“Quel giorno tu sarai”. Un film sull’evoluzione della memoria della shoah

"Evolution". A film about the memory of the Holocaust

1. Introduzione

È uscito nelle sale italiane il 27 gennaio 2022 il nuovo film di Kornél Mundruczó, Quel giorno tu sarai (Ungheria-Germania, 2021, 97’), prodotto da Martin Scorsese e molto applaudito alla 74a edizione del Festival di Cannes (6-17 luglio 2021), dove era stato presentato fuori concorso. Anche questo film, come il precedente e apprezzatissimo Pieces of a Woman (premiato a Venezia nel 2020 e candidato all’Oscar), è stato scritto dal regista insieme alla compagna Kata Wéber, la quale vi rielabora anche vicende che hanno coinvolto la propria famiglia. Si tratta di un’opera davvero notevole perché affronta in modo nuovo e (letteralmente) sorprendente il tema della memoria, non confinandolo entro i recinti di una ricostruzione mimetica dello sterminio, ma partendo da lì per interrogare la storia europea del secondo Novecento e, più ancora, ripensare al futuro il concetto stesso di convivenza di identità diverse nella nuova casa comune che nel nostro Continente stiamo allestendo.

2. Contro la ritualizzazione della Memoria

Per meglio evidenziare tali aspetti di novità, può essere utile iniziare rimettendo in fila alcuni fatti: già quando il 20 luglio 2000 venne votata la legge n. 211 (pubblicata nella “Gazzetta Ufficiale” n. 177 del 31 luglio successivo), nota anche come legge Colombo-De Luca, non erano mancate voci che esprimevano più d’una perplessità. E non si allude qui tanto al dibattito innescato dalla scelta della data individuata per la celebrazione della memoria1, o a quello, emerso a legge approvata, relativo all’assenza nel testo normativo della parola “fascismo” e conseguentemente delle sue responsabilità, o, di converso, quello suscitato da chi lamentava la mancanza di una analoga occasione di condanna politica e morale sul comunismo (cui in qualche modo si pensò di rimediare di lì a poco con la legge n. 92 del 30 marzo 2004, che istituiva il «“Giorno del ricordo” in memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confine orientale e concessione di un riconoscimento ai congiunti degli infoibati»). Quel che qui preme piuttosto rilevare ai fini del nostro discorso, è che contestualmente al dibattito istitutivo iniziava già a fare timidamente capolino la segnalazione dei rischi insiti nella istituzionalizzazione della memoria, specie se “obbligatoria”. I più attenti, infatti, già preconizzavano i pericoli di una ritualizzazione celebrativa, di una probabile stanchezza ingenerata dalla ripetitività e dalla formula “liturgica” imposta ex lege2, come ad esempio è stato espresso con una certa radicalità da Elena Loewenthal3 o ancor più di recente da Valentina Pisanty4.

Trascorsi 21 anni da quei giorni, oggi possiamo senz’altro tracciare un bilancio, e dire che quanti avevano avanzato tali riserve avevano forse visto lontano; anzi, di più: potremmo spingerci oltre, fino ad arrivare ad ammettere che non solo una certa stanchezza e ripetitività hanno oramai cominciato a manifestarsi e a rendersi sempre più visibili, ma che, alla luce delle numerose e varie risorgenti forme di razzismo e antisemitismo che la cronaca con crescente frequenza ci propone5, occorrerà interrogarsi sul perché 21 anni di lezioni, conferenze, incontri pubblici, film, spettacoli, trasmissioni televisive, corone di fiori, treni della memoria, cittadinanze onorarie, pietre d’inciampo, eccetera eccetera, non abbiano creato anticorpi, non siano riusciti a produrre un consapevole, condiviso e convinto rifiuto almeno dell’antisemitismo, se non proprio di ogni intolleranza. Insomma, bisognerà iniziare a domandarsi con brutale franchezza: «In che cosa abbiamo sbagliato?». Ed ecco, allora, che il film di Kornél Mundruczó si colloca proprio nella direzione di suscitare il confronto con questi problemi, nel tentativo di superarli – o quanto meno di offrire una efficace chiave per farlo.

3. Quel giorno tu sarai

Quel giorno tu sarai si struttura in tre episodi che prendono il titolo, in una sorta di staffetta generazionale, dai diversi membri di una stessa famiglia ebrea: Eva, Lena, Jonas. Il primo (19’) è quasi interamente ambientato in un angusto sotterraneo di cemento armato che fungeva da doccia femminile nel lager di Auschwitz, all’indomani della sua liberazione. Il secondo (38’) si svolge invece più o meno 70 anni dopo (forse siamo nel 2011, quando il governo tedesco raddoppia le indennità ai sopravvissuti) in un appartamento piccolo-borghese di Budapest in cui una vecchia madre (la bambina trovata miracolosamente viva nella doccia di Auschwitz del primo episodio) discute animatamente con la figlia dell’eredità dello sterminio e dell’identità ebraica. Il terzo (37’) si apre a un ampio spazio urbano, inseguendo i movimenti di un adolescente ebreo – figlio della giovane donna del secondo episodio – che vorrebbe liberarsi dalle sue radici ebraiche nella Berlino multietnica dei giorni nostri. Osserviamoli però ancor più da vicino.

Il primo capitolo, Eva, pressoché muto, è girato quasi interamente in un unico piano-sequenza: tre soldati polacchi in uno spazio claustrofobico sporco e freddo, immersi in una luce malata giallognola, spargono acqua sui pavimenti e sulle pareti della doccia, e sfregano gli intonaci con rudimentali spazzoloni, quasi a volerne ripulire l’orrore, finché, prima dalle fessure dei muri poi dalle tubature e dagli scarichi, cominciano a riemergere fili di capelli femminili aggrovigliati e attorcigliati, sempre più spessi, fino a travalicare il diaframma del realismo e a fare di quel loculo e dei resti umani che riaffiorano la sineddoche dell’intero incubo che li ha prodotti. Ma da un tombino di quello stesso inferno improvvisamente si leva un pianto di bimba, che prelude alla sua nuova venuta al mondo, un mondo nuovo, libero. Un soldato la prende in braccio e la porta alla luce (ora bianca e grigia di neve e cenere), tra gli sguardi di altri soldati increduli e in sella a un sidecar finalmente verso un luogo di assistenza. Solo a questo punto la macchina da presa, che è sempre stata incollata ai corpi e ai volti dei personaggi, con un ardito effetto di montaggio si alza in volo e inquadra le geometriche architetture del lager da cui la moto con la bambina sta finalmente uscendo.

Anche il secondo capitolo, Lena, si presenta come un lungo piano-sequenza in cui due donne chiuse in un appartamento borghese di Budapest sono intente a fare i conti con le eredità che il trauma della shoah ha lasciato alle generazioni successive: la più giovane delle due è la figlia della seconda, che, come scopriremo dal dialogo, è la bambina ritrovata ad Auschwitz (ormai vecchia e malata). Lena è tornata da Berlino per recuperare i documenti che attestino il suo essere di discendenza ebraica, così che possa ottenere, per sé e per il figlio piccolo, i risarcimenti previsti per le vittime della shoah. Invece l’anziana madre fa di tutto per impedirle di presentare quella domanda, terrorizzata all’idea che la tragedia possa tornare a ripetersi.

Forse perché da quel campo e da quella storia non è mai uscita definitivamente, Eva si abbandona a uno struggente e feroce racconto sul filo di una memoria personale in via di disfacimento, in cui rievoca la difficile vita sua e della famiglia, dopo la fine della guerra, per giunta in un’area d’Europa finita sotto il tallone dello stalinismo. Se il primo piano-sequenza era praticamente muto, questo invece, molto teatrale, è scandito da un dialogo fitto e incessante, che dura fino a un improvviso cedimento del corpo dell’anziana Eva. Anche qui il registro dell’episodio abbandona l’andamento realistico-mimetico e si fa allusivo-metaforico, attraverso la messa in scena di un cedimento dell’impianto idraulico della casa. Ancora acqua, dunque, che stavolta lava via in maniera distruttiva i resti di una memoria privata ma anche collettiva.

Dopo il silenzio e le parole, il terzo capitolo, Jonas, trova un equilibrio tra i linguaggi dei corpi e quello dei dialoghi. Siamo ancora di fronte a un unico lungo (sebbene in realtà solo apparente) piano sequenza con cui il regista tallona i movimenti del figlio di Lena e nipote di Eva, un ragazzino di circa 13 anni, alle prese con la ricerca di una propria identità esistenziale in bilico tra infanzia e adolescenza, il rifiuto di quella ebraica che la madre vorrebbe imporgli, e la scoperta di nuovi turbamenti sentimentali scatenati in lui dall’incontro con una ragazzina turca che viene da una famiglia islamica. Insieme i due sperimentano confusamente una nuova forma di (superamento della) identità, svincolata dalla forza costrittiva dalle tradizioni e dai lasciti dolorosi del passato, che si articola in un mondo in cui sopravvivono, nelle istituzioni e nella società, gli antichi pregiudizi e che fatica ad accogliere compiutamente il proprio destino multietnico e oramai intrinsecamente meticcio – tanto che anche per i criceti diventa difficile individuare “le radici”. La scoperta dell’amore ai bordi di un corso d’acqua placido e tranquillo sarà la via che li condurrà a una possibile maturità o rappresenterà, comunque, il punto di fuga dai riti e dalle parate identitarie e memoriali delle istituzioni (scuola e famiglia).

4. Verso una nuova grammatica rappresentativa della Memoria

Dunque, come si vede, il film di Mundruczó prende sì le mosse dalla liberazione di Auschwitz, ma svolge l’intero filo del suo “ragionamento” dopo quell’evento, indagandone piuttosto il lascito e, più ancora, l’evoluzione (che, non per niente, è il titolo originale del film) nella storia successiva fino ai nostri giorni. Non è dunque la ricostruzione mimetica della shoah, come per lo più avviene nella maggior parte delle fiction cinematografiche distribuite per la celebrazione dell’evento, ciò che viene messo al centro di questo film: si pensi ad esempio a prodotti di successo, oramai veri e propri classici, come Schidler’s list (1993), La vita è bella (1997), Train de vie (1998), Il pianista (2002), Il bambino con il pigiama a righe (2008) o a titoli più recenti come Il figlio di Saul (2015), anch’esso proveniente dalla medesima “nouvelle vague ungherese”, o Lezioni di persiano (2019).

Sebbene molto diverso per tantissimi aspetti, Quel giorno tu sarai è in questo senso accostabile piuttosto al film 1945 (2017), di Ferenc Török, guarda caso anch’egli ungherese, che racconta lo sterminio (e più ancora i suoi complici) solo “alludendovi” e comunque attraverso il resoconto di una giornata dell’agosto 1945 in un piccolo villaggio agricolo ungherese.

Mundruczó e Weber, infatti, danno per noto l’evento Auschwitz, e rivolgono lo sguardo al dopo, al suo lascito, al suo scorrere carsicamente nelle viscere della storia europea contemporanea fino a sfociare nella cronaca attuale anche se, ovviamente, con sembianze mutate.

Infatti l’operazione della coppia ungherese fa proprio questo passo in più: porta il fuoco del racconto verso una attualizzazione dell’Olocausto, non nel senso “banale” della sua comparazione con altri avvenimenti storici “simili”, bensì nel senso di auspicarne il superamento, di proporlo come banco di prova per la riflessione su e la costruzione di una nuova (articolata e complessa) identità europea. Non per dimenticare Auschwitz, dunque, ma per assumerne la lezione profonda per l’oggi. Solo così la celebrazione del 27 gennaio potrà essere sottratta alle secche della stanca (e ciò che più importa, sterile) ritualizzazione e ripetizione retorica fatta di ipocriti “mai più”. Solo se sapremo affidarci ai corpi e agli sguardi “stranieri” di chi è venuto al mondo oltre 60 anni dopo Auschwitz, sembra dirci il film, potremo costruire un futuro in cui la memoria della shoah sarà diventata per certi versi simile a quella di altre catastrofi di cui è lastricata la storia umana. La memoria di Auschwitz, non la sua lezione storica. Il modo per assumere l’unicità della shoah, infatti, non è imbalsamarla nella rivendicazione di una incomparabilità che inevitabilmente sfocia in una inattingibile sacralità; ma è piuttosto quello di attraversarla e farne un prisma per scomporre i segnali che il tempo offre a ciascuna generazione che si affaccia alla storia.

Ma c’è dell’altro: siccome siamo pur sempre dinanzi a un’opera d’arte, è importante sottolineare che nel film lo sforzo di rinnovare il discorso sullo sterminio si traduce anche (soprattutto) nell’uso di un linguaggio espressivo raffinato e innovativo, in cui le soluzioni formali (i sontuosi piani-sequenza, gli arditi movimenti di macchina, le costruzioni sceniche, le soluzioni drammaturgiche) non sono mai sterili esibizioni di abilità tecnica, bensì elementi costitutivi della stessa riflessione tematica. La scelta del piano-sequenza per tutti e tre gli episodi, ad esempio, determina la perfetta coincidenza tra fabula e intreccio o, se si preferisce, tra tempo della storia e tempo del racconto6, che non solo produce un effetto di pieno coinvolgimento dello spettatore nella scena, ma qui assume un carattere peculiare specifico: il fatto che le tre sequenze narrative siano tra loro così distanti nel tempo storico, sortisce l’esito di una “attualizzazione” di Auschwitz perché aiuta lo spettatore a leggerne i segni (nel senso “largo” di cui si è detto) nel proprio spazio e nel proprio tempo.

5. Conclusione

È questo, dunque, ciò di cui c’è oggi bisogno nel racconto della shoah e della sua memoria da consegnare ai giovani: l’indicazione chiara che è sempre di noi che la storia parla, è sempre dell’oggi – dalle cui domande scaturisce l’indagine del passato. E così il film ci suggerisce che la memoria è sì importante, ma senza l’apporto della storia essa è sempre parziale e forse incompiuta (senza contare che presto il mondo dovrà fare i conti con la scomparsa dell’“ultimo testimone”7). Dunque solo trasformando il senso del 27 gennaio da data della commemorazione dei morti (quale fino a ora è stata) in data per la memoria dei vivi (come a suo modo il bel film di Mundruczó ci propone), renderemo non solo un risarcimento alle vittime ma più ancora un servizio utile alla costruzione di un futuro aperto, plurale, vitale come il primo bacio di un ragazzo ebreo ungherese dai capelli lunghi e una ragazza islamica turca dai capelli corti in un angolo appartato di una Berlino, certo alle prese con nuove contraddizioni, ma non più quella a lungo ferita dalla storia del Novecento.


Note

1 Sostanzialmente tre erano le opzioni alternative che emersero: Furio Colombo, all’epoca deputato dei Democratici di sinistra (Ds), primo firmatario della proposta, aveva suggerito il 16 ottobre, a ricordo del giorno del 1943 in cui oltre mille ebrei romani furono catturati e deportati ad Auschwitz, per focalizzare l’attenzione sulle deportazioni razziali e sottolineare le responsabilità anche italiane nello sterminio; l’Associazione nazionale ex deportati nei campi nazisti (Aned) sosteneva invece che la data prescelta dovesse essere il 5 maggio, anniversario della liberazione di Mauthausen, per sottolineare la centralità della storia dell’antifascismo e delle deportazioni politiche in Italia; infine Tullia Zevi, presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane (Ucei), perorava la scelta del 27 gennaio, anche in ragione della portata evocativa che Auschwitz, a partire dal processo ad Eichmann, rappresenta per tutta l’Europa, dunque per un suo valore sovranazionale e quasi universalistico.

2 Una disamina è contenuta nel testo di Anna Rossi-Doria, Il conflitto tra storia e memoria, in Saul Maghnagi (a cura di), Memoria della Shoah, Roma, Donzelli, 2007.

3 Elena Loewenthal, Contro il giorno della memoria. Una riflessione sul rito del ricordo, la retorica della commemorazione, la condivisione del passato, Torino, Add, 2014.

4 Valentina Pisanty, I guardiani della memoria e il ritorno delle destre xenofobe, Milano, Bompiani, 2020.

5 Sul tema si rinvia a Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea (Cdec), https://osservatorioantisemitismo.b-cdn.net/wp-content/uploads/2022/01/ANNUALE_2021_STAMPA.pdf, ultima consultazione: 5 febbraio 2022.

6 Seymour Chatman, Storia e discorso. La struttura narrativa nel romanzo e nel film, Parma, Pratiche editrice, 1981.

7 David Bidussa, Dopo l’ultimo testimone, Torino, Einaudi, 2009.