In apertura: manifesto per l’8 marzo 2018 (Archivio storico Udi Bologna).
1. Il contesto internazionale
Se vogliamo definire la violenza degli uomini nei confronti delle donne, non possiamo ricorrere a una definizione prestabilita se non riducendola o limitandola. Si tratta, infatti, di un fenomeno complesso e dalle molteplici forme. Sicuramente, quando pensiamo alla “violenza” ci riferiamo all’esercizio della costrizione, all’utilizzo della forza sull’altro. Nel caso della violenza di genere ciò avverrebbe da parte di un genere sull’altro1: ecco perché si specifica violenza contro le donne per dare la dimensione sessuata del fenomeno.
Per affrontare il tema della violenza di genere nei confronti delle donne dobbiamo quindi partire dalle definizioni per comprendere come è cambiata storicamente anche la consapevolezza della sua portata e delle molteplici forme in cui si esplica. Una delle definizioni storicamente più importanti è quella contenuta nella risoluzione adottata dall’Assemblea generale Onu il 19 dicembre 1993 n. 48/104 Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne, che all’art. 1 la definisce come: «ogni atto di violenza fondata sul genere che abbia come risultato o che possa avere come risultato un danno o una sofferenza fisica, sessuale o psicologica per le donne, incluse le minacce di tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica che privata» e all’articolo 2 stabilisce che la violenza contro le donne dovrà comprendere, ma non limitarsi a, quanto segue:
a) la violenza fisica, sessuale e psicologica che avviene in famiglia, l’abuso sessuale delle bambine nel luogo domestico, la violenza legata alla dote, lo stupro da parte del marito, le mutilazioni genitali femminili e altre pratiche tradizionali dannose per le donne, la violenza non maritale e la violenza legata allo sfruttamento;
b) la violenza fisica, sessuale e psicologica che avviene all’interno della comunità nel suo complesso, incluso lo stupro, l’abuso sessuale, la molestia sessuale e l’intimidazione sul posto di lavoro, negli istituti educativi e altrove, il traffico delle donne e la prostituzione forzata;
c) la violenza fisica, sessuale e psicologica perpetrata o condotta dallo Stato, ovunque essa accada.
Come si può notare restano nominativamente escluse la forma della violenza economica e la questione della rappresentanza nella società e nei luoghi decisionali delle donne e quella istituzionale. La più recente e innovativa definizione di violenza contro le donne che rappresenta anche l’effettiva risposta all’istanza del rispetto dei diritti umani e del diritto a non subire discriminazioni fondate sul sesso ed è quella contenuta nella Convenzione del Consiglio d’Europa, nota anche come «Convenzione di Istanbul» contro la violenza sulle donne e la violenza domestica2 ed entrata in vigore in Italia, dopo la ratifica, il 1° agosto 2014.
La Convenzione di Istanbul è il primo strumento internazionale giuridicamente vincolante che innova non solo per la definizione della violenza nei confronti delle donne, ma in quanto crea un quadro giuridico completo per proteggere le donne contro qualsiasi forma di violenza ed è incentrata sulla prevenzione della violenza domestica, sulla protezione delle vittime e sulla persecuzione dei trasgressori, prevedendo anche obblighi di formazione e competenza degli operatori. La Convenzione definisce la violenza contro le donne come «una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro le donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano o sono suscettibili di provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica3, comprese le minacce di compiere tali»4.
Nella Convenzione si legge che «violenza contro le donne basata sul genere» designa qualsiasi violenza diretta contro una donna in quanto tale, o che colpisce le donne in modo sproporzionato, valorizzando nella definizione anche l’aspetto psicologico della sola minaccia di tali atti. L’articolo 4 vieta alcuni tipi di discriminazione affermando che l’attuazione delle disposizioni della Convenzione da parte delle Parti, in particolare le misure destinate a tutelare i diritti delle vittime, deve essere garantita senza alcuna discriminazione fondata sul sesso, sul genere, sulla razza, sul colore, sulla lingua, sulla religione, sulle opinioni politiche o di qualsiasi altro tipo, sull’origine nazionale o sociale, sull’appartenenza a una minoranza nazionale, sul censo, sulla nascita, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere, sull’età, sulle condizioni di salute, sulla disabilità, sullo status matrimoniale, sullo status di migrante o di rifugiato o su qualunque altra condizione.
La promozione dei diritti delle donne e l’individuazione di strumenti giuridicamente vincolanti per garantirne l’applicazione ed eliminare quindi ogni discriminazione è stata ed è ancora obiettivo da raggiungere pienamente. I diritti delle donne, infatti, vennero introdotti nominativamente nello Statuto delle Nazioni Unite adottato il 26 giugno del 1945 ma solo nel 1948 all’articolo 21 la Dichiarazione universale dei diritti umani introdusse nella legislazione internazionale il suffragio universale. Varie sono state le convenzioni internazionali che associano alla parola diritti delle donne divieti di discriminazione ma solo nel 1979 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite approvava la Cedaw5, ovvero la convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazioni contro le donne. La Cedaw, ratificata dall’Italia solo nel 1985, rappresenta il più importante strumento in materia e definisce la discriminazione contro le donne come ogni distinzione esclusione o limitazione basata sul sesso che abbia l’effetto o lo scopo di compromettere o annullare il riconoscimento il godimento o l’esercizio da parte delle donne indipendentemente dal loro stato matrimoniale e in condizioni di uguaglianza con gli uomini dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico economico sociale culturale civile o in qualsiasi altro campo6. La Cedaw è stata in realtà preceduta dalla Dichiarazione sull’eliminazione della discriminazione contro le donne, adottata dall’Assemblea generale dell’Onu con risoluzione n. 2263 (XXII) del 7 novembre 1967, che però non è giuridicamente vincolante.
Nella Cedaw non era nominata la violenza sessuata. Attualmente, a seguito della ratifica della Convenzione di Istanbul, non si può più prescindere da tale definizione internazionale (la Suprema Corte di Cassazione a sezioni unite 29 gennaio del 2016 n. 10959 lo conferma) rappresentando detta definizione una indicazione che costituisce un fondamentale riferimento per addivenire a un’interpretazione delle norme interne conforme al diritto europeo. Da qui l’inquadramento del fenomeno della violenza di genere contro le donne nel diritto antidiscriminatorio che rappresenta il risultato di una interrelazione tra norme sia di livello europeo e sovranazionale che dell’ordinamento interno, per l’affermazione e la realizzazione del principio di eguaglianza e non discriminazione.
La discriminazione rappresenta una distinzione o un’esclusione che non ha un motivo in quanto è basata su un aspetto dell’identità della persona discriminata che non dovrebbe in realtà essere rilevante. La discriminazione può essere diretta, quando si agisce per mettere una persona o un gruppo di persone in una situazione di svantaggio (ad esempio, non assumere una donna lesbica in quanto omosessuale seppure qualificata per il lavoro), oppure indiretta o strutturale che si ha quando una norma o un criterio apparentemente legale o neutro mette in una situazione di svantaggio una categoria di persone (ad esempio, stabilire che gli uomini e le donne devono avere un altezza minima di 1,70 per entrare nelle forze armate è un parametro che apparentemente è legale ma mette le donne in una situazione di svantaggio in quanto l’altezza media per le donne è inferiore a 1,70 mentre per gli uomini è superiore)7.
La violenza di genere contro le donne è una delle forme più gravi di discriminazione e rappresenta un problema che riguarda la collettività e come tale deve essere affrontato sia per un’efficace prevenzione sia per il potenziamento dell’assistenza e del contrasto, che per la punizione. A partire dal linguaggio, che crea equivoci o richiama pseudo neutri invece che esplicitare una corretta femminilizzazione di un ruolo professionale, semplicemente per non riconoscerne l’occupazione al femminile.
Ancora oggi la violenza va declinata, illustrata, riconosciuta, sia che si tratti di violenza fisica psicologica, economica, sessuale, discriminazione di rappresentanza o nel mondo del lavoro o quando è istituzionale. Importante quindi la presa di coscienza politico-giuridica e della società non solo nel considerare le profonde radici culturali della violenza di genere nei confronti delle donne, inclusa la violenza domestica e nel mondo del lavoro, ma anche del suo carattere transculturale, diffuso nei rapporti uomo donna8.
Arrivando agli ultimi anni, la Convenzione Oil 190/2019 con la Raccomandazione che l’accompagna è un nuovo strumento per promuovere un lavoro libero da molestie e violenza. L’Italia ha completato il processo di ratifica il 29 ottobre 2021. La Convenzione riconosce che la violenza e le molestie nel mondo del lavoro «possono costituire una violazione o un abuso dei diritti umani. Sono una minaccia per le pari opportunità, inaccettabili e incompatibili con un lavoro dignitoso». Per questo richiama i 187 Stati membri dell’Oil9 – presenti con rappresentanti di governo, associazioni di lavoratori/lavoratrici e datori di lavoro – alla loro responsabilità di promuovere “tolleranza zero” come standard generale. La Convenzione Oil con la Raccomandazione che l’accompagna è infatti un nuovo strumento per promuovere un lavoro libero da molestie e violenza e riconosce che la violenza e le molestie nel mondo del lavoro, «possono costituire una violazione o un abuso dei diritti umani. Sono una minaccia per le pari opportunità, inaccettabili e incompatibili con un lavoro dignitoso». La convenzione introduce una serie di importanti innovazioni.
Si tratta del primo trattato internazionale che stabilisce il diritto di tutti, non solo di qualche gruppo specifico, a un mondo del lavoro libero da violenza e da molestie, e precisa cosa debba essere fatto, e da chi, per prevenirle e affrontarle. Richiede agli Stati di garantire alle potenziali vittime di violenze o molestie l’accesso alla giustizia in maniera effettiva e di predisporre misure correttive, nonché di garantire facile accesso a meccanismi di ricorso e di risarcimento adeguati ed efficaci, mira a proteggere la vita privata dei soggetti coinvolti e la riservatezza.
Non entro nello specifico della Convenzione – lo fa in questo Dossier Gianni Rosas – se non per ribadire che occorre un vero cambiamento culturale su questi temi, accompagnato ad un modello integrato di lotta alla violenza contro le donne e alla violenza domestica e alla violenza nel mondo del lavoro, che imponga agli Stati l’adozione di riforme giuridiche e di misure finalizzate alla promozione di cambiamenti nella mentalità e nei costumi di uomini e donne, dove accanto alla protezione e al sostegno delle vittime, e alla repressione del fenomeno, vi sia educazione e sensibilizzazione di tutti per promuovere il necessario cambiamento. Questa è l’attività che, come Udi (Unione Donne in Italia), svolgiamo sul territorio da oltre 70 anni, con competenze nei settori giuridici, culturali, psicologici per l’affermazione, promozione e tutela dei diritti delle donne, che sono diritti di tutti, e per il sostegno delle donne che assistiamo e sosteniamo nei percorsi di uscita dalla violenza.
2. La situazione italiana
Il cammino verso il riconoscimento della violenza nei confronti delle donne nel nostro paese, dentro e fuori la famiglia, va analizzato partendo da alcuni passaggi normativi.
Il primo, dopo la conquista delle donne italiane del diritto al voto10 prima, e poi quello ad essere elette11, è sicuramente la riforma del diritto di famiglia (Legge n. 151 del 19/05/197512 e successive modifiche). Il diritto di famiglia codificato nel 1942 concepiva una famiglia fondata su una posizione subordinata della moglie al marito, sia nei rapporti personali sia in quelli patrimoniali, sia nelle relazioni di coppia sia nei riguardi dei figli; famiglia fondata anche sulla discriminazione dei figli nati fuori dal matrimonio (figlio naturale), che ricevevano un trattamento giuridico deteriore rispetto ai figli legittimi.
Con la riforma si riconosce finalmente la parità giuridica dei coniugi, viene abrogato l’istituto della dote (cioè l’insieme dei beni che la famiglia della moglie conferiva allo sposo al momento del matrimonio)13, la patria potestà viene sostituita dalla podestà di entrambi i genitori, ora responsabilità genitoriale, si riconosce inoltre ai figli illegittimi la stessa tutela conferita ai figli legittimi. Segue l’affermazione del diritto a separarsi dei coniugi e successivamente a cessare gli effetti civili del matrimonio.
Il secondo pilastro è stata l’abrogazione del delitto d’onore e del matrimonio riparatore (Legge n. 442 del 5/08/1981). Il delitto d’onore era un tipo di reato caratterizzato dalla motivazione soggettiva di chi lo commetteva, volta a salvaguardare (nella sua intenzione) una particolare forma di onore, o comunque di reputazione, con particolare riferimento a taluni ambiti relazionali come, ad esempio, i rapporti matrimoniali o comunque di famiglia14.
In Italia, dunque, la commissione di un delitto perpetrato al fine di salvaguardare l’onore (ad esempio, l’uccisione della coniuge adultera o dell’amante di questa, o di entrambi) era sanzionata con pene attenuate rispetto all’analogo delitto di diverso movente, poiché si riconosceva che l’offesa all’onore arrecata da una condotta “disonorevole” valeva di gravissima provocazione, e la riparazione dell’onore non causava riprovazione sociale. Il Codice penale del 1930 (Codice Rocco), all’art. 58715, prevedeva:
Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni. Alla stessa pena soggiace chi, nelle dette circostanze, cagiona la morte della persona che sia in illegittima relazione carnale col coniuge, con la figlia o con la sorella.
Il matrimonio riparatore16, art. 544 Codice Rocco abrogato dalla L. 15 febbraio 1996 n. 66, era concepito come una forma di risarcimento e di tutela per la donna, che avendo perduto l’onore, non avrebbe più potuto essere presa in moglie da nessun altro uomo. L’uomo che commetteva, nei confronti di una donna nubile e vergine17, una violenza di tipo carnale poteva evitare il processo e la pena prevista accettando di sposare la donna, addossandosi tutte le spese della cerimonia e senza ricevere la dote. Se la ragazza rifiutava la riparazione offerta, subiva il disprezzo sociale, e presumibilmente non si sarebbe più sposata.
La terza tappa è rappresentata dalla modifica del Codice penale che classificava i reati di violenza carnale, atti di libidine violenti18 e incesto rispettivamente tra i «delitti contro la moralità pubblica e il buon costume». Con la Legge n. 66 del 15/02/1996 si giungeva ad affermare, finalmente, il principio per cui lo stupro è un crimine contro la persona, che subisce una lesione della sua libertà sessuale e non è, quindi, soltanto un reato contro la morale pubblica19.
In vigenza del Codice Rocco la dottrina maggioritaria considerava violenza carnale solo quegli atti che potevano portare alla procreazione20. In tutti gli altri casi in cui l’atto compiuto non rientrava in un rapporto sessuale, andava a configurarsi il reato di atti di libidine con violenza, definito “residuale” puniti con una pena di molto inferiore (ridotta di 1/3). Questo comportava la necessità per i Tribunali, al fine di classificare le diverse condotte, di una dettagliata ricostruzione di quanto accaduto, rendendo necessario ricostruire in aula con “esattezza” le dinamiche dei fatti al fine di verificare se vi fosse stato un rapporto e quale tipo di rapporto, sottoponendo le vittime ad interrogatori degradanti (spesso in pubblica udienza), in un clima dove spesso la persona offesa appariva come la causa scatenante dei fatti, con devastanti conseguenze psicologiche per la stessa.
Il quarto passaggio è rappresentato dall’introduzione delle Misure di protezione sociale per le donne che subiscono violenza, con la Legge n. 154/2001. Provvedimento diretto a tutti quei soggetti (marito/moglie, convivente, figlio, genitore) che nell’ambito del nucleo familiare subiscono sottomissioni e violenze, non solo fisiche ma anche morali quali minacce, intimidazioni, pressioni e molestie psicologiche. Con la legge 154/2001 vengono introdotte nuove misure volte a contrastare la violenza tra le mura domestiche, attraverso interventi in campo penale e civile prevedendo, tra l’altro, l’«allontanamento dalla casa familiare» del soggetto «violento» e il divieto di frequentazione di luoghi determinati, abitualmente frequentati dalla persona offesa.
Con l’emanazione, infine, della normativa cosiddetta Codice Rosso, la Legge n. 69/2019, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 173/2019 ed entrata in vigore il 9 agosto 2019, individua un catalogo di reati attraverso i quali si esercita la violenza domestica e di genere. In relazione a tali fattispecie, opera modifiche al codice per velocizzare l’instaurazione del procedimento penale e, conseguentemente, l’accelerazione dell’eventuale adozione di provvedimenti di protezione delle vittime. Incide sul Codice penale per inasprire le pene per alcuni dei citati delitti, per rimodulare alcune aggravanti e per introdurre nuove fattispecie di reato quali il Revenge porn all’art. 612-ter c.p., dopo il delitto di stalking, quindi punendo la diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti senza il consenso delle persone rappresentate e il reato di sfregio, delitto di deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso, introdotto all’art. 583-quinquies c.p.
La normativa del Codice Rosso innova e modifica la disciplina penale e processuale della violenza domestica e di genere e modifica la misura cautelare del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, nella finalità di consentire al giudice di garantirne il rispetto anche per il tramite di procedure di controllo attraverso mezzi elettronici o ulteriori strumenti tecnici, come il braccialetto elettronico. Il delitto di maltrattamenti contro familiari e conviventi viene ricompreso tra quelli che permettono l’applicazione di misure di prevenzione.
A ciò si aggiunga che, in base alla nuova normativa21, nei casi di condanna per i delitti di maltrattamenti, violenza sessuale, violenza sessuale aggravata, atti sessuali con minorenni e corruzione di minorenne, violenza sessuale di gruppo e atti persecutori ecc., per beneficiare della sospensione condizionale della pena, l’autore della violenza deve partecipare a specifici percorsi di recupero presso enti o associazioni che si occupano di prevenzione, assistenza psicologica e recupero di soggetti condannati per i medesimi reati.
In Italia, secondo un’indagine Istat pubblicata nel 2021, le donne vittime di omicidio volontario nell’anno 2020, sono state 116, lo 0,38 per 100.000 donne. Nel 2019 erano state 111. L’analisi dei dati rilevati dall’Istat degli omicidi per genere mostra come siano soprattutto gli omicidi di uomini a essere diminuiti in 26 anni (da 4,0 per 100.000 maschi nel 1992 a 0,7 nel 2018), mentre le vittime donne di omicidio sono rimaste complessivamente stabili (da 0,6 a 0,4 per 100.000 femmine). Delle 116 donne uccise nel 2020, il 92,2% è stata uccisa da una persona conosciuta. Per oltre la metà dei casi le donne sono state uccise dal partner attuale, in particolare il 51,7% dei casi, corrispondente a 60 donne, il 6%, dal partner precedente, pari a 7 donne, nel 25,9% dei casi (30 donne) da un familiare (inclusi i figli e i genitori) e nell’8,6% dei casi da un’altra persona che conoscevano: amici, colleghi, etc. (10 donne)22. Dai dati emerge, quindi, che nonostante l’inasprimento delle sanzioni penali e l’apertura di corsie preferenziali per velocizzare l’instaurazione del procedimento, i delitti contro le donne sono ancora oggi rilevanti. Solo nel 2021 sono state oltre 980 le notizie di reato iscritte dalla Procura di Bologna per maltrattamenti in famiglia, stalking, molestie e violenze sessuali nei confronti delle donne, e sappiamo bene, che solo una piccola percentuale di donne denuncia. Agghiacciante è il numero dei femminicidi23. Inascoltabile e illeggibile la narrazione della violenza subita dalle donne, non solo nei mass media ma spesso anche nelle sentenze. Troppi gli stereotipi e i pregiudizi culturali ancora esistenti. «La colpa è delle donne che si sono esposte alla violenza, l’autore di violenza, poverino, era… destabilizzato, era… in preda ad un raptus, era… in preda ad una tempesta emotiva… reagiva alla separazione… era stato provocato dal vestito, era… confuso dall’atteggiamento della donna…». Insomma si continua a giustificare la violenza maschile garantendogli impunità morale e sociale e spesso giudiziaria. Si colpevolizza la vittima. Frasi come «mi sembrava che ci stesse» o «chiaramente lo voleva» continuano ad essere proposte come causa di giustificazione. Sulla donna, nei processi o nei media si forniscono dettagli della sua vita sessuale, familiare o personale. L’autore continua ad essere destinatario di sforzi collettivi di comprensione in relazione all’agito violento con ricerca delle cause di “giustificazione”. Si perpetuano ancora spesso i ruoli tradizionali delle donne come madri e casalinghe, deboli e fragili, compromettendo il loro status sociale e le loro prospettive di istruzione e di carriera. Anche la Corte europea dei diritti dell’uomo (prima sezione) nel caso di J.L. contro l’Italia, recentemente deciso a maggio 2021, ha ribadito che le autorità giudiziarie dovrebbero evitare di riprodurre stereotipi sessisti nelle loro decisioni giudiziarie, riducendo al minimo la violenza di genere ed esponendo le donne alla vittimizzazione secondaria, formulando commenti che inducono colpevolezza e moralizzanti, suscettibili di danneggiare la fiducia delle vittime nel sistema giudiziario. Per la prevenzione e il contrasto oltre che una adeguata formazione competente degli operatori è necessario un lavoro in rete sempre con le istituzioni, le forze dell’ordine, i servizi sociali e alla persona, le e i mediatori culturali, nella consapevolezza che ogni donna ha bisogno di una risposta efficace e organizzata per lei, in base alle sue decisioni, scelte e bisogni. È necessaria competenza da parte di tutti gli operatori nella valutazione del rischio, nella raccolta degli indici soggettivi, nella necessita di non sottovalutare le aspettative della vittima, al fine di effettuare anche un tempestivo invio per competenza e predisporre un piano di sicurezza e protezione con la collaborazione delle esperte/i e interventi multidisciplinari interni ai centri antiviolenza o tramite i servizi sociali; interventi finalizzati all’accompagnamento della donna fuori dalla situazione della violenza. La Dichiarazione dei principi fondamentali di giustizia per le vittime di crimini e abusi, varata dalle Nazioni Unite nel novembre 198524, prevede che le vittime siano trattate con compassione e rispetto della loro dignità e prescrive che i sistemi giudiziari e amministrativi debbano rispondere alle esigenze delle vittime anche adottando misure per ridurre al minimo le difficoltà che incontrano, per proteggere la loro privacy, se necessario, e per garantire la loro sicurezza e quella dei loro familiari e testimoni, liberi da intimidazioni e ritorsioni.
Ecco, si deve trovare un giusto equilibrio, tra l’integrità personale e la dignità della vittima e i diritti della difesa, garantiti agli imputati.
L’azione penale e la punizione, lo sappiamo, giocano un ruolo cruciale nella risposta istituzionale alla violenza di genere e nella lotta alle disuguaglianze, ma va contrastato ancora il radicamento di stereotipi riguardanti i ruoli e le responsabilità delle donne e degli uomini nella famiglia e nella società. I servizi per le vittime di violenza di genere sono essenziali: case rifugio, centri antiviolenza, numeri verdi, servizi di consulenza legale, danno potere alle donne, amplificano la loro voce, supportano le vittime, garantiscono misure di prevenzione efficaci e forniscono il giusto supporto mediante azioni condivise.
Formazione, cultura, prevenzione e competenza sono gli strumenti che abbiamo per combattere la violenza di genere nei confronti delle donne e la efficace applicazione della Convenzione del Consiglio d’Europa.
Note
1 Con riferimento ad una persona, la caratteristica, il fatto di essere violento, soprattutto come tendenza abituale a usare la forza fisica in modo brutale o irrazionale, facendo anche ricorso a mezzi di offesa, al fine di imporre la propria volontà e di costringere alla sottomissione, coartando la volontà altrui sia di azione sia di pensiero e di espressione, o anche soltanto come modo incontrollato di sfogare i propri moti istintivi e passionali. Cfr. Vocabolario Treccani on line, voce «Violenza», https://www.treccani.it/vocabolario/violenza/, ultima consultazione: 3 settembre 2022.
2 Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica Istanbul, approvata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 7 aprile 2011 e aperta alla firma l’11 maggio 2011 a Istanbul.
3 Prima della Convenzione di Istanbul, soltanto il Protocollo di Maputo ha incluso l’aspetto economico nella nozione di «violenza contro le donne» (art. 1). Il riferimento è al Trattato sui diritti delle donne in Africa adottato dall’Unione Africana (UA) l’11 luglio 2003 a Maputo.
4 Articolo 3 della Convenzione di Istanbul – Definizioni: «ai fini della presente Convenzione: a) con l’espressione “violenza nei confronti delle donne” si intende designare una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro le donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano o sono suscettibili di provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di compiere tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica, che nella vita privata; b) l’espressione “violenza domestica” designa tutti gli atti di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare o tra attuali o precedenti coniugi o partner, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima; c) con il termine “genere” ci si riferisce a ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini; d) l’espressione “violenza contro le donne basata sul genere” designa qualsiasi violenza diretta contro una donna in quanto tale, o che colpisce le donne in modo sproporzionato; e) per “vittima” si intende qualsiasi persona fisica che subisce gli atti o i comportamenti di cui ai precedenti commi a e b; f) con il termine “donne” sono da intendersi anche le ragazze di meno di 18 anni».
5 Tratto da Cedaw and Women’s Human Rights, kit informativo Unifem-Unicef, New York, 1995.
6 Nel suo preambolo, si riconosce in primo luogo che nonostante i numerosi sforzi delle Nazioni Unite per promuovere i diritti umani delle donne e l’uguaglianza fra donne e uomini, «le donne continuano ad essere oggetto di gravi discriminazioni». Si afferma inoltre, sempre nel preambolo, che la discriminazione contro le donne viola i principi dell’eguaglianza dei diritti e del rispetto della dignità umana, ostacola la partecipazione delle donne alla vita politica, sociale, economica e culturale del loro paese in condizioni di parità con gli uomini, intralcia la crescita del benessere della società e della famiglia e rende più difficile un pieno dispiegarsi delle potenzialità delle donne per il bene del proprio paese e dell’umanità. Nel suo testo completo, poi, la Cedaw non si limita alle garanzie di uguaglianza di fronte alla legge e uguale protezione da parte della legge stessa, come facevano le normative internazionali precedenti. Essa va nel concreto, e indica una serie di misure mirate ad ottenere una uguaglianza sostanziale fra donne e uomini, indipendentemente dalla condizione familiare, in tutti i campi della vita politica, economica, sociale e culturale. Oltre a ciò, la Convenzione impegna gli Stati che la sottoscrivono ad attivarsi per modificare gli schemi di comportamento e i modelli culturali in materia di differenza fra i sessi, e si propone di diffondere princìpi di uguaglianza e non discriminazione nella vita sia pubblica che privata. Cfr. Inter-American Institute of Human Rights, Optional Protocol. Convention on the Elimination of All Forms of Discrimination against Women, https://www.corteidh.or.cr/tablas/28387.pdf, ultima consultazione: 3 settembre 2022.
7 Il regolamento «in materia di parametri fisici per l’ammissione ai concorsi per il reclutamento nelle forze armate, nelle forze di polizia a ordinamento militare e civile e nei vigili del fuoco» è stato approvato per la prima volta dal Consiglio dei Ministri il 31 luglio 2015. È passato al Consiglio di Stato e alle commissioni parlamentari competenti per un parere (il 29 settembre 2015 è stato presentato in Senato), per poi essere approvato definitivamente dal Consiglio dei Ministri il 4 dicembre 2015. Il regolamento è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 29 dicembre 2015 ed è entrato in vigore a partire dal 13 gennaio 2016.
8 La Convenzione di Istanbul prevede un meccanismo di controllo della sua applicazione attraverso un gruppo di esperti sulla violenza contro le donne e la violenza domestica (detto Grevio), il cui ambito d’intervento è disciplinato nel capitolo IX.
9 International Labour Organization (Organizzazione Internazionale del Lavoro), agenzia specializzata delle Nazioni Unite sui temi del lavoro e delle politiche sociali, nata a Ginevra nel 1919.
10 Decreto luogotenenziale 1° febbraio 1945 n. 23, entrato in vigore il 21/02/1945.
11 Decreto legislativo luogotenenziale 10 marzo 1946, n. 74.
12 La riforma del diritto di famiglia del 1975 a riforma del 1975, si inserisce in una prospettiva ampia di revisione degli strumenti normativi della nuova realtà sociale, che ha avuto inizio con l’entrata in vigore della Costituzione, con le sentenze della Corte di cassazione e con la legge 1° dicembre 1970 n. 898 che disciplina il divorzio. Sicuramente, la suddetta riforma ha permesso di abbandonare la concezione gerarchica della famiglia e le ingiuste differenze tra figli naturali e legittimi presenti nel codice del 1942, che impedivano l’attuazione dei principi costituzionali. Gaetano Lo Castro, Matrimonio, diritto e giustizia, Milano, Giuffrè, 2003.
13 Enzo Roppo, Responsabilità patrimoniale e nuovo diritto di famiglia, in “Rivista di diritto civile”, 1976, pp. 108-109.
14 Determinante per l’abolizione del delitto d’onore e del matrimonio riparatore la vicenda di Franca Viola, diciassettenne rapita e violentata dall’ex fidanzato Pippo Melodia. Franca Viola si oppose al matrimonio riparatore, denunciò e dichiarò al processo: «Io non sono proprietà di nessuno, nessuno può costringermi ad amare una persona che non rispetto, l’onore lo perde chi le fa certe cose, non chi le subisce».
15 Articolo abrogato dall’art. 1, della L. 5 agosto 1981, n. 442.
16 Per i delitti preveduti dal capo primo e dall’articolo 530, il matrimonio, che l’autore del reato contragga con la persona offesa, estingue il reato, anche riguardo a coloro che sono concorsi nel reato medesimo; e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali.
17 Era una causa di estinzione del reato anche in caso di persona offesa minorenne.
18 Art. 519 e 521 Codice Rocco.
19 Art. 609 bis c.p. “violenza sessuale” inserito nel libro II 2 Dei delitti contro la persona al Capo III “dei delitti contro la libertà individuale”, Sezione II “dei delitti contro la libertà personale”.
20 Francesco Antolisei sosteneva che non costituissero violenza carnale i rapporti sessuali diversi da quelli che avrebbero potuto portare alla procreazione (Scritti di diritto penale, Milano, Giuffrè, 1955).
21 Introdotto con il Codice Rosso L. 2019/69, l’Art. 165, 5° c., c.p. prevede per gli autori «la sospensione condizionale della pena comunque subordinata alla partecipazione a specifici percorsi di recupero». La partecipazione a programmi di intervento e trattamento per gli autori è prevista dalla Convenzione di Istanbul all’articolo 16, quale misura a carattere preventivo della violenza di genere contro le donne.
22 Cit. sito ufficiale Istat, www.istat.it, alla voce «Violenza sulle donne. Il fenomeno omicidi di donne», ultima consultazione: ٣ settembre ٢٠٢٢.
23 La connotazione di genere nell’utilizzo del termine femicide, per indicare gli omicidi di genere, risale alla seconda metà del Novecento. Diana Russell è la studiosa che maggiormente ha contribuito all’elaborazione della categoria criminologica del femminicidio, mediante la quale distingue dagli omicidi di donne per motivi accidentali o occasionali tutte quelle uccisioni di donne, lesbiche, trans e bambine basate sul genere, e quelle situazioni in cui la morte di donne, lesbiche, trans e bambine rappresenta l’esito o la conseguenza di altre forme di violenza o discriminazione di genere. Jill Radford, Diana Russell, Femicide. The politics of woman killing, New York, Twayne Publishers, 1992, p. 15.
24 Risoluzione n. 40/34 del 29 novembre 1985 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, recante la Dichiarazione sui principi fondamentali di giustizia in favore delle vittime di crimini e abusi di potere.