“Under the Brixton Sun”. Riflessioni su un antirazzismo di classe a 40 anni dai “riots” del 1981

"Under the Brixton Sun". Reflections on a class-based anti-racism 40 years after the 1981 "riots"

You see, he feels like Ivan

Born under the Brixton sun

His game is called survivin’

At the end of the harder they come

The Clash, 1979

1. Introduzione

Il 10 aprile del 1981 il quartiere sud londinese di Brixton è il teatro di una rivolta urbana rimasta impressa nell’immaginario britannico per uso della violenza e capacità di infiammare l’intero territorio nazionale. Il primo protagonismo, la miccia che riaccende la brace che cova sotto le ceneri, è della comunità afrocaraibica di Brixton, esasperata dal razzismo e dal neocolonialismo degli apparati di Stato. L’antirazzismo è infatti questione centrale nell’emergere dei riots: un antirazzismo concreto, materialistico, che comprende la disoccupazione, la questione abitativa, il trattamento «speciale» della polizia e gli ingiusti processi. Una rivolta contro una «vita di merda». Ma la gioventù che prende parola in quei giorni viene da anni di convivenze e di incontri che, per quanto contraddittori e non sempre pacifici, sono stati la cornice di un tentativo di reagire al grigiore della British way of life il cui significato va oltre la stessa esperienza britannica. Nel 1981 siamo agli albori dell’era di Margaret Thatcher, di una controrivoluzione i cui effetti sono lungi dall’essersi esauriti: da allora le Ghost Town (The Specials, 1981) in cui abitare si sono moltiplicate. Si tratta di uno dei momenti in cui la storia, fuori dal determinismo storiografico, avrebbe potuto prendere binari diversi. Nelle pagine che seguono cercheremo di seguire alcune tracce che hanno preparato Brixton, ricostruendo il panorama culturale e sociale che ha reso la Gran Bretagna degli anni Sessanta e Settanta un laboratorio di pratiche iconoclaste, un luogo di insubordinazione popolare e diffusa alle mitologie bianche e nazionali.

Ripercorrerne alcune tracce, a partire dal punto di vista della “razza” e della sua decostruzione, può essere utile per orientarsi nel presente. Se è vero infatti che anche in Italia il razzismo ha cominciato a occupare uno spazio centrale all’interno del discorso pubblico, sembra innegabile che il dibattito sia schiacciato all’interno di una prospettiva che ostacola qualsiasi tentativo di coniugare analisi teorica e prassi politica militante. Da un lato l’astratto moralismo dell’identity politics che ha egemonizzato il campo dell’antirazzismo accademico e intellettuale; dall’altro un ostinato riduzionismo di classe. “Nel mezzo” un complesso intreccio di soggettività, legami e pratiche, difficilmente sussumibili entro gli schemi interpretativi che hanno tradizionalmente guidato la nostra comprensione di fenomeni come il razzismo e l’antirazzismo. In questa prospettiva, una breve controstoria “dal basso” che possa offrire uno sguardo alternativo su quegli eventi, riservando particolare attenzione al tema degli immaginari, degli stili e delle “passioni quotidiane” legate all’universo delle controculture giovanili, permette di riportare alla luce alcune delle domande e degli interrogativi che hanno attraversato Brixton e può rivelarsi utile per ripensare l’antirazzismo contemporaneo in modo meno dogmatico ed escludente.

2. Rudies all around. Musica, stili e passioni della vita quotidiana

Tra il 10 e il 12 aprile 1981 le strade di Brixton diventano lo scenario di uno dei più violenti riot urbani che la capitale britannica abbia conosciuto nella sua storia. La causa immediata è un intervento delle forze dell’ordine ai danni di un giovane appartenente alla comunità afrocaraibica locale, Michael Bailey. Dopo aver riportato una ferita da taglio nel corso di una lite, il ragazzo viene fermato da due agenti di polizia, che in questo modo – secondo le testimonianze – ritardano l’arrivo dei soccorsi. Quando finalmente Michael viene caricato su una macchina diretta al pronto soccorso, tra i presenti accorsi sul posto comincia già a circolare la voce della morte di un giovane nero per mano della polizia. Il fuoco della rivolta divampa inarrestabile. Per due giorni Brixton è teatro di violenti scontri il cui bilancio sarà di oltre trecento feriti, quasi cento arresti, centinaia di veicoli ed edifici danneggiati e un numero imprecisato di negozi saccheggiati. Intanto, voci e racconti cominciano a circolare oltre la capitale e insurrezioni e disordini si registrano a Liverpool, Leeds, Bristol, Coventry e decine di altre città. Come a Brixton, benché la maggioranza dei partecipanti sia costituita da giovani delle comunità afrocaraibiche e asiatiche, la composizione dei riots è sempre eterogenea e tra i fermati il numero dei kids bianchi è significativo.

Nonostante siano stati descritti dai media come una estemporanea risposta alle tensioni accumulatesi durante i primi anni dell’esperienza thatcheriana, i riots del 1981 costituiscono il punto di approdo di un ben più risalente processo di disgregazione del patto sociale britannico e di declino della British way of life. Il trentennio tra il dopoguerra e la metà degli anni Settanta ha rappresentato infatti una stagione tutt’altro che pacificata della storia del Regno Unito, caratterizzandosi come una fase di intensa conflittualità sociale1. In particolare, l’allarme sociale legato ai nuovi costumi giovanili, all’accesso dei kids della working-class ai templi del consumo e alle mode d’oltreoceano, inizia sempre più insistentemente a contaminarsi con il diffondersi della black culture e con l’entrata in scena delle seconde generazioni, i figli e le figlie dell’ondata migratoria seguita all’indipendenza dei territori d’oltremare. Queste, libere dai vincoli di ordine sociale e culturale che avevano segnato l’esperienza migratoria dei propri genitori, si rivelano portatrici di un complesso di stili di vita, immaginari e visioni del mondo intrinsecamente conflittuali e irriducibili all’orizzonte culturale della englishness.

Nel 1964 Millie Small – giovane cantante giamaicana giunta diciassettenne da Kingston a Londra – si impone sul mercato discografico con il singolo My Boy Lollipop. Un brano che si colloca nel giro di poche settimane al secondo posto della UK Single Charts, portando per la prima volta le sonorità ska ai vertici delle classifiche. I ritmi in levare giamaicani hanno fatto il loro ingresso sulle piste da ballo del Regno Unito già alcuni anni prima, ma sono rimasti perlopiù confinati all’interno dei momenti di svago e convivialità delle comunità afrocaraibiche2. Con il successo di My Boy Lollipop, invece, lo ska oltrepassa le sue barriere etniche, conquistando un auditorio non esclusivamente black e offrendo un primo indispensabile contributo per la costruzione di un incontro tra kids bianchi e neri che proprio tra il dancefloor e la strada trova il suo spazio costitutivo. Infatti, dopo il successo di My Boy Lollipop, personaggi come Laurel Aitken e Prince Buster non sono più identificati semplicemente con i pionieri di un sound sempre più apprezzato e ricercato, ma assurgono a status symbol del movimento mod, i cui cultori trovano nell’estetica impeccabile e nell’attitudine stradaiola degli artisti giamaicani un irrinunciabile riferimento stilistico. È proprio Prince Buster, tra l’altro, a riportare lo ska in classifica nel Regno Unito nel 1967 con la leggendaria Al Capone. Ed è intorno alla sua figura che prende forma una popolare leggenda urbana. Giunto a Londra per il suo primo tour britannico nel 1967, si racconta che un gruppo di mods riconobbe Prince Buster, la cui popolarità nel Regno Unito era già piuttosto significativa a causa di un’apparizione in una puntata dello show Ready, Steady, Go! del 1965. Dopo un breve scambio di saluti e presentazioni, i giovani lo avrebbero messo al corrente delle tensioni razziali che stavano attraversando il paese, suggerendogli di non proseguire da solo il viaggio e offrendosi di seguire il cantante come “scorta” per la restante parte del tour. Un aneddoto che mostra chiaramente come sia proprio tra le pieghe delle controculture giovanili che comincia a prendere forma e consolidarsi un nuovo antirazzismo popolare.

D’altra parte, se è lo ska a fungere da colonna sonora al primo incontro tra la cultura popolare giamaicana e il proletariato giovanile britannico, il dominio dei suoi ritmi sincopati si rivela destinato a un rapido (benché momentaneo) tramonto. Proprio sul finire degli anni Sessanta, nuovi stili e tendenze provenienti ancora una volta dall’isola giamaicana si preparano a conquistare le classifiche britanniche. Mentre migliaia di giovani ballano sulle note di My Boy Lollipop e Al Capone, l’ex colonia è ormai divenuta indipendente, andando incontro a nuove tensioni sociali. Nell’immaginario collettivo l’indipendenza si sarebbe dovuta tradurre in benessere e prosperità per il popolo giamaicano, ma molti giovani – giunti dalle aree rurali a Kingston alla ricerca di nuove opportunità – realizzano ben presto il carattere illusorio di queste speranze, ritrovandosi schiacciati tra strada e disoccupazione. Il risentimento e lo sconforto prendono così il posto dell’ottimismo e della fiducia dei primi anni Sessanta, imponendo un drastico cambio di registro ai musicisti dell’isola. I ritmi frenetici dello ska rallentano, le sonorità si fanno più morbide e soulful e nelle liriche si affacciano tematiche legate alla violenza e alla povertà che affliggono la società: nasce il rocksteady. Una trasformazione che sarà prontamente recepita nell’ex madrepatria, dove nel 1969 il genere volerà al primo posto della UK Single Charts con il brano Israelites di Desmond Dekker, segnando un vero e proprio punto di rottura nella storia della cultura popolare britannica.

Il 1969 rimane d’altronde un anno fondativo nell’immaginario sottoculturale, rappresentando l’irruzione dello stile di vita skinhead nelle periferie di Londra, ma anche il “marchio di fabbrica” di uno stato d’animo, uno spirito, Spirit of ’69, che continuerà a risuonare nella memoria collettiva della working-class3. Senza addentrarsi in un’analisi della nascita del culto e delle sue contraddizioni, è importante sottolineare quanto la comparsa degli skinhead sia connessa con quel sottosuolo postcoloniale che, ormai incessantemente, agita i sonni della nazione. Radicalizzando alcune posture mod, una delle ispirazioni fondamentali viene infatti proprio dai coetanei della comunità afrocaraibica, tra cui spopola l’attitudine rude boy, giovani dal piglio gangsteristico sempre in bilico tra disoccupazione e strada. Figura centrale della “mitologia urbana” giamaicana, si diffonde velocemente, accompagnato, come detto, dalle nuove sonorità provenienti da Kingston e dalla diaspora. È un’altra delle forme di quel continuo migrare di artefatti culturali tra le sponde dell’Atlantico Nero che destabilizza e riscrive gli angusti spazi dei significanti nazionali.

È anche l’era del reggae, di etichette come la Trojan Records e di singoli come Skinhead Moonstomp dei Symarip, in cui si celebra il matrimonio misto tra cultura cockney e cultura giamaicana4. Tra gli esempi paradigmatici di questa contaminazione, di «culture in viaggio» per dirla con le parole di James Clifford, vi è senza dubbio il celebre film The Harder They Come5. Una delle rare produzioni interamente jamaicane a circolare oltre i confini nazionali, racconta l’epopea di Ivanhoe «Ivan» Martin arrivato in città dalla campagna con l’intenzione di divenire una star musicale e ritrovatosi invischiato in una quotidianità di miseria e lavori frustranti. Deciso a rifiutare un destino di subalternità, la sua carriera criminale si trasforma in una rivolta contro il sistema di potere, che lo porterà ad apparire (in quanto ricercato numero uno) su tutti i media nazionali e a conquistare non solo l’agognata celebrità ma, seppur per il breve tempo che intercorre tra le sue gesta e la sua uccisione, la sensazione di reimpossessarsi della propria vita. Interpretato da Jimmy Cliff e ispirato dalle reali gesta di Rhygin, il film è tutt’uno con la sua colonna sonora e restituisce una concezione del mondo che risuona e dà senso alla realtà materiale degli stessi giovani cresciuti in Gran Bretagna. Oltre al cameo di Prince Buster, You Can Get It If You Really Want e The Harder They Come, entrambi pezzi di Cliff, sono i due assi (sonori) portanti della storia e, nella stessa testura dell’opera, diventano chiavi di lettura dell’intera trama: «And I keep on fighting for the things I want Though I know that when you’re dead you can’t But I’d rather be a free man in my grave Than living as a puppet or a slave».

Si tratta, più in generale, dell’insediamento di modalità altre di godimento fin dentro il cuore pulsante della englishness, dalla socialità al modo di vivere lo spazio pubblico. Nei diversi prodotti del cinema indipendente del periodo, di autori come Horace Ové o Franco Rosso, a ritornare continuamente è proprio il tema di una frattura insanabile nel cuore dell’Impero, a Babilonia6. Dalla pressione sociale, Pressure, al There Is A Hole In Babylon, a essere messo in forma e in versi è quel percorso che va dal vissuto dell’oppressione alla rivendicazione di un’autonomia collettiva. Una delle cifre distintive delle produzioni culturali dell’epoca concerne l’insofferenza di fronte al perpetuarsi di fermi e controlli arbitrari nei quartieri. Il Sus (da suspicion, termine che indica la prassi di sottoporre a fermo sulla base di generici sospetti) diventa metafora di un imperituro trattamento coloniale e gioca un ruolo fondamentale nel preparare l’esplosione di Brixton7. Il caso più celebre è sicuramente quello del ristorante caraibico Mangrove a Notting Hill, recentemente oggetto di un’acclamata serie televisiva (Small Axe)8 che si aggiunge al documentario girato dallo stesso Franco Rosso.

Per avere un’idea della pervasività delle pratiche di controllo, è sufficiente ascoltare Linton Kwesi Johnson che nel 1979 ne fa tema dei suoi versi, in cui un giovane affranto racconta di come non sia riuscito a mantenere la promessa di badare al fratellino, picchiato da poliziotti in quanto accusato di “comportamenti sospetti”. E tuttavia, anche in questo caso, il racconto si conclude con una reazione: «So mi jook one in him eye and him started fi cry me thump him pon him mout and him started fi shout me kick him pon him shin so him started fi spin me hit him pon him chin an him drop pon a bin – an crash, an dead». Una prospettiva che mostra chiaramente come il processo di radicalizzazione che percorre questo decennio costituisca dunque tanto una risposta ai dispositivi di governo, quanto l’esito di pratiche quotidiane orientate a una “ricerca di senso” all’interno di un sempre più desolante orizzonte esistenziale. La moda e gli stili di vita si fanno motore di incontro e di spinta, creando le condizioni per una dissacrazione del mito nazionale e per una critica tanto più feroce quanto meno istituzionalizzata e formale della struttura della società britannica.

È verso la fine degli anni Settanta – tra le pareti di un vecchio club di Covent Garden – che si verifica un altro fondamentale incontro tra proletariato giovanile nero e kids della working class bianca: quello tra reggae e punk. Un incontro quasi casuale, ma in grado di influenzare profondamente le generazioni a venire. Come ricorda Don Letts, all’epoca resident dj al Roxy, il club ospitava i live dei primi gruppi punk della città. Il genere tuttavia aveva appena cominciato a diffondersi, i primi dischi dovevano ancora vedere la luce e di conseguenza – tra un’esibizione e l’altra – a Don Letts non restava che suonare i propri dischi reggae. Una scelta che si rivelò assai gradita ai punk che affollavano il locale, ma che contribuì anche a fare del Roxy un punto di riferimento per la rigogliosa scena che sarebbe fiorita in questa atmosfera. Tra un disco di King Tubby e un live dei Pistols, si consolida una nuova consapevolezza, esito inevitabile di un’esperienza quotidiana che vedeva sempre più spesso intrecciarsi le traiettorie biografiche dei kids bianchi e neri. I primi decisi a tagliare i ponti con l’opprimente grigiore della British way of life dei propri padri; i secondi in aperta ribellione contro il razzismo della società e delle istituzioni, ma anche contro quel settarismo culturale delle «prime generazioni» che sembrava costantemente ripetergli «if you’re not from Jamaica than you’re not real»9.

Per dirla con Johnny Rotten, dunque, «everyone is sick of the old way»10 e tanto il reggae quanto il punk offrono ora non solo un megafono per dare voce al risentimento del proletariato giovanile, ma anche un vasto repertorio di pratiche orientate a una critica materiale della sua vita quotidiana. Il punk si fa sintomo di una congiuntura di crisi in cui, a differenza del periodo della Swingin’ London, è la stessa simbologia nazionale a subire un processo iconoclasta di disaffiliazione teso a riscrivere legami e appartenenze. Come osservato da Paul Gilroy, in un periodo in cui, nel cuore della «maggioranza silenziosa», si stanno gettando i germi di un «nuovo populismo reazionario», il punk «produce non solo il proprio commento sul significato e i limiti dell’etnicità bianca ma una cornice concettuale per osservare e analizzare le relazioni sociali»11 della Labour Party Capitalist Britain. In questo caso la tonalità apocalittica e messianica del reggae risuona, dentro la crisi, con il grido No Future! del punk: come riassunto da Riccardo Pedrini, «il difficile equilibrio tra neri e bianchi, tra linguaggio etnico e protesta giovanile, sembra realizzato»12. Il punk e il reggae offrirono allora nel contesto di depressione economica, disoccupazione crescente e recrudescenza delle tensioni razziali seguito agli anni Sessanta, tanto un potente strumento di sperimentazione culturale e artistica in grado di «sfidare le strutture socio-culturali e i valori dominanti»13 quanto una concreta via d’uscita attraverso nuove forme di socialità, aggregazione e (ri)appropriazione di un tempo e di uno spazio sempre più asfittici e ostili.

È in questa fase che le tracce di un antirazzismo popolare, le cui premesse, come osservato, erano disseminate lungo le traiettorie di sviluppo delle controculture giovanili del secondo dopoguerra, sembrano assumere una fisionomia coerente, definendosi come un’attitudine in grado di fornire l’antidoto al deterioramento della sfera pubblica e delle relazioni quotidiane. Mentre la Iron Lady si appresta a coronare la sua ascesa fino a primo ministro, la coscienza antirazzista dei kids mostra un’energia e una vitalità inedite, rispondendo colpo su colpo all’avanzata del razzismo nelle strade e nella vita di tutti i giorni. Tra il 1976 e il 1978, Rock Against Racism dà vita a numerosi concerti portando insieme sul palco band bianche e nere, forgiando un immaginario che si ritroverà all’opera in gruppi come The Clash, Steel Pulse e The Slits e che darà vita al two-tone: una miscela di ska, punk e reggae/dub in versione black British che ricompone e sintetizza per la prima volta le tensioni policulturali dei decenni precedenti.

Brani come Concrete Jungle e Stand Down Margaret (The Beat, 1980) raccontano lo squallore e la desolazione della vita quotidiana al tempo del thatcherismo, ma offrono anche un lessico per esorcizzare i fantasmi che queste immagini di decadenza evocano. Ma è probabilmente Ghost Town (The Specials, 1981) il brano che meglio può restituire le atmosfere crepuscolari di questi anni, condensando il contrasto tra la vitalità sociale e culturale delle nuove generazioni britanniche e la progressiva privatizzazione e cannibalizzazione dello spazio pubblico. A partire dal video, in cui la band attraversa una città ormai amorfa e senza vita, il pezzo offre la descrizione di una città sempre più deserta, plasmata dall’interdizione di qualsiasi godimento altro, dove una gioventù smarrita si ritrova intenta a lottare con se stessa. No job to be found in this country Can’t go on more The people getting angry: è tra le pieghe di questa torsione neoliberale, tra i club che chiudono e la disoccupazione, tra i quotidiani abusi razzisti e un governo sempre più cinico e disinteressato, che è possibile allora ritrovare le matrici esistenziali all’origine di quelli che saranno i riots del 1981.

3. Considerazioni di metodo per un antirazzismo senza manuali

Darcus Howe: Where were you in 1981 in Brixton?
Fiona Armstrong: Mister Howe…
Darcus Howe: I don’t call it rioting. I call it an insurrection of the masses of the people. It is happening in Syria. It is happening in Clapham. It is happening in Liverpool. It’s happening in Port of Spain, Trinidad, and that is the nature of the historical moment.

Nell’estate del 2011, dopo l’omicidio per mano della polizia di un giovane nero britannico, Mark Duggan, il quartiere di Tottenham Hale diventa teatro di riots che di lì a poco si diffondono in altre zone di Londra e in diverse città del Regno Unito. Senza voler incorrere in schematismi e semplificazioni, gli eventi di quei giorni possono darci un’idea sia del peso simbolico e degli spettri che ancora oggi Brixton evoca nell’immaginario britannico, sia di quanto essi abbiano segnato le «memorie del sottosuolo»14 delle classi popolari. Infatti, durante un’intervista rilasciata alla BBC Darcus Howe, di fronte al consueto moral panic mediatico, non può che ritornare agli eventi di ormai 40 anni fa: «Where were you in 1981 in Brixton?». Il legame intimo, quasi una forma di memoria involontaria, per dirlo con Walter Benjamin, torna a una ferita aperta e provoca il risentimento della giornalista che, spalle al muro e in maniera goffa, replica un copione consueto, dando implicitamente del teppista all’interlocutore. «Have some respect for an old West Indian negro […] You just sound idiotic. Have some respect!», conclude Howe. Se in seguito l’emittente anglosassone si scuserà ufficialmente è chiaro che, per quanto possa essere esorcizzata, la potenza divisiva di Brixton continua a covare sotto le ceneri di un discorso pubblico apparentemente pacificato, pronta a riemergere a ogni riot, a ogni conflitto e irruzione di un reale attraversato da oppressioni e sfruttamento.

La nostra riflessione ha provato a illuminare, seppur brevemente, il terreno socio-culturale su cui quegli eventi sono maturati. Abbiamo mostrato fino a che punto quella che, a uno sguardo superficiale, potrebbe essere considerata una rivolta estemporanea o irrazionale sia stata invece l’esito di processi che da decenni attraversavano società e cultura popolare britannica. Dove larga parte della politica parlamentare non vedeva altro che alienazione e americanizzazione dei consumi15, vi era «l’ambizione prometeica della working class di produrre un mondo che eccedesse – esistenzialmente, esteticamente, così come politicamente – i miserabili confini della cultura borghese»16. Lo ska, il reggae, il punk, così come gli stili e le passioni che in quegli anni si forgiano, sono i soggetti stessi di una poetica del quotidiano e il luogo di una contestazione frontale (con tutte le sue ambiguità e incomprensioni) al grigiore della British way of life. Si tratta di osservare come tutto questo possa ancora offrire delle indicazioni di metodo importanti per (ri)pensare a una pratica antirazzista, teorica e politica, che vada oltre alcune delle impasse insite in diverse traduzioni accademiche dell’identity politics. Il discorso colto sull’antirazzismo e l’intersezionalità ci sembra infatti sempre più contrassegnato da una postura individualizzante e soggettivistica, spesso tinta da connotazioni morali, la cui capacità di destabilizzare le strutture di potere collettive rimane dubbia. Le categorie di razza, classe e genere, una volta trasformate da strumento d’analisi a vera e propria «divinità a tre teste»17, non solo rischiano di ostacolare la possibilità di insorgenze “meticce”, ma si prestano anche a farsi strumento di restyling per delle politiche neoliberali in cerca d’innovazione, «inquadrando la vita sociale non come collettiva, ma come l’interazione di singoli individui imprenditori sociali»18. Ritornare a Brixton significa allora attingere all’archivio dell’antirazzismo anglosassone per immaginare una prassi che, magari meno attenta alla purezza teorica, sappia confrontarsi con una realtà che non si lascia domesticare nella gabbia di categorie rigide e astratte. Un antirazzismo coi piedi per terra, in cui la vita quotidiana può divenire luogo, certo non semplice e privo di conflitti, per l’elaborazione di «terzi spazi»19 e nuovi soggetti, in grado di aprirsi all’imprevisto e all’improbabile.


Note

1 Jon Garland, et al., Youth Culture, Popular Music and the End of Consensus in Post-War Britain, in “Contemporary British History”, 2012, 26 (3), pp. 265-271.

2 Jon Stratton, Skin deep: ska and reggae on the racial faultline in Britain, 1968-1981, in “Popular Music History”, 2010, 5 (2), pp. 191-215.

3 George Marshall, Spirit of ’69. La bibbia skinhead, Roma, Red Star Press, 2019.

4 Don Letts, There and Black Again: The Autobiography of Don Letts, London, Omnibus Press, 2021.

5 James Clifford, Travelling Cultures, New York, Routledge, 2008; The Harder They Come, regia di Perry Henzell, 1972.

6 Pressure, regia di Horace Ové, 1976; A Hole in Babylon, regia di Horace Ové, 1979; Babylon, regia di Franco Rosso, 1980.

7 Nicole M. Jackson, A nigger in the new England’: ‘Sus’, the Brixton riot and citizenship, cit., pp. 158-170.

8 Small Axe, miniserie televisiva (5 puntate), regia di Steve McQueen, 2020.

9 Don Letts, There and Black Again: The Autobiography of Don Letts, London, Omnibus Press, 2021.

10 Intervista di Caroline Coon, Melody Maker, 27 November 1976.

11 Paul Gilroy, There Ain’t No Black in the Union Jack: The Cultural Politics of Race and Nation, London, Routledge, 1992, p. 159.

12 Riccardo Pedrini, Skinhead: la cultura di strada, Rimini, NdA Press, 2004, p. 120.

13 Matthew Worley, No Future. Punk, Politics and British Youth Culture, 1976-1984, Cambridge, Cambridge University Press, 2017.

14 Miguel Mellino, Memorie dal sottosuolo: Frantz Fanon, l’Africa e la poetica del reale, in “Aut Aut”, 2008, n. 339, pp. 121-145.

15 Worley, No Future. Punk, Politics and British Youth Culture, 1976-1984, cit.

16 Mark Fisher, Going Overground, K-Punk blog, https://k-punk.org/going-overground/, 2014.

17 Houria Bouteldja, Race, class et genre: une nouvelle divinité à trois têtes, http://indigenes-republique.fr/race-classe-et-genre-une-nouvelle-divinite-a-trois-tetes-2/, 2015.

18 Sirma Blige, Intersectionality undone: saving intersectionality from feminist intersectionality studies, in “Du Bois Review”, 2012, 10 (2), pp. 405-424.

19 Homi K. Bhabha, Johnatan, Rutherford, Third Space, in “Multitudes”, 2006, n. 3, pp. 95-107.