Intervista a Laura De Giorgi e Guido Samarani. L’Italia e la Cina dal Novecento al Duemila: le relazioni di ieri per capire l’oggi

Interview with Laura De Giorgi and Guido Samarani. Italy and China in the 20th and 21st centuries: understanding the present through the past

In apertura: delegazione italiana del Pci nella Rpc: colloquio con il ministro degli esteri Chen Yi, 7 aprile 1959. Fondo privato Marco Marroni.

Tra 2020 e 2021 la storia della Cina è stata oggetto di particolare interesse nazionale e internazionale, sia in occasione del centenario della fondazione del Partito comunista cinese (Pcc) che del cinquantennale della normalizzazione dei rapporti tra Cina e Italia. Queste occasioni ci danno modo di riflettere su un tema complesso come quello delle relazioni tra l’Italia e la Repubblica Popolare Cinese (Rpc), che solo di recente è stato oggetto di riflessioni di lungo periodo da parte di storici dell’area. Un’analisi di questo tipo può aiutarci a rileggere l’evolversi dei rapporti internazionali in maniera più consapevole e priva di condizionamenti ideologici e politici.

Ripercorriamo, dunque, le tappe principali dei rapporti bilaterali sino-italiani dal punto di vista politico, sociale, diplomatico e culturale assieme al Prof. Guido Samarani, già docente di Storia della Cina presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, e alla Prof.ssa Laura De Giorgi, titolare della cattedra di Storia della Cina presso la medesima università. L’intervista è stata svolta da Rossella Roncati.

Quali elementi contraddistinguono i rapporti bilaterali tra la Cina e l’Italia nel secolo breve? Quali sono le peculiarità in base a cui quest’ultima si è distinta da altri Paesi europei nei rapporti con la Cina?

SAMARANI: Innanzitutto l’Italia è stata una potenza coloniale minore rispetto alla presenza dominante di Paesi europei quali, ad esempio, il Regno Unito o la Francia e pensiamo che ciò abbia in qualche modo giovato alla sua immagine in Cina, in cui come sappiamo le sensibilità verso il passato sono da sempre molto acute. Vi sono poi eventi e narrative che in qualche modo hanno alimentato questa attenzione sia da parte cinese che da parte italiana: ad esempio la valorizzazione del Risorgimento italiano nella Cina del primo Novecento, visto quasi come una sorta di specchio storico nel quale i cinesi avrebbero dovuto e potuto osservarsi per trovare il proprio percorso verso la rinascita nazionale; o ancora personaggi come Alberto De’ Stefani che, pur essendo parte del Gran Consiglio del fascismo, tese a contrastare – anche sulla base di esperienze personali – il processo della politica estera italiana di distacco dalla Cina e di avvicinamento al Giappone; e ancora Dino Gentili, Enrico Mattei, Ferruccio Parri e altri che dopo la nascita della Repubblica Popolare Cinese (Rpc) furono portatori – aldilà delle differenze nelle proprie convinzioni politico-ideologiche – di un messaggio di dialogo e di attenzione verso la realtà della Cina popolare. Nell’insieme, tuttavia, ci pare che storicamente la politica estera e la visione italiane della Cina siano state sostanzialmente influenzate da una serie di “impulsi della storia”, senza esprimere una reale strategia di ampio respiro: ad esempio, il desiderio di avere una nostra colonia (Tianjin) in Cina è stata mossa dall’idea secondo cui una potenza che voleva essere alla pari delle altre non poteva non avere possedimenti anche in quel Paese; e ancora, in questi decenni segnati dall’impetuosa ascesa cinese nel mondo, l’impressione è che spesso ci sia mossi più per non restare indietro nella “corsa” al mercato cinese, che in base a una strategia complessiva che muovesse da una comprensione di fondo di quel Paese e dal come, sia sul piano economico-commerciale sia su quello politico e culturale, l’Italia potesse tutelare i propri interessi e svilupparli adeguatamente.

Insomma, salvo forse in alcuni brevi periodi, a differenza di quanto faccia la Cina di norma, non l’abbiamo studiata in modo costante e approfondito, sottovalutando anche la domanda di conoscenza che veniva da molti giovani, come si evince dal crescente numero di atenei e di corsi di laurea in cui si studiano la lingua e la civiltà cinesi.

Nell’orizzonte internazionale del secondo dopoguerra le relazioni tra i due Paesi si mossero su un piano informale di scambi, in ragione del mancato riconoscimento della Rpc da parte delle Nazioni Unite e, con esse, dei Paesi nella sfera di influenza statunitense. La stessa Italia non intrattenne rapporti diplomatici diretti con la Cina socialista sino al 1970. Ciononostante, le attestazioni storiche testimoniano che in questo periodo avvennero comunque degli scambi: di che tipo di interazioni si tratta e come si strutturano?

DE GIORGI: Le interazioni fra società italiana e Repubblica Popolare Cinese fra il 1950 e il 1970 vanno inquadrate all’interno di quella people to people’s diplomacy che costituisce un elemento importante della concezione e delle pratiche della Cina nei rapporti internazionali, tanto con gli Stati con cui intrattiene relazioni ufficiali quanto con quelli con cui queste sono assenti. In questi decenni i canali di contatto furono molteplici, anche se non sempre si produssero esiti immediati a causa della complessità del contesto domestico e internazionale. Le interazioni includevano contatti a carattere esplicitamente politico con rappresentanti dei partiti, ad esempio attraverso il Dipartimento per le relazioni esterne del Partito Comunista Cinese, e dunque in primis con il Partito Comunista Italiano; ma anche scambi economici e culturali attraverso organizzazioni di massa, come i sindacati e la Federazione delle donne cinesi; o istituzioni specifiche, come il Comitato per la promozione dei rapporti commerciali con l’estero, o l’Associazione cinese per i rapporti culturali con l’estero. È soprattutto a partire dal 1954, con la fine del conflitto coreano e la promulgazione della Costituzione, che gli scambi si intensificano: molte delegazioni italiane (di industriali, sindacalisti, intellettuali e artisti, attiviste femminili, sportivi) ma anche singole personalità (come Pietro Nenni) giungono in Cina, specialmente fra il 1955 e il 1957, mentre alcune missioni culturali e commerciali della Repubblica Popolare Cinese visitano l’Italia nel contesto dei loro tour in Europa. Inoltre la stampa italiana, e in particolare l’Unità, ha un suo corrispondente da Pechino fin dal 1953; mentre imprenditori accorti, come i summenzionati Dino Gentili e successivamente Enrico Mattei, con strategie e ruoli diversi, aprono al business con i cinesi. D’altra parte, la scelta di non riconoscere la Repubblica Popolare Cinese, avvenuta nel 1950 – pur inevitabile considerando la posizione della Repubblica Italiana nel contesto internazionale – non fu in realtà unanime e non solo le forze politiche della sinistra, ma anche esponenti di altri contesti politico-culturali, compreso il mondo cattolico, per non parlare dei circoli imprenditoriali, guardavano ai rapporti con la Cina socialista come una necessità, tanto per garantire lo sviluppo e l’equilibrio internazionale quanto per promuovere le relazioni commerciali e il futuro dell’industria italiana. Da parte cinese, le relazioni con l’Italia si inserivano in un più ampio quadro di accreditamento della nuova Cina sul piano mondiale. Pur affermando con chiarezza la sua appartenenza al blocco socialista, la Repubblica Popolare Cinese era parimenti tesa a costruire la sua immagine internazionale di Stato pronto ad adoperarsi per la pace e il dialogo internazionale, nella prospettiva di vedervi includere anche altri attori, in particolare gli Stati di nuova formazione dopo l’esperienza coloniale. Negli anni Cinquanta, questa diplomazia informale e parallela fra Italia e Cina costituisce un’esperienza importante, per quanto il dialogo effettivo non potesse non risentire dei mutevoli contesti interni. In Italia questi rapporti vennero in parte contestati (è nota la polemica di Nicola Chiaromonte nei confronti di Piero Calamandrei, a capo di un’importante delegazione culturale che si reca nella Repubblica Popolare nel 1955); in Cina il prevalere di una linea più radicale con il lancio della campagna del Grande balzo in avanti, nel 1958, comporterà un irrigidimento nei rapporti con il mondo esterno – in particolare quello occidentale – a fine decennio. Va da sé che tali contatti, pur fortemente irreggimentati nel contesto della propaganda verso l’esterno e quindi risultanti in un’esperienza del contesto cinese in gran parte artificiosa – soprattutto per quanto riguarda le visite degli italiani in loco – tuttavia contribuirono comunque in modo significativo alla conoscenza della nuova Cina in Italia.

Dopo la rottura delle relazioni sino-sovietiche sul piano internazionale e l’avvio della Rivoluzione culturale su quello interno, la Rpc degli anni Sessanta si caratterizza per una decisa chiusura. È vero anche per i rapporti con l’Italia? Quest’ultima, dal canto suo, intensifica gli scambi con Taiwan, allora riconosciuta come “vera Cina”?

SAMARANI: In effetti, con la rottura delle relazioni tra Pechino e Mosca e il ripiegamento interno della Rpc in seguito alla Rivoluzione culturale, molto del prezioso lavoro politico, economico e culturale di dialogo e di attenzione verso la Cina popolare andò perduto: un lavoro, bisogna ricordarlo, che si era nutrito dell’opera del più forte partito comunista in Occidente ma anche di altre forze di sinistra, laiche e cattoliche, nonché di gruppi e associazioni attive sia nel mondo commerciale che in quello culturale. Tuttavia, non passarono molti anni prima che la Cina cominciasse ad aprirsi all’Occidente (basti pensare che questo 2022 segna il 50° del viaggio di Nixon a Pechino) e bisogna riconoscere che in questo caso l’Italia fu tra le prime in Europa ad allacciare, nel 1970, rapporti diplomatici ufficiali. Quanto ai legami politico-diplomatici con Taiwan, anche qui l’impressione è che si trattò di una scelta legata più al posizionamento internazionale dell’Italia che a una strategia vera e propria: basti pensare che la nostra rappresentanza in loco rimase sempre al di sotto del rango di ambasciatore e che, a quanto risulta dai relativamente scarni dati disponibili negli archivi italiani, le relazioni economico-commerciali restarono sempre modeste.

I cambiamenti politici ed economici verificatisi nella Rpc a cavallo tra anni Settanta e Ottanta, con la morte di Zhou Enlai e poi di Mao Zedong nel 1976 e le successive riforme di “apertura” di Deng Xiaoping, cosa comportarono sul piano bilaterale? Gli scambi con l’Italia, forti dell’avvenuta normalizzazione, furono di natura prettamente economica?

DE GIORGI: Con il riconoscimento diplomatico fra Cina e Italia si assiste a un cambiamento significativo dei rapporti fra i due Paesi. Se i rapporti politici sono segnati da alcune visite importanti (come quelle del ministro degli Esteri Giuseppe Medici nel 1973), sono soprattutto quelli economici e culturali a ricevere un nuovo slancio. Fin dal 1971 iniziano le missioni di alti esponenti, influenti per l’economia, come per l’Italia il sen. Vittorino Colombo che incontra Zhou Enlai. A Pechino, oltre all’Istituto del Commercio Estero (che in effetti aveva aperto già a metà degli anni Sessanta e funzionò anche per contatti diplomatici sottotraccia), l’ANSA invia una corrispondente, Ada Princigalli. Il primo ambasciatore fu Folco Trabalza, che in precedenza aveva servito a Kabul e Belgrado, e si trovò a operare nella Repubblica Popolare Cinese in una situazione alquanto incerta sul piano politico. Il celebre caso del film Chung-kuo di Michelangelo Antonioni, fortemente voluto dai cinesi per raccontare la Cina dell’epoca e poi violentemente contestato dagli stessi – e anche in Italia dai gruppi maoisti – dà un po’ l’idea del clima contraddittorio di quegli anni. Con la morte di Mao Zedong, si apre gradualmente una nuova fase, anche se ci vorranno un paio di anni prima che, con l’affermazione della linea politica di Deng Xiaoping, si chiarisca la nuova direzione della dirigenza cinese. Nel dicembre del 1978, proprio nelle settimane del Plenum della svolta, il ministro degli Esteri cinesi si reca in visita ufficiale a Roma e, con l’occasione, vengono firmati due accordi, uno di cooperazione culturale e uno di cooperazione scientifica. Non solo commercio, dunque, ma anche una volontà di cooperare in modo sistematico per promuovere una maggiore conoscenza reciproca e per sostenere il nuovo corso economico cinese. Nel 1979 è Hua Guofeng, Presidente del Partito e Premier, a visitare l’Italia. Era l’inizio di una fase di contatti governativi ad alto livello, che caratterizzano gli anni Ottanta del secolo scorso. Il sostegno istituzionale, soprattutto nell’ambito della cooperazione allo sviluppo sotto l’egida del Ministero degli Esteri, aiuta il consolidamento sul mercato cinese delle grandi imprese italiane, dalla Fiat, all’Eni, all’Enel. Alla positiva cooperazione economica si accompagna, come nel passato, un evidente interesse culturale. Basti considerare come si assista non solo a una crescita degli studi sinologici in Italia, ma anche dell’italianistica in Cina, tanto per lo studio della lingua quanto nell’ambito della traduzione di letteratura italiana, fino a quel periodo solo sporadica. Gli scambi culturali sono anche contraddistinti dalle prime grandi mostre sull’arte cinese in Italia e da produzioni televisive congiunte, come lo sceneggiato televisivo Marco Polo diretto da Giuliano Montaldo. Gli anni Ottanta furono, senza dubbio, promettenti per le relazioni sino-italiane sotto vari aspetti.

Nel contesto di isolamento internazionale della Rpc che seguì la violenta repressione delle manifestazioni di piazza Tiananmen, il premier cinese Li Peng nel 1992 riconosceva all’Italia un ruolo politico di “ponte” fra il proprio Paese e il mondo occidentale. Considerata la complessità del momento storico a livello globale e gli avvenimenti politici interni, l’Italia è stata realmente in grado di ricoprire tale ruolo nel medio periodo?

SAMARANI: La visita di Li Peng in Italia nel 1992 fu in effetti oggetto di critiche anche aspre da varie parti: si imputava al nostro governo di dimenticare di fatto quanto accaduto nel 1989. Per la Cina sicuramente tale visita rappresentava un fatto importante, che contribuiva a spezzare l’isolamento di Pechino negli anni precedenti. Ma non dimentichiamo che già l’anno prima l’allora Presidente del Consiglio, Giulio Andreotti, era stato a Pechino: segno di un impegno difficile quanto convinto per avviare quella che l’Unità, il 16 settembre 1991, definiva una scelta caratterizzata da “prudenza ed affari”. La testata comunista sottolineava il rinnovato interesse per il grande mercato cinese, ma anche il fatto che Andreotti si sarebbe tutelato dalle critiche interne, menzionando una lettera ricevuta da George Bush nella quale lo si incoraggiava nel suo impegno per la riapertura verso Pechino. Nel novembre del 2000 Andreotti – nel suo intervento a Pechino, presso l’Associazione d’amicizia del popolo cinese con l’estero, in occasione del trentennale delle relazioni bilaterali – ricordando dopo anni tale viaggio, mise in luce come i dirigenti cinesi avessero particolarmente apprezzato il fatto che l’Italia, pur appartenendo all’alleanza occidentale, avesse riconosciuto la Rpc anni prima degli Stati Uniti e come, proprio la sua visita nel 1991, avesse di fatto spezzato l’embargo occidentale1.

Come già accennato, l’impressione generale è che l’Italia non abbia dato continuità sostanziale alle aspettative cinesi che guardavano, a quei tempi, al suo ruolo di importante “potenza mediterranea ed europea”.

Dal punto di vista storiografico, il vostro libro Lontane, vicine. Le relazioni tra Cina e Italia nel Novecento2 è il primo lavoro che traccia la storia recente dei rapporti tra i due Paesi, in maniera precedentemente inedita. Si può dire che gli anni Duemila abbiamo costituito un tempo maturo per una riflessione di lungo respiro sul tema? Le opere dei precedenti decenni sono state caratterizzate, al pari di altri lavori che riflettono sulla Rpc, da posizionamenti ideologici?

DE GIORGI: Anche se manca una riflessione storiografica complessiva sugli orientamenti della ricerca nel tempo è vero che a partire da questo secolo gli studi sulla storia delle relazioni fra Cina e Italia si sono moltiplicati. Non che prima fossero assenti. In precedenza, erano stati prodotti lavori importanti, come quelli di Giorgio Borsa3 (1961) e quello successivo di Giuliano Bertuccioli e Federico Masini4 (1996). Non credo, in realtà, che nell’ambito dello studio specifico delle relazioni fra Italia e Cina abbiano pesato molto gli orientamenti ideologici, che invece certamente erano rilevanti in altri ambiti; tuttavia, la marginalità di questo tema sul piano della ricerca storica rifletteva il fatto che, più in generale, l’interesse per la Cina nel mondo culturale e accademico italiano era limitato e settoriale, data la debolezza dei contatti della società italiana con quella cinese.

Nel secondo dopoguerra l’attenzione alla storia dei rapporti sino-italiani si è concentrata sul periodo successivo all’unificazione e sull’età del colonialismo. A questi lavori si aggiunsero quelli sui precursori italiani nella conoscenza della Cina: grande sviluppo ebbero infatti gli studi poliani e le ricerche sul contributo dei missionari, a partire da Matteo Ricci, le quali suggerivano l’idea di un lungo filo di connessione fra cultura italiana e cinese fin dagli albori della modernità. Queste ricerche dunque, si sono da un lato incentrate sulla dimensione politica dei rapporti fra Regno d’Italia e Cina imperiale e repubblicana, nel quadro della storia coloniale italiana; e dall’altro sulle interazioni culturali, come ad esempio sul ruolo del pensiero risorgimentale italiano nelle trasformazioni intellettuali dell’élite cinese all’inizio del XX secolo. Un ulteriore ambito di indagine che ha, in parte, toccato il tema dei rapporti fra Cina e Italia nel contesto della storia moderna cinese è costituito dall’analisi delle relazioni, ma soprattutto della comparazione e dei parallelismi sul piano ideologico, fra Italia fascista e Cina nazionalista sotto Chiang Kai-shek. Nel nuovo millennio, invece, si è assistito a un fiorire di ricerche sui rapporti fra Italia e Cina nell’età moderna e contemporanea. La nuova disponibilità di materiale archivistico, soprattutto in Italia (si veda ad esempio Storia & Diplomazia 2014, n. 2 e Archivio Storico del Senato della Repubblica 20105) e la memorialistica, hanno permesso di studiare in modo più approfondito diversi momenti, passaggi e processi, quali ad esempio l’esperienza italiana della Spedizione di Boxers (De Courten, Sargeri 20056); le relazioni fra Italia e Cina repubblicana prima, durante e subito dopo la Seconda guerra mondiale (Moccia 2014, Samarani 2014 e 2017, Lasagni 20207); la Concessione di Tianjin (Marinelli 20078); la complessa rete di rapporti fra Italia e Cina negli anni della Guerra fredda (Pini 2011, Meneguzzi-Rostagni e Samarani 2014, Samarani, Meneguzzi e Graziani 20189); oltre che le narrative sulla Cina nella cultura, letteratura e giornalismo italiani contemporanei a partire dal lavoro di Battaglini, Brezzi e Lombardi (200610), giusto per citare parte delle opere prodotte. L’interesse per il tema è stato evidente anche in ambito internazionale (fra gli altri Smith 2012, Andornino e Marinelli 2014, Strangio 202111). Infine, penso sia significativo sottolineare la nuova sensibilità verso la valorizzazione delle testimonianze e delle memorie personali, come ad esempio lo studio sull’esperienza di prigionia dei cinesi in Italia durante il fascismo di Brigadoi Cologna (2019) oppure il lavoro di Silvia Calamandrei (2021) sulla sua infanzia nella Cina negli anni Cinquanta12, a testimonianza della più diffusa consapevolezza dell’importanza dei legami e delle esperienze personali che, spesso al di sotto dei rapporti politici e diplomatici ufficiali, hanno modellato le relazioni fra Cina e Italia negli ultimi secoli, compreso il Novecento. Anche l’interesse degli storici cinesi, nondimeno, sia nella Repubblica Popolare che a Taiwan, rispetto a questo tema è in costante crescita. Permangono, e si sono anche recentemente accentuate, le difficoltà per la ricerca legate ai limiti di accesso agli archivi nella Cina continentale, un fattore che spesso impedisce un adeguato approfondimento della prospettiva cinese sulla storia di queste relazioni.

Che futuro si prospetta per le relazioni sino-italiane nell’era post-Covid e alla luce del posizionamento dei due Paesi nel recente conflitto del Donbass?

SAMARANI: Sono passati pochissimi anni dall’importante visita in Italia di Xi Jinping e dalla firma del Memorandum sulla BRI (marzo 2019), ma sembra essere trascorso, di fatto, un tempo molto più lungo se si osservano gli sviluppi delle relazioni bilaterali in questi ultimi anni nel più ampio contesto di quelle Cina-UE. La crisi pandemica ha oggettivamente lasciato in eredità – come diverse inchieste sull’opinione pubblica europea hanno dimostrato (si veda ad es. quella del 2020 dello European Council on Foreign Relations, www.ecfr.eu) – un lascito di timori, sospetti e accuse reciproche, il quale è stato alimentato negli ultimi mesi dalle chiaramente divergenti posizioni tra Cina-Italia e Cina-UE sulla crisi ucraina. Tutto ciò non fa purtroppo ben sperare per il futuro, anche se proprio l’Italia, come accennato, è stata in alcuni momenti l’antesignana di politiche di dialogo e di collaborazione con la Cina.


Note

1 Si veda Marina Miranda, Intervento del sen. G. Andreotti all’Associazione d’amicizia del popolo cinese con l’estero (Pechino, 14 Novembre 2000), in “Mondo Cinese”, 2001, n. 106, https://www.tuttocina.it/Mondo_cinese/106/106_Andr.htm.

2 Guido Samarani e Laura De Giorgi, Lontane, vicine. Le relazioni fra Cina e Italia nel Novecento, Roma, Carocci, 2011.

3 Giorgio Borsa, Italia e Cina nel XIX secolo, Milano, Edizioni di Comunità, 1961.

4 Giuliano Bertuccioli e Federico Masini, Italia e Cina, Roma-Bari, Laterza, 1996.

5 Ministero degli Affari Esteri, Storia & Diplomazia. Rassegna dell’Archivio Storico del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, I, n. 2, 2013, https://www.bv.ipzs.it/bv-pdf/0061/MOD-BP-13-081-023_2168_1.pdf, contenente copia della documentazione delle Rappresentanze Diplomatiche e consolari d’Italia a Pechino 1870-1952; Archivio storico del Senato della Repubblica, La normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra la Repubblica Italiana e la Repubblica Popolare Cinese. Atti e Documenti. Saggio di Ennio Di Nolfo, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2010.

6 Ludovica De Courten, Giovanni Sargeri, Le Regie Truppe in Estremo Oriente 1900-1901, Roma, Ufficio Storico SME, 2005.

7 Vincenzo Moccia, La Cina di Ciano. La diplomazia fascista in estremo oriente, Padova, Libreria Universitaria, 2014; Guido Samarani, L’Italia e gli italiani in Cina dopo l’8 settembre 1943, in “Storia e Diplomazia”, 2014, n. 2, pp. 15-30; Guido Samarani, Difficult Years: Italy’s Policy Towards Chiang Kai-shek’s China, 1945-49, in Laura De Giorgi, Guido Samarani (eds.), Chiang Kai-shek and His Time. New Historical and Historiographical Perspectives, Venezia, Edizioni Ca’ Foscari, pp. 117-126; Ilaria Lasagni, La nuova Italia di Mussolini in Cina (1927-1934), Mantova, Studium, 2019.

8 Maurizio Marinelli, Self-portrait in a Convex Mirror: Colonial Italy Reflects on Tianjin, in “Transtext(e)s transcultures. Journal of Global Cultural Studies”, 2007, n. 3, http://transtexts.revues.org/147.

9 Filippo Pini, Italia e Cina. 60 anni fra passato e futuro, Roma, L’Asino D’oro, 2011; Carla Meneguzzi Rostagni e Guido Samarani (a cura di), La Cina di Mao, l’Italia e l’Europa negli anni della Guerra fredda, Bologna, Il Mulino, 2014; Guido Samarani, Carla Meneguzzi Rostagni, Sofia Graziani, Roads to Reconciliation. People’s Republic of China, Western Europe and Italy During the Cold War Period (1949-1971), Venezia, Edizioni Ca’ Foscari, 2018.

10 Marina Battaglini, Alessandra Brezzi, Rosa Lombardi (a cura di), Cara Cina… gli scrittori raccontano, Roma, Colombo, 2006.

11 Shirley Ann Smith, Imperial Designs, Italians in China 1900–1947, Madison, Rowman and Littlefield, 2012; Giovanni Andornino, Maurizio Marinelli (eds.), Italy’s Encounters with Modern China: Imperial Dreams, Strategic Ambitions, New York, Palgrave Macmillan, 2014; Donatella Strangio, Italy-China Trade Relations: A Historical Perspective, Cham, Springer Nature, 2020.

12 Daniele Brigadoi Cologna, Aspettando la fine della guerra. Lettere dei prigionieri cinesi nei campi di concentramento fascisti, Roma, Carocci, 2019; Silvia Calamandrei, Attraverso lo specchio. Cina, Andate – Ritorni, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2021.