Il tempo di vivere con Walter e Ada. La storia di Walter Alasia (e sua madre Ada Tibaldi) rivive in due recenti romanzi attraverso le memorie personali di Giuseppe Culicchia

Time to live with Walter and Ada. The story of Walter Alasia (and his mother Ada Tibaldi) lives again in two recent novels through the personal memoirs of Giuseppe Culicchia.

In apertura: Sesto San Giovanni, zona residenziale, 1955 (da Wikimedia Commons, https://commons.wikimedia.org).

Che i conti con la vicenda che ruota intorno alla figura del cugino Walter Alasia non fossero stati chiusi da Giuseppe Culicchia con Il tempo di vivere con te1, lo conferma l’uscita di La bambina che non doveva piangere2, e alla quale invece toccherà versare tutte le lacrime del mondo, che ne costituisce in qualche modo il complemento e il completamento.

La bambina eponima è infatti Ada Tibaldi, zia materna di Giuseppe Culicchia e madre di Walter Alasia, il giovanissimo militante delle Brigate Rosse ucciso a vent’anni, il 15 dicembre 1976 a Sesto San Giovanni (MI), in un conflitto a fuoco con le forze dell’ordine, nel quale persero la vita anche il maresciallo trentaduenne Sergio Bazzega e il vice questore modenese Vittorio Padovani di 47 anni. Ad Alasia verrà poi intitolata la colonna milanese delle BR (guidata tra il 1979 e il 1980 da Barbara Balzerani e Mario Moretti), la quale si renderà responsabile tra il 1977 e il 1981 di gambizzazioni (Indro Montanelli, Nicola Toma), omicidi (Francesco Di Cataldo) e altro ancora prima di essere «espulsa dalla Brigate Rosse perché i suoi obiettivi non [erano] tanto politici quanto legati alla realtà operaia milanese»3.

Pur concentrata su quella precisa stagione novecentesca, questa bilogia di Culicchia non pretende tuttavia di fare i conti solo con quello scorcio storico, ma allarga, specialmente in questo “secondo capitolo”, l’orizzonte cronologico narrato. Inoltre, e forse elemento di maggior interesse, essa mette piuttosto in luce il modo in cui la memoria privata dialoghi con la Storia generale, o forse, meglio ancora, come la Storia collettiva transiti necessariamente attraverso le vicende private di uomini e donne comuni, e come il tempo nutra entrambe, agendo su piani diversi ma intersecantisi.

A distanza di mezzo secolo dalla vicenda centrale, infatti, l’Autore di queste pagine e compartecipe di alcune delle vicende qui ricordate, pur filtrando la rievocazione dolorosa dei fatti attraverso i propri affetti privati e famigliari, può tuttavia guardare con equanimità ai torti e alle ragioni generali di una lunga stagione nazionale che tutti ancora ci comprende, tanto che l’uscita del volume precedente ha prodotto l’incontro, avvenuto all’interno di quel fecondo e innovativo filone dei percorsi di “giustizia ripartiva”, tra Giuseppe Culicchia e Giorgio Bazzega, il figlio che all’epoca non aveva ancora compiuto i 3 anni, di una delle due vittime di Walter Alasia in quel 15 dicembre 19764.

Ed è proprio l’adozione del prisma ottico della memoria e del lutto privati a ricondurci, assieme all’Autore, alla constatazione della complessità stratificata e sfaccettata della Storia, nella quale il brigatista rosso Walter Alasia, l’assassino di Bazzega e Padovani, è anche il ragazzo vitale e il figlio amorevole. L’uno non condanna né assolve l’altro, ma entrambi coesistono nel groviglio inestricabile (gnommero gaddiano) tanto della memoria quanto della Storia.

Non sono infatti le giustificazioni quelle che cerca Culicchia per la scelta estremista dell’amato cugino maggiore, ma la decifrazione e la corretta valutazione di comportamenti sbagliati che hanno portato lutti alla propria e ad altrui famiglie, oltre che tragedie storico-politiche che hanno inquinato l’esito di lotte e trasformazioni sociali profonde.

Per meglio comprendere, occorre, però (inevitabilmente) allargare lo sguardo: se l’oggetto è lo spazio terrestre, tale ampliamento di orizzonte si produce sollevandosi in alto; quando invece esso è la Storia, il movimento da realizzare è quello di retrocedere nel tempo e convocare in udienza attori numerosi, traiettorie molteplici, contesti collettivi. E proprio a questo serve a Culicchia la storia di Ada Tibaldi e della sua famiglia, il cui filo viene qui ripreso dai primi anni del secolo scorso, quelli in cui nacquero i suoi genitori Giuseppe Tibaldi (1904) e Giuseppina Gugliermetti (1905), sposatisi nel 1927. Una saga famigliare, dunque, che si dipana nel “secolo breve”, le cui tappe private bordeggiano il profilo storico generale: dall’ascesa del fascismo (cui Giuseppe Tibaldi aderì giovanissimo sin dagli inizi), all’affermazione piena della dittatura; dallo scoppio della guerra, alla liberazione; dalla ricostruzione, al boom economico; dall’emancipazione femminile e operaia alla catastrofe culturale e politica del terrorismo. Tre generazioni si avvicendano sulla scena della storia famigliare e di quella nazionale in quasi ottant’anni. Storie che, entrambe, precipitano nella morte di Walter, il buco nero che risucchia e mescola il dolore di una famiglia (per fermarci alla dimensione memoriale privata del libro) e la tragedia storica di un Paese.

Forse, però, sta qui una debolezza della lettura per così dire storiografica adottata nel libro, e cioè che ci sia una profonda continuità (causalità?) nella nostra storia nazionale dal 1939 a oggi, da quando

l’Europa è di nuovo in guerra. Una guerra che nel nostro Paese diventerà guerra civile. Che in quanto tale non finirà nell’aprile del 1945, ma coverà sotto la cenere bruciando non poche vite tra la fine degli anni Sessanta e per tutti i Settanta, arrivando agli Ottanta e a lambire, con l’odio che la caratterizzerà, i decenni seguenti, fino ai nostri giorni5.

Dunque l’Autore sembra addirittura propenso a spostare molto in avanti, ben oltre tangentopoli e la polarizzazione indotta dall’ascesa e dall’affermazione del berlusconismo, questa faglia carsica di “guerra civile”. A me invece pare innanzitutto che, se sopravvive una divisione di memorie, altrettanto non possa né debba dirsi per la Storia; ma, soprattutto, che le stagioni che vanno sotto il nome di “strategia della tensione” o “anni di piombo” ebbero altre ragioni e altre dinamiche rispetto a quella degli anni 1943-1946 (e più ancora tale distinzione vale per quelle successive).

Inoltre nell’oscillazione tra rievocazione della vicenda privata e sua contestualizzazione storica, la seconda suona un po’ meccanica, compilatoria e rigidamente elencativa. Culicchia, insomma, convince meno quando smette di farsi osservatore e indagatore problematico di traiettorie macrostoriche e pretende di farsene esegeta, piegandole a un disegno interpretativo complessivo, che invece avrebbe bisogno di altri spazi, altri luoghi, altre categorie analitiche, altre parole. Per meglio spiegarmi su questo, porto l’esempio di un altro libro uscito nel 2021 (Sergio Luzzatto, Giù in mezzo agli uomini. Vita e morte di Guido Rossa, Torino, Einaudi), dove l’approccio ugualmente biografico e sostanzialmente coincidente dal punto di vista cronologico, evidentemente anche per un diverso coinvolgimento personale e affettivo del biografo con il biografato, conduce a esiti storiografici profondamente diversi.

Sì, perché, sia detto qui per inciso, le BR non facevano differenze tra Msi, Dc, Pci e Cgil: per loro erano tutti ugualmente nemici di classe, servi dello Stato imperialista delle multinazionali (Sim), tanto che nello scontro a fuoco del dicembre 1976 Alasia ammazza un funzionario di polizia che per le sue aperture democratiche i colleghi chiamavano “il comunista”.

Ma a differenza dello storico accademico Sergio Luzzatto (Genova, 1963), Giuseppe Culicchia (Torino, 1965), invece, è uno scrittore che, dopo il folgorante esordio di Tutti giù per terra6, il cui protagonista non a caso si chiamava Walter, ha al proprio attivo una ventina di romanzi, tra i quali Il paese delle meraviglie7, ambientato nell’Italia del 1977, nel quale aveva già affrontato il tema dei cosiddetti “anni di piombo”. Pertanto, proprio in forza di questa specifica natura e dell’approccio che ne deriva, egli risulta decisamente più convincente quando sposta la narrazione su un piano più esistenziale e memoriale – come quando confessa di aver «scritto queste pagine per evitare che le vostre voci, i vostri occhi, i momenti che abbiamo vissuto assieme vadano perduti nel tempo»8; quando, cioè, agisce per riportare in vita il tempo in cui il bambino che era «non sa che un giorno le persone a lui care non ci saranno più se non nei suoi ricordi […], si chiederà perché tutto sia passato troppo in fretta, maledirà il tempo che porterà via ogni cosa con sé, senza che lo si possa fermare lì, proprio in quell’istante, di cui resta solo un’immagine, e con essa l’eco sempre più lontana e tuttavia indimenticabile delle voci, e il colore degli occhi, il calore delle mani, un certo modo di camminare, ridere, abbracciarsi, stare assieme, un lampo irripetibile di felicità»9.

Ma, detto tutto quanto si è sin qui scritto, non si dovrà mai derogare dall’aspetto principale, e cioè che La bambina che non doveva piangere tuttavia è, più di qualsiasi altra cosa, la storia di Ada Tibaldi.

Ada nata col labbro leporino nel 1933, la cui vita di bambina si è svolta dentro una famiglia, una scuola, una storia e una guerra, tutte fasciste; Ada ragazza a Nole Canavese (TO), allegra e vitale che si affaccia alla vita e all’amore mentre il Paese si scrolla di dosso la polvere delle macerie e si ricostruisce; Ada diventata donna troppo in fretta, che quando è già incinta di Oscar sposa un fascinoso operaio di Milano che della sua vita le aveva però nascosto qualche verità meno romantica; Ada che degli anni del boom sperimenta a Sesto San Giovanni le tante contraddizioni sociali, economiche e di genere di quegli anni; Ada operaia con sola licenza elementare, che fa in fabbrica la sua università di marxismo e sperimenta sulla propria pelle (nei reparti punitivi cui la condannano la propria fierezza e irriducibilità) la durezza dello scontro sociale in atto tra i Sessanta e i Settanta; Ada che, figlia di un padre fascista, prende la tessera della Cgil e del Pci, salvo stracciarla «quando ha saputo che un giovane dirigente del medesimo, Giuliano Ferrara, a Torino si era inventato un questionario da distribuire nelle fabbriche in cui gli operai potevano denunciare in forma anonima chiunque fosse sospettato di far parte o di fiancheggiare una qualche formazione eversiva»10; Ada madre di due figli maschi, Oscar e Walter, che tanto le assomiglia nel carattere, nelle passioni e negli slanci.

E infatti proprio per Walter, che le ha confessato di essere entrato nelle Brigate rosse, Ada parteciperà, in veste di palo, anche a un’azione di recupero di documenti da un covo percepito come “bruciato”: non per condivisione – che, anzi, suo cruccio fu sempre quello di non aver fatto abbastanza per dissuaderlo da quella militanza – quanto per lo spirito di protezione dettatole da uno sconfinato sentimento di amore materno. Dirà infatti a una troupe televisiva che la intervistava: «Se mio figlio si fosse fatto prete […] sarei andata a messa tutte le domeniche»11.

D’altronde il passaggio dalla storia di Walter (Il tempo di vivere con te) alla storia di Ada (La bambina che non doveva piangere) si giustifica in qualche modo per Culicchia anche con la necessità di osservare (se non proprio capire) continuità e rotture generazionali. Ada Tibaldi, infatti, pur venendo da una storia pubblica e privata pienamente fasciste, aveva svolto un apprendistato nel cuore dell’operaismo lombardo e dunque nazionale (Sesto San Giovanni) che l’aveva fatta approdare a una consapevolezza di classe tanto istintiva quanto matura. Non solo: contemporaneamente in lei germogliava anche la coscienza di genere, ché alla subordinazione/sfruttamento in fabbrica si aggiungeva quella nelle famiglie paterna, prima, e maritale, poi.

E proprio l’acquisizione di tale duplice coscienza, operaia e di operaia, produce nella donna una ribellione che filtra inevitabilmente nell’educazione che darà a Walter, o quanto meno nel modo in cui il ragazzo la elaborerà nella sua esperienza quotidiana. Non saranno certamente il contesto famigliare, sociale, urbano o storico a motivarne la scelta brigatista (dal momento che Ada, ancorché critica, era saldamente all’interno delle lotte condotte dal Pci e dalla Cgil), tuttavia è evidente che qualcosa dell’una sia gocciolata nell’altra. Non è certamente “l’album di famiglia” di cui scrisse Rossana Rossanda12, ma certo la efficace rappresentazione di una filiazione, per quanto stravoltasi nel passaggio generazionale, è qui esemplarmente evocata.

Resta ancora una domanda prima di congedarci dalla riflessione su questo interessante libro: qual è lo spirito giusto per ripercorrere quella convulsa stagione storica? Può essere quello della memoria personale e privata? Forse no; ma che vuol dire “giusto” in questi casi? Quello che adotta Culicchia è lo spirito di chi è stato parte in causa nell’esistenza di una comparsa (Walter, prima; Ada, poi) in quella Storia. Né giusto, né sbagliato, dunque, ma teso a riportare in vita la memoria di una famiglia travolta da un lutto privato e storico enorme, e, dentro quella famiglia, la storia di una donna e di suo figlio di appena vent’anni che sbagliò molto per amore di quello che lui e tanti di quella stessa generazione interpretavano come Bene – senza vedere il male che dimorava al suo interno e nelle sue pratiche.

La Storia non si ferma; non ammette se …, né alternative praticabili; così come il dolore dato e quello ricevuto non si cancellano più. Le storie, invece, si raccontano e ci raccontano; ma hanno bisogno di narratori, e dunque, se c’è un modo giusto, o forse solo più efficace, per navigare a ritroso quegli anni, è la Letteratura ad avere la bussola adatta per farlo. Gli scrittori possono ripercorre i sentieri del passato e abitare, anche solo per un istante, la terra della nostalgia; fermare il fotogramma del tempo in un attimo magico d’innocenza, premendo il tasto “pausa” nel filmino mai girato durante un pranzo delle vacanze dell’estate 1968, prima, cioè del boato della Banca dell’Agricoltura a Milano, la cui eco (per citare Mirco Dondi13) si sarebbe protratta per alcuni anni. Se quel giorno, scrive Culicchia, «una veggente si fosse seduta alla nostra tavola e ci avesse predetto ciò che aveva in serbo per noi la Storia, non le avremmo creduto. Per Walter e per me, del resto, all’epoca le pistole non erano che giocattoli»14.

Questa frase, con una struggente ricomposizione circolare, rinvia alla copertina del libro precedente, Il tempo di vivere con te, “primo capitolo” del dittico, dove è ritratto Walter Alasia bambino tutto preso nella contemplazione della sua pistola giocattolo. Anche lì, però, il fatto che egli sia in braccio alla madre e che fossero proprio gli occhi di lei a fissare il lettore dalla profondità numinosa di quel tempo di inconsapevolezza, contribuiva a rendere icasticamente chiaro che la figura di Ada Tibaldi fosse quella drammaturgicamente più feconda e “storicamente” più promettente, al contrario di quella più rigida e meno sbalzata (anche per ovvi motivi di anagrafe) del figlio Walter.

Gli occhi di Ada, d’altronde, ci fissano anche dalla foto di copertina del libro successivo a quello: una Ada ancora più giovane, ancora più inconsapevole. E noi che guardiamo quello sguardo e che grazie al lavoro narrativo di Giuseppe Culicchia conosciamo tutto quello che lo avrebbe attraversato dopo, siamo la veggente che prende posto a quella tavola nel 1968: inascoltata com’è ogni Cassandra; affranta dalla pietà per quei destini carichi di speranze o presagi, appena un attimo prima che si compiano; annientata dall’impossibilità di arrestare l’inevitabilmente accaduto; crocefitta all’impotenza di congelare i giorni in cui le vittime/carnefici erano solo bambini tra le braccia delle madri, o le madri solo ragazze in riva a un fiume con la bicicletta abbandonata sopra un prato.


Note

Giuseppe Culicchia, Il tempo di vivere con te, Milano, Mondadori, 2021.

2 Id., La bambina che non doveva piangere, Milano, Mondadori, 2023.

3 Ivi, p. 203.

4 “La Lettura, Corriere della sera”, 14 marzo 2021.

5 Culicchia, La bambina, p. 30. Cfr. anche pp. 210-211.

6 Id., Tutti giù per terra, Milano, Garzanti, 1994.

7 Id., Il paese delle meraviglie, Milano, Garzanti, 2004.

8 Id., La bambina, p. 224.

9 Ivi, p. 118.

10 Ivi, p. 204.

11 Ivi, p. 219.

12 “il Manifesto”, 28 marzo 1978.

13 Mirco Dondi, L’eco del boato. Storia della strategia della tensione. 1965-1974, Roma-Bari, Laterza, 2015.

14 Ivi, p. 107.