si riusciva a garantire sicurezza all’archivio perché era una vecchia struttura romana troppo vicina al Tevere e da cui saliva il salnitro che rischiava di intaccare le carte dell’archivio. Per questo motivo abbiamo iniziato un’altra grande lotta che da responsabile nazionale sentivo molto, perché l’importanza della Conservazione l’avevo ben chiara soprattutto dopo l’XI congresso quando per diversi anni sono stata responsabile nazionale degli archivi dell’Istituto Gramsci nazionale di Roma e avevamo dovuto fare i conti con il problema della conservazione dei Quaderni dal carcere di Gramsci e di tante altre carte. A seconda dei livelli di conservazione, il rischio della perdita diventava molto forte. All’Udi sono poi riuscita a trovare una soluzione con il comune di Roma solo nel 2015 spostando l’Archivio Centrale da via Arco di Parma al primo piano del complesso Buon Pastore, con l’entrata autonoma per noi in via della Penitenza 37. Da quel momento è cominciata un’altra fase positiva perché finalmente l’Archivio era in sicurezza relativa, anche se in spazi adeguati ma non sufficienti. Per questo abbiamo potuto dedicarci ad alcuni progetti per valorizzare l’archivio e fare in modo che anche coloro che cercavano di consultarlo sempre di più avessero il modo e i mezzi per farlo.

Puoi parlarci della nascita dell’Associazione nazionale degli archivi dell’Udi?

Davanti a tutte le problematiche dette prima, le donne dell’Udi mostrarono una forte consapevolezza della necessità di salvare i molti materiali importanti della loro storia. Infatti, esistevano molti archivi Udi in sedi che erano state chiuse o che si erano sciolte o addirittura che si erano dovute trasferire in altri luoghi che non appartenevano all’Udi o non avevano spazi sufficienti. Delle circa 60 realtà archivistiche rimaste, infatti, molte avevano dovuto trasferire i propri documenti presso gli Istituti Gramsci, negli Istituti storici della resistenza o in altri enti dello stesso tipo o presso le Case delle donne o i centri di documentazione. Davanti a questa dispersione alcune nostre dirigenti, in particolare Rosanna Galli e Marisa Ombra decisero di creare l’Associazione nazionale degli archivi Udi nel 2001 che avrebbe dovuto salvaguardare il patrimonio documentario Udi sparso per l’Italia. L’intento era quello di costruire una rete di archivi con un proprio statuto e che, attraverso diverse modalità di collaborazione tra gli archivi, potesse dialogare con le istituzioni tenendo conto delle diverse situazioni. Infatti, c’erano regioni, come ad esempio l’Emilia-Romagna, in cui sostanzialmente le Udi non avevano subito molte variazioni e potevano costruire una rete che trovava, non solo nell’ambito dei comuni ma anche della Regione Emilia-Romagna, un’attenzione e un sostegno. Altre realtà, che in passato erano state ugualmente molto forti e radicate nel territorio, invece si trovavano in grandi difficoltà perché più colpite dalla destrutturazione del 1982 come, ad esempio, gli archivi dell’Udi in Piemonte, in Lombardia oltre che nel Lazio e nel meridione. Dopo la creazione dell’Associazione nazionale degli archivi Udi ci sono stati vari percorsi e quindi adesso siamo in una fase di riflessione e di rilancio.

Che tipo di percorsi di consolidamento e valorizzazione state portando avanti con l’Archivio centrale?

Negli stessi anni prima ricordati abbiamo cercato di capire come sfruttare i bandi della Presidenza del Consiglio dei ministri per la digitalizzazione dei documenti molto importanti. La prima digitalizzazione è stata quella dei manifesti dell’Udi, tutti i manifesti della sua storia perché ci eravamo rese conto, già a partire dai materiali dei Gruppi di difesa della donna, quindi del ’43-44, che, se non si digitalizzava, si rischiava di far perdere una documentazione storica unica. I manifesti che, anche se erano stati raccolti e conservati fisicamente e valorizzati da storiche di grande valore come Anna Bravo insieme a Maria Michetti e Marisa Ombra e altre, rischiavano di essere ormai troppo fragili per poterli anche solo toccare e quindi, insieme ai materiali dei Gruppi di difesa della donna, abbiamo digitalizzato tutti gli oltre 3000 manifesti dell’Udi. Poi abbiamo ottenuto dei fondi per la digitalizzazione di tutte le foto dell’Udi. Proprio all’inizio del 2020 quando stava per scatenarsi la pandemia di Covid-19 siamo riuscite a digitalizzare tutti i materiali sulla violenza contro le donne: un tema sempre più presente nella nostra attività politica ma che registrava richieste molto forti di consultazione per le tesi di laurea e ricerche, da parte italiana e di altri paesi, di docenti, di televisioni che volevano avere la possibilità di capire come era nata la storia delle lotte e dell’impegno delle mobilitazioni in Italia contro la violenza alle donne. Negli ultimi anni, siamo riuscite ad inventariare una parte dell’Archivio centrale che era fermo al 2001-2002, abbiamo poi una serie di fondi privati e stiamo lavorando a un progetto che abbiamo vinto nel 2022 con il Ministero della cultura in cui, per il periodo che va dal ’44-45 al ’56, stiamo digitalizzando tutti i bollettini dell’Udi, le newsletter che sono un materiale consistente, e tutti i volantini, i fogli volanti dell’archivio dello stesso periodo. Si tratta di un’impresa non da poco che dovremmo completare entro ottobre anche preparando un nuovo sito che arricchisca il sito di Udi nazionale. Oltre alla digitalizzazione, stiamo anche lavorando alla metadatazione di quel materiale che risulta molto creativo: su qualsiasi lotta di quegli anni stiamo scoprendo che non c’erano solo i manifesti e i volantini ma una marea di cartoline, di petizioni, di disegni, vademecum di istruzioni per coinvolgere le donne e che hanno delle caratteristiche molto particolari non solo a livello grafico.

Che ruolo possono avere gli archivi dell’Udi per la trasmissione della storia delle donne anche alle generazioni più giovani, quali progetti didattici avete promosso in questo senso?

Secondo me gli Archivi dell’Udi sono fondamentali per la trasmissione della storia delle donne e della storia d’Italia in cui le donne assumono ruoli e iniziative sempre più decisive. Per i 70 anni dalla nascita dell’Udi avevamo usato un titolo emblematico per un grande Convegno in Parlamento che era “Fare storia e costruire memoria” e che a me sembra una caratteristica preziosa dell’Udi. Oggi siamo in una fase complicata e drammatica della storia non solo dell’Italia ma dell’Europa e del mondo e uno dei problemi principali per affrontarla è quello di avere consapevolezza delle origini e delle caratteristiche di questa crisi per riuscire a capire come affrontarla. Quindi il problema della memoria e della storia è fondamentale, ma non per ragioni nostalgiche, ma perché può dare strumenti per capire meglio cosa abbiamo di fronte e cosa e come va fatto. Ce ne siamo rese conto anche con la mostra che abbiamo fatto l’anno scorso e che sta ancora girando per l’Italia e per la quale abbiamo usato il materiale dell’Archivio centrale dell’Udi per ricostruire il percorso sulla violenza maschile che, nonostante tutti gli sforzi profusi da noi da decenni, affligge ancora questo paese. La mostra dal titolo “Oltre Dafne, fermare Apollo” racconta la storia della violenza in Italia non in modo illuministico e pretendendo che stereotipi e pregiudizi, strutture culturali profonde, possano sparire perché semplicemente viene detto che devono sparire, ma documentandone le origini, le ragioni culturali, le leggi e anche gli interessi, in senso negativo, della violenza maschile che ancora dobbiamo affrontare. Il materiale archivistico che abbiamo utilizzato, grazie anche alla possibilità di dotare ogni pannello retroilluminato con molti materiali dell’archivio è andato in tantissime scuole di ogni ordine e grado ed ha ottenuto risultati di partecipazione sia per ragazze e ragazzi delle scuole medie e superiori molto lusinghieri. Una partecipazione particolarmente significativa e interessante e, per certi versi, inaspettata anche per le insegnanti. È vero che noi volevamo sollecitare una riflessione sulla storia e su questo particolare problema ma allo stesso tempo ci eravamo rese conto, grazie a dei lavori che avevamo fatto negli anni precedenti partecipando a incontri in centinaia di scuole, che era difficile cominciare a parlare di questo tema in modo rigoroso e coinvolgente perché, a meno che non ci fossero in quelle scuole delle insegnanti particolarmente preparate i ragazzi si trovavano in difficoltà ad affrontare certe questioni e a volte scontavamo anche le difficoltà che ponevano le famiglie ad affrontarli. Quindi, arrivare a questa mostra è stato un impegno certo di ricostruzione e di memoria storica ma guardando al futuro e a quello che bisognerebbe fare da parte di tutti (associazioni ed istituzioni) e ha messo in moto processi pedagogici molto interessanti per i giovani. Ci siamo rese conto che questioni che poniamo in questa mostra riescono a colpire anche figure non solo giovani pur a conoscenza del problema: come è successo per i complimenti ricevuti da alcune dirigenti dell’Istat che coordinano il lavoro per la raccolta dati sistemica sulla violenza di genere. Abbiamo chiaro che gli archivi dell’Udi e gli archivi storici delle donne in questo paese sono ancora troppo poco considerati, non solo dall’ambito della scuola ma anche dalle istituzioni. Il fatto che non esista ancora, nonostante le nostre ripetute sollecitazioni al Governo e al Parlamento italiano, una norma di legge che tuteli gli archivi storici delle donne credo sia non solo oggettivamente un problema per le risorse che mancano per farli funzionare ma emblematico della minimizzazione della storia delle donne a favore di una storia più monosessuata e che dimostra che in Italia c’è ancora molto da lavorare. Per questo abbiamo sulla base dei materiali d’archivio fatto proposte di successo attraverso i fumetti anche alla scuola materna ed elementare come il progetto “Mimosa in fuga” che ricostruisce attraverso metodi inediti la storia del voto alle donne e dell’8 marzo come giornata internazionale della donna.

Quali prospettive e quali potenzialità vedi per l’Associazione nazionale degli archivi dell’Udi di cui sei attualmente presidente?

Io credo che l’Associazione nazionale degli archivi dell’Udi possa e debba essere un grande strumento collettivo per una politica da fare in comune, per esempio, in tutte le regioni d’Italia, perché le esperienze degli archivi che ne fanno parte sono tante e importanti e quindi bisognerà fare in modo che non solo a livello nazionale, ma che tutte le regioni vengano interpellate per fare quello che ha fatto l’Emilia-Romagna con un finanziamento stabile e non solo con bandi una tantum sugli archivi, affinché il materiale diventi fruibile per qualunque tema riguardi il paese e le donne. Per esempio, la regione Lazio ha votato recentemente un emendamento alla legge di bilancio, dopo una discussione di anni, per rendere il mese di maggio il mese della “memoria e del ricordo delle marocchinate”. Tema sul quale noi sappiamo tutto come Udi e come archivi dell’Udi ma che invece a livello istituzionale passa in sordina: il Parlamento italiano quest’anno nell’anniversario del 7 aprile del 1952, quando finalmente Maria Maddalena Rossi ottenne risposta alla sua interpellanza del 1951 sulle marocchinate scaturita dal Convegno di Pontecorvo, non ha fatto niente per ricordare quella tragedia e la capacità di mobilitazione delle donne. Eppure, in una situazione come quella di oggi, con la guerra in Ucraina e gli stupri di guerra, l’esperienza italiana, grazie al lavoro fatto dall’Udi, da Maria Maddalena Rossi e dalle donne che in quel momento si spesero in un modo straordinario, potrebbe ancora insegnare moltissimo a tutto il mondo. Non è un caso che questo emendamento nasca dal lavoro sulla memoria e in base a un lavoro di archivio richiesto da città del Lazio e dalle scuole considerando finalmente questo problema come un problema di storia, di tragedia e di rinascita che riguarda non solo la comunità laziale ma l’Italia. Il comune di Montecassino ha intitolato una piazza a Maria Maddalena Rossi che ha provocato accese discussioni politiche, proprio da parte di chi pensava ancora alle marocchinate come un problema non della storia italiana e delle donne che con quanto hanno fatto con il Convegno di Pontecorvo (prime nel mondo ad affrontare pubblicamente la tragedia degli stupri di massa in guerra) ma solo come scontro razziale tra le truppe coloniali francesi africane e popolazione bianca per far passare una narrazione storica razzista funzionale al presente. Quindi credo che l’Associazione degli archivi sia uno strumento fondamentale, ed è un grande peccato che in questo momento in cui i nostri tentativi, quasi in linea di arrivo, per fare un emendamento alla legge di bilancio statale per gli archivi storici delle donne non si concluda per la crisi di Governo. Rimane un discorso che va ripreso appena possibile e dobbiamo riuscire a lavorarci in modo tale da renderlo un impegno collettivo nostro e delle istituzioni, della società, soprattutto, un luogo di progettazione e di iniziativa politica e di valorizzazione di tutta la memoria delle donne che contengono come parte del patrimonio del paese.