Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, l’Italia attraversa un periodo di forti cambiamenti sociali, economici e politici. I due decenni sono comunemente posti in contrapposizione tra loro: mentre gli anni Settanta sono rappresentati come un periodo di forti contrasti politici, che sfoceranno anche nella stagione della lotta armata, gli anni Ottanta sono solitamente dipinti come il decennio dell’individualismo e del revival consumistico, dinamiche note anche con l’espressione di «edonismo reaganiano». Proprio nel campo dei consumi si possono notare grandi differenze tra i due decenni, ma all’interno di una complessità difficilmente riconducibile a rigide schematizzazioni:
Gli anni ’70 rappresentano un decennio all’insegna della demonizzazione dei consumi: tuttavia il risultato non è una radicale riduzione degli acquisti; il consumo si politicizza e sempre più viene proposto come una nuova dimensione dello sfruttamento: più pericolosa di quella che si attua in fabbrica perché più subdola, più suadente, meno immediatamente percepibile. L’alienazione nel consumo, i falsi bisogni, le nuove povertà, le distorsioni dei consumi individuali – cui si contrappongono invece i consumi collettivi e sociali rivolti ai bisogni “veri” – sono parte integrante del dibattito e degli orientamenti al consumo di quegli anni. È il periodo in cui nasce e si diffonde il consumerismo, in cui il vissuto della pubblicità accentua al massimo le sue connotazioni negative. […] Dopo la demonizzazione degli anni ’70 – in cui si diffondono esponenzialmente ideologie che negano gli aspetti liberatori del consumo, sottolineando invece l’alienazione e le nuove schiavitù del mercato – il consumo torna [negli anni ’80] a configurarsi come uno dei momenti privilegiati dell’esistenza. […] Alla crisi delle ideologie, ideologie di rifiuto del consumo, fanno seguito orientamenti ispirati alla concretezza e al pragmatismo. Il perseguire obiettivi di benessere individuale/familiare, di crescita personale, il ripiegarsi, dopo le grandi tensioni collettive degli anni ’70, verso dimensioni che concernono maggiormente l’individuo […]. Ma sbaglierebbe chi pensasse di estrapolare al consumatore degli anni ’80 quei caratteri che avevano caratterizzato gli albori della società dei consumi, di leggere cioè come una sorta di revival neo-consumistico le attuali tendenze del consumatore1.
A ben vedere, la netta “contrapposizione” tra anni Settanta e Ottanta, evidenziata soprattutto dal discorso pubblico, presenta non poche lacune. Sia sul piano dei consumi che nel campo della politica e della controcultura, gli anni Ottanta mostrano caratteristiche che sono allo stesso tempo rotture e approdi delle dinamiche del decennio precedente. Più precisamente, gli anni Ottanta si presentano come un vero e proprio patchwork nel quale la politicizzazione dei giovani è avvenuta unendo la memoria della storia militante degli anni Settanta con materiali e immagini tratte dal mondo dei consumi e del mercato.
A questo proposito è utile richiamare un paio di inchieste giornalistiche della seconda metà degli anni Settanta. Nel 1975, gruppi e sottogruppi giovanili furono analizzati in un’inchiesta intitolata In cerca del Padre commissionata da “Panorama” alla Doxa e pubblicata nel dicembre dello stesso anno. Emersero tre classificazioni, il tipo bene, il fighetto e il tipo impegnato (con i tre sottotipi, il Pdup-Manifesto, il figicì e l’alternativo), ognuno dei quali era riconoscibile dai vestiti indossati, dai luoghi frequentati e in generale dalle scelte consumistiche, scelte che avrebbero prodotto in ogni gruppo dinamiche di inclusione ed esclusione e conseguentemente di omologazione e moda. Una seconda inchiesta, Demoskopea-“Panorama”, del 1978, avrebbe portato alla luce una «nuova antropologia giovanile, specifica della “Generazione del Boh!” – la tipica espressione di chi non sa cosa rispondere alle domande –, in cui gli elementi di coagulo generazionale sono ormai definitivamente circoscritti nell’atteggiamento verso il consumo: “La stessa libertà di consumare tanto strombazzata dalla cultura di massa che si trasforma per alcuni in esigenza di libertà assoluta”»2. Per questo motivo, parlare di controcultura giovanile e anni Ottanta significa tenere unite le categorie del politico e dei consumi, perché strettamente interconnesse in un decennio ancora poco studiato.
Una delle città maggiormente interessate da queste complesse dinamiche (insieme a Bologna, Roma e Torino) fu Milano, dove proprio tra il 1976 e 1977 mossero i primi passi i Circoli del Proletariato giovanile, in un processo di “riappropriazione delle città” attraverso l’occupazione di spazi pubblici ed edifici abbandonati. L’attivismo culturale generato attorno a riviste come “Re Nudo”, “Ombre Rosse” e “l’Erba Voglio”, le feste del proletariato al parco Lambro, le caratteristiche uniche di quartieri come il Ticinese e figure come Primo Moroni giocarono un ruolo centrale per lo sviluppo di una vivace controcultura giovanile.
A Milano – più a fondo che a Roma e Torino – si consuma la convergenza tra la profonda trasformazione del sistema produttivo e del tessuto urbano, e quella della socialità giovanile e delle forme dell’attivismo politico consolidate fino ad allora. […] In questo contesto, l’esperienza giovanile e i tentativi di nuova politicizzazione saranno segnati da una scena contraddittoria: la massima vicinanza ai nuovi cambiamenti della composizione sociale e produttiva, ma anche nuove chance di traduzione e decodifica delle merci, dei comportamenti, dell’immaginario dominante in pratiche di resistenza e contro culturali. Alcuni giovani non conformisti, cresciuti negli ultimi slanci dei movimenti precedenti, faranno a modo loro i conti con tutto questo. In un contesto underground in qualche modo irripetibile, i movimenti radicali milanesi degli ’80 spinsero più avanti possibile sia la nozione di controcultura sia quella di scambio, conflitto e competizione con il sistema produttivo emergente. Si è trattato di una possibilità non più data allo stesso modo nel decennio successivo, quando l’underground – e i suoi saperi, i percorsi individuali, la fascinazione e il rifiuto del mercato – vennero alla luce nello spazio pubblico3.
A Milano, a cavallo dei due decenni, si assiste a un proliferare di mode, gruppi e realtà giovanili con caratteristiche molto diverse da quelle precedenti e quindi difficilmente comprensibili. Questo avrebbe spinto l’Amministrazione provinciale milanese a patrocinare, nel 1984, un’indagine sociologica con lo scopo di conoscere, capire e “classificare” le nuove “bande spettacolari giovanili” (dal nome dell’evento in cui furono presentati anche i lavori della ricerca). Il giorno della conferenza stampa, però, i relatori dovettero assistere a un’insolita protesta, in forme mai viste in precedenza4. Un gruppo di giovani punk decisero di tagliarsi il petto con delle lamette distribuendo un volantino che iniziava con la frase: «Questo è il mio sangue: analizzatelo! Forse scoprirete quali sono i miei veri bisogni». In seguito, in occasione della tavola rotonda, i punk organizzarono l’occupazione del teatro di Porta Romana, esibendo anche lo striscione “CSERDE – Come Sappiamo Essere Rivoluzionari Distruggendo Esperienza”, in netta polemica con “Centro Studi e Ricerche sulla Devianza e l’Emarginazione” (la vera sigla del CSERDE) e proponendo un dibattito autogestito durante l’occupazione stessa.
L’esperienza catalizzante fu quella dell’occupazione del teatro di Porta Romana, quando per la prima volta l’esperienza punk crassiana e l’ala punk culturale più alcune componenti skin eccetera si unirono per contestare il convegno sulle bande giovanili che fu organizzato nell’84 dalla Provincia di Milano, in cui forse ricorderai che una serie di soggetti si tagliarono il petto e distribuirono un volantino, “questo è il nostro sangue, analizzatelo”… con la sociologa Bianca Beccalli che come se niente fosse continuava a parlare, neanche avesse visto cose del genere da sempre… dietro quell’operazione c’era in realtà una lettura del punk e delle componenti giovanili dell’epoca come una cosa spettacolare, modaiola, quasi fossero bande diverse… e sta lì l’importanza di un testo come quello di Hebdige, invece, nel leggere i fenomeni culturali e anche il momento di fascino innaturale dello stile come un’espressione di percorsi di classe, di percorsi esistenziali, di formazione dell’identità culturale una cosa molto più complessa… la contestazione nei loro confronti fu radicale, occupammo per due giorni tutto il teatro, autogestimmo tutto… e ci fu effettivamente questo coacervo di esperienze… fu indubbiamente la fine di un’esperienza… l’84 è l’anno di fine del punk, da quel momento lì si rifrange tutto, esplode tutto5.
Per comprendere meglio la natura delle bande giovanili nella prima metà degli anni Ottanta è indispensabile mettere in rapporto l’indagine sociologica del 1984 con due relazioni sulle tendenze giovanili prodotte in quello stesso periodo da Questura e Prefettura di Milano6. Le “bande spettacolari” classificate nelle relazioni ricalcavano in buona parte quelle individuate dai sociologi, con la sola differenza dell’inclusione dei “paninari”. Questo perché secondo il prefetto bisognava distinguere tra “burghini”, o secondo una definizione giornalistica “paninari”, e gli altri gruppi, che esprimevano invece forme di emarginazione sociale. Appartenenti quasi tutti all’alta borghesia milanese, i paninari si davano appuntamento nei pressi di Burghy, uno dei simboli del consumismo all’americana degli anni Ottanta, e venivano descritti in questo modo:
Sempre abbronzati, vestiti con dissimulata eleganza, la maggior parte di essi è solita indossare il “bomber”, cioè un giubbotto da pilota che nella sua versione classica è di colore verde trans-lucido, e calzare scarponcini di colore coloniale. Indicati dall’ultrasinistra milanese come elementi di destra, sconfessati dal Fronte della Gioventù, i “burghini” sarebbe andati rieditando a Milano […] l’atmosfera che vi regnava verso al fine degli anni ’60 […]. Sono probabilmente i più disponibili a realizzare una logica di contrapposizione e di scontro con altre “bande”7.
I paninari, in realtà, in netta antitesi con le formazioni politiche sia a destra sia a sinistra, facevano di uno stile di vita di accettazione di tutto ciò che rappresentava il nuovo nei consumi la loro principale caratteristica. Per questo motivo la nascita di questa identità può essere fatta risalire da un lato alla crisi dell’attivismo politico e sociale degli anni Settanta, dall’altro a una nuova ripresa dei consumi definibili in stile “americanizzante” di cui il più rappresentativo era certamente il fast food. Le bande inserite e analizzate all’interno delle relazioni, comunque, erano altre, descritte in maniera molto precisa:
a) Heavy Metal – i c.d. “metallari” – sarebbero una quarantina […]. Indossano giubbotti ornati di borchie metalliche (da cui lo specifico appellativo) e jeans, calzano anfibi e si ritrovano nella zona delle colonne di S. Lorenzo. Appassionati dell’hard-rock, salutano l’esibizione dei complessi musicali favoriti con le dita della mano a guisa di P.38 (il gesto è però qui privo di qualsiasi significato politico);
b) “Skinheads” – sarebbero una trentina – indossano jeans, calzano anfibi e portano capelli rapati (da cui l’appellativo). Si ritrovano per lo più ai bordi dei quartieri Quarto Oggiaro e Comasina. Prediligono il rock-duro, senza gusti precisi;
c) Rockabilly – sarebbero una sessantina. Indossano giubbotti e jeans e portano capelli alla Elvis Presley. Si ritrovano nella zona di via Torino e piazza Sant’Alessandro. Amano il rock-soft, tradizionale, degli Stati del Sud. Infatti, tra i loro simboli usano la bandiera confederata […];
d) Rockers – sarebbero una trentina. Indossano jeans, calzano stivali ed usano come copricapo il Kepi dell’esercito nordista o cappelli da cow-boy. Girano su moto del tipo “chopper”, sono curati nell’aspetto e seguono modelli di tipo statunitense. […];
e) Mods – sarebbero una trentina. Indossano vestiti anni ’60 (giacca e cravatta), inforcano occhiali neri e si ritrovano presso il locale pubblico discoteca “Odissea 2001”. Spesso è possibile osservarli passeggiare in Galleria V. Emanuele come ad una sfilata di moda8.
Il gruppo più difficile da caratterizzare fu quello alla lettera “f” cioè il gruppo dei punk, che durante la protesta al convegno di Milano accusarono i sociologi di aver prodotto informazioni utili alla repressione poliziesca. Nonostante la difficoltà nel caratterizzare questo gruppo, il questore ne dava un’immagine non pericolosa per l’ordine pubblico:
I componenti prediligono la musica rock colta, caratterizzata da testi molto poetici. Salutano le esibizioni dei complessi favoriti alzando il braccio (sia il destro che il sinistro, indifferentemente) con il pugno chiuso. Generalmente, vestono con pantaloni e giubbotti (di stoffa) neri, calzano anfibi e portano capelli a cresta, colorati. Nel loro abbigliamento, inoltre, è elemento caratteristico il “cuneo” (borchia di metallo piramidale […]). Tratto dalla cultura di alcuni fumetti gotici assai diffusi tra i giovani, è simbolo di “risposta e penetrazione”. […] Nell’area è possibile scorgere elementi di approssimativa politicizzazione. Il gruppo più consistente e importante dei punk milanesi, quello del “centro Virus” di via Correggio, sito in uno stabile già occupato abusivamente e da ultimo sgomberato, viene infatti solitamente indicato come anarchico. In effetti, nel loro modo di comportarsi è possibile rilevare tratti di ideologia anarchica grosso modo riconducibili alla teorizzazioni di Malatesta, Cafiero, e dell’individualista Stirner. Ma, ad una più attenta analisi, emerge che sono tratti marginali e che comunque denotano una lettura superficiale e mal digerita di quegli autori. […] Sulla base dei dati attualmente disponibili, non si ritiene di percepire da quella direzione segnali concretamente negativi sotto il profilo dell’ordine pubblico9.
È su questo gruppo che ci si dovrà concentrare e su cui è necessario fare una premessa. All’inizio degli anni Ottanta il punk nichilistico di stile britannico era ormai arrivato a una sua conclusione: gruppi che avevano ottenuto fama mondiale come i Sex Pistols si erano sciolti e altri, come i Clash e i Damned, stavano cambiando sonorità e immagine. È in questo periodo che in Italia si afferma una nuova generazione, influenzata dalla politicizzazione di alcuni gruppi inglesi (Crass e Conflict su tutti) e dalle sonorità americane.
L’attitudine nichilista e provocatoria del punk anni Settanta (o come ancora oggi definito “Punk 77”) lasciava il posto a una forma estrema musicale che univa l’identità giovanile e l’appartenenza politica, meglio conosciuta come hardcore-punk. Come alcuni protagonisti hanno ricordato, il punk italiano non è mai esistito, è esistito invece l’hardcore-punk italiano (nelle sue declinazioni più vicine allo stile americano o britannico). È in questo contesto che la parola attitudine acquista un ruolo centrale. Politica, musica e produzione culturale iniziarono a essere considerati come una cosa sola. Per questo motivo, come alcuni testimoni del periodo hanno più volte affermato, si tendeva a utilizzare la dicitura di punx con la “X”, per differenziarsi dalla precedente ondata da cui si prendevano le distanze. Il punk inteso come ribellione fine a se stessa ed espressione artistica provocatoria era già considerato finito nel 1978 da alcune frange estreme del movimento, che accusavano gruppi e musicisti di essersi “venduti” al sistema, come testimonia la canzone dei Crass, “Punk is Dead”, scritta proprio nello stesso anno:
Yes that’s right, punk is dead,
It’s just another cheap product for the consumers head.
Bubblegum rock on plastic transistors,
Schoolboy sedition backed by big time promoters.
CBS promote the Clash,
But it ain’t for revolution, it’s just for cash.
Punk became a fashion just like hippy used to be
And it ain’t got a thing to do with you or me.
Movements are systems and systems kill.
Movements are expressions of the public will.
Punk became a movement cos we all felt lost,
But the leaders sold out and now we all pay the cost.
Punk narcissism was social napalm,
Steve Jones started doing real harm.
Preaching revolution, anarchy and change
As he sucked from the system that had given him his name.
Well I’m tired of staring through shit stained glass,
Tired of staring up a superstars arse,
I’ve got an arse and crap and a name,
I’m just waiting for my fifteen minutes fame.
Steve Jones you’re napalm,
If you’re so pretty (vacant) why do you swarm?
Patti Smith you’re napalm,
You write with your hand but it’s Rimbaud’s arm.
And me, yes I, do I want to burn?
Is there something I can learn?
Do I need a business man to promote my angle?
Can I resist the carrots that fame and fortune dangle?
I see the velvet zippies in their bondage gear,
The social elite with safety-pins in their ear,
I watch and understand that it don’t mean a thing,
The scorpions might attack, but the systems stole the sting.
PUNK IS DEAD. PUNK IS DEAD. PUNK IS DEAD.
La politicizzazione dei punk milanesi risentì in maniera particolare delle esperienze musicali e politiche britanniche, combinando musica, concerti e serate in discoteca. Alcuni locali, come il Concordia, il bar Magenta e la “Clinica” nel quartiere Ticinese furono fondamentali, tra 1980 e 1981, per la crescita e la maturità dei punk cittadini che iniziarono a denunciare le lacune nella politica culturale e commerciale del periodo. «Intorno alla musica, l’aggregazione punk e anarchica trovò le prime occasioni di azione diretta: per esempio, il concerto milanese di Adam and the Ants, gruppo punk-new wave della prima ora, fu duramente contestato dai punk, che reclamavano la gratuità della propria cultura e ne contestavano l’uso commerciale. Il concerto, tenutosi presso il Rolling Stones di Milano, si concluse con tensioni e tafferugli con la polizia»10.
Se i rapporti con la sinistra erede dei movimenti degli anni Settanta fu sempre problematica, dal 1981 iniziò invece l’avvicinamento al centro sociale di via Correggio 18, centro che ospitava, fin dal 1976, un Comitato di Quartiere e un’esperienza abitativa libertaria e anarchica. L’avvicinamento fu reso possibile da una serie di elementi quali la presenza (negli stessi stabili del centro) del locale Vidicon nel quale si svolgevano concerti e serate artistiche e teatrali e l’esigenza da parte dei punk milanesi di uno spazio autonomo e diverso dai circoli giovanili conosciuti fino a quel momento. In questo contesto prese vita “l’offensiva di primavera” che vide la nascita del Virus, un’esperienza che coinvolse attori giovanissimi (i più anziani avevano circa vent’anni, altri non erano nemmeno maggiorenni) e che può essere quindi definita anche come un’esperienza generazionale.
Nel febbraio dell’82 le attività del Virus occupato erano pronte a contaminare le scene culturali e giovanili della città di Milano. L’avvio è dirompente: il capannone occupato dai giovanissimi punk viene ben preso allestito per ospitare concerti. Viene messo in piedi un bar, l’insonorizzazione della sala concerti; vengono acquistati a rate l’impianto voci e la strumentazione. Nell’aprile dello stesso anno vi è l’apertura al grande pubblico dei giovani; viene organizzata “l’offensiva di primavera”, una tre giorni di musica e concerti alla quale avrebbero partecipato alcune migliaia di persone e un trentina di band provenienti da Milano, Bologna, Torino ma anche da alcune città di provincia come Como, Livorno, La Spezia, Piacenza. Nel giro di poche settimane, quindi, il Virus viene riconosciuto come il centro dell’aggregazione punk, quantomeno del Nord Italia, mentre a Milano aveva già attratto almeno un centinaio i giovani attivisti11.
L’identificazione di questi giovani con il Virus fu molto forte, perché insieme all’elemento esistenziale era presente un’intensa attività controculturale, che divenne a sua volta produzione politica. Attorno al Virus, infatti, gravitarono influenti gruppi come i Wretched e i Crash Box e punkzine (punk+magazine) come “TVOR – Teste Vuote Ossa Rotte”. L’influenza britannica portò anche l’idea del Do It Yourself (DIY), per cui i gruppi musicali rifiutavano qualsiasi legame con il mercato musicale e tendevano a produrre e distribuire i dischi in totale autonomia, ponendo anche dei limiti di prezzo al disco stesso (spesso veniva stampata la frase “Non pagare più di lire….” e il prezzo): il risultato fu la nascita della Virus Diffusioni che produceva, promuoveva e distribuiva dischi e prodotti editoriali della scena punk italiana.
In questa logica il concerto, il disco e la canzone divennero momenti esistenziali, di crescita individuale e collettiva e allo stesso tempo possono essere letti come documenti politici e di lotta. Il 1982, oltre a essere l’anno di uscita dello split Wretched/Indigesti (i primi di Milano, i secondi di Biella), vede anche la prima vera autoproduzione del circuito punk italiano. La Attack Punk di Bologna, infatti, avrebbe dato alla luce Schiavi nella città più libera del mondo, con quattro gruppi della scena punk bolognese, Stalag 17, Bacteria, Raf Punk e Anna Falkss.
Bologna presentava delle caratteristiche molto particolari: era una città in cui l’eredità del movimento del ’77 era ancora forte, anche a causa dei violenti scontri che avevano provocato la morte di Francesco Lorusso. Il gruppo di punx che iniziò a coagularsi attorno al Baraccano ebbe una precoce politicizzazione, in particolare i RAF Punk, sempre sull’orma dell’esperienza dei Crass. I punx bolognesi furono anche i protagonisti della contestazione al concerto dei Clash in Piazza Maggiore, offerto dal Comune il 1° giugno 1980 ai giovani della città, come tentativo di tendere una mano dopo anni molto difficili e tesi. Le contestazioni furono duplici, dirette sia al Comune, e in particolare al Pci, sia ai Clash. Il Pci fu accusato di voler strumentalizzare a fini elettorali (da lì a breve ci sarebbero state le elezioni regionali) una musica e una controcultura che non gli apparteneva. I Clash invece, che circa tre anni prima avevano firmato per una major, la Cbs, erano accusati di essere dei venduti e di fare il gioco del Pci sulla pelle di chi, invece, viveva intensamente il punk. Le contestazioni mostrarono, all’interno della scena punk italiana, una realtà politicizzata che si sarebbe sviluppata molto velocemente e che legò principalmente con l’area anarchica. Quando furono chiamati a suonare al Virus di Milano, come ricorda Philopat, uno dei protagonisti, i bolognesi furono una grande fonte di ispirazione per ciò che riguardava il look, il suono e la politica. In quel periodo, in Italia, cominciarono a svilupparsi punkzine e autoproduzioni, che spezzavano la logica del rock commerciale e del mito della rockstar irraggiungibile.
Nella scena punk c’era un senso di appartenenza così forte, così grande che veramente io mi meravigliavo ogni volta… Le autoproduzioni, la costruzione di un’economia interna, un’economia alternativa a quello che era l’establishment tradizionale, che significa vendere i prodotti a un prezzo politico, fare servizi a un prezzo politico… Nel nostro piccolo, nella nostra scemenza infantil-adolescenziale, ci occupavamo di fare i dischi, le fanzine, i video, fare tutti questi materiali così scarsi dal punto di vista “rivoluzionario” dei compagni di allora, però ci ponevamo il problema di un’economia che mettesse in contraddizione quella ufficiale, per fare funzionare tutte le cose al nostro interno senza avere a che fare con quell’altro mondo12.
Insieme alla Attack nacquero TVOR on vinyl, Belfagor, Blu Bus, ecc. che contribuirono alla produzione di numerosi gruppi musicali, ma anche le punkzine furono fondamentali per la crescita artistica, politica e musicale di una rete nazionale che si collegava anche con le realtà europee.
Esce il terzo numero di “TVOR Teste Vuote Ossa Rotte” redatta da Maniglia e Stiv Rottame – è un’uscita importante – si tratta di una vera rivista – in altre città ne sono state fatte parecchie altre – a Bologna “Attack” – molto politica curata dai Raf Punk che aveva creato un vivace dibattito e si può dire le basi del movimento punx italiano – a La Spezia “Archeopterix” con delle bellissime illustrazioni di Gianluca “Bad Trip” degli Holocaust e di Benzo cantante dei Fallout – ma “TVOR” ha un taglio decisamente pop – forse ricalca troppo lo stile di “Maximum Rocknroll” – punkzine culto californiana che raggiunge migliaia di copie – la grafica di “TVOR” è innovativa stampata su carta nera patinata – i contenuti non si limitano all’ambito musicale – ci sono fumetti e fotomontaggi goliardici che fanno ridere tutti. Le prime 3000 copie si esauriscono nel giro di poche settimane13.
In quel periodo partì anche il progetto “Punkaminazione”, una piattaforma attorno alla quale si organizzò la rete punk italiana, che diffondeva informazioni su concerti, manifestazioni e offriva spazio anche ad interventi politici più teorici. Fu grazie a Punkaminazione che qualche centinaio di punx italiani scese a Comiso per contestare la base missilistica americana. Come ricorda uno dei protagonisti:
Mi vengono in mente certe situazioni, come la grande discesa a Comiso, in Sicilia… La nostra era una piccola comunità sparsa per tutta Italia, una rete quando ancora nessuno parlava di aggregazioni del genere. Una rete tenuta insieme con le telefonate, le lettere, le punkzine. Un centinaio di ragazzi e ragazze di poco più di vent’anni che scesero a Comiso con la ferma intenzione di occupare la base missilistica americana per fare un concerto punk… Ma vi rendete conto? Riuniti in un posto alla fine del mondo per prenderci le mazzate dalla polizia! Tac! Tutti lì! Da soli, per fare una manifestazione contro i marines. Oppure mi ricordo i duecento biglietti falsi del treno per raggiungere la Giungla di Bari e poi proseguire per un concerto collettivo a Crotone. Una settimana insieme in un clima di ribellione comunitaria che ancora oggi ha dell’incredibile. Tutti sparsi nelle varie città e paesi, poi qualche telefonata, un appello su “Punkaminazione” e ci ritrovavamo tutti sulla medesima carrozza di un treno14.
Questa rete italiana, inoltre, era in stretto contatto anche con quella europea, e ciò permise ai gruppi italiani ed europei di poter suonare assieme durante tour e occasioni particolari, come il Chaos Tag di Hannover. In questa città i punk tedeschi chiamavano a “raccolta” punk da tutto il mondo per reagire alle violenze e alle provocazioni dei naziskin. Nell’estate del 1984 furono molti i punk italiani che risposero all’appello, attirati anche dal concerto che si tenne qualche giorno prima a Bielefield e che vide tra i gruppi che suonarono anche i torinesi Negazione e Declino.
L’attività del Virus raggiunse il suo apice tra il 1983 e il 1984, quando, dopo l’incontro con l’esperienza della Comune politica e musicale a Epping (vicino Londra) dei Crass si costituì a Milano il collettivo delle Creature Simili che raccoglieva anche esperienze diverse da quelle prettamente punk. Antimilitarismo, antinuclearismo, scelte alimentari vegetariane, campagne contro il consumo di droghe e denuncia della repressione delle forze dell’ordine, furono alcuni dei più importanti temi politici elaborati durante l’esperienza del Virus. È proprio nel 1984 che avvenne la contestazione al convegno a cui i sociologi risposero con un volantino in cui si autodefinirono “Banda di sociologi devianti ed emarginati”. I punx anarchici del 1984 mostrarono però ai sociologi un paradosso che, come spiegò lo studioso che si occupò dei punk, sembrava irrisolvibile: «se noi ci mettessimo a dimostrare che le cose che abbiamo scritto su di loro non sono bugie comproveremmo che si tratta di informazioni utili all’apparato repressivo; se dimostrassimo che esse sono inutilizzabili nelle mani di polizie e psichiatri equivarrebbe ad ammettere che noi di loro non abbiamo capito niente»15. Quando il centro sociale venne sgomberato nel 1984, a testimonianza del forte attaccamento e dell’esigenza ancora molto sentita di portare avanti l’esperienza del Virus, i Wretched scrissero la canzone “Virus 15/5/1984”:
“Senza il Virus e senza Correggio”
loro hanno detto “Tutto è finito! Togli lo spazio
spezza l’unione, è il modo migliore per farli sparire!”
Distruggere un sogno, schiacciare ogni cosa,
hanno cercato, hanno provato e hanno creduto
poveri idioti, di averci fatto per sempre sparire
Per sempre sparire
Una volta per tutte
Senza più scampo
No!
“Senza il Virus e senza Correggio”
loro hanno detto “Tutto è finito!”
Ma è solo la fine della loro pace
ed è solo l’inizio della nostra vendetta!
Dopo la fine del Virus vi furono in realtà altri percorsi che portarono alla nascita nel 1989 del Centro Sociale Conchetta e, nello stesso periodo, dell’Helter Skelter, quest’ultimo nei locali del Leoncavallo. La frequentazione già dalla prima metà degli anni Ottanta della libreria Calusca di Primo Moroni influenzò in maniera determinante gli sviluppi politici e contro culturali dell’underground milanese di quel periodo. Queste esperienze apriranno poi le elaborazioni contro culturali degli anni Novanta, in particolare riguardo i primi computer e le BBS e gli usi che se ne potevano fare. Se l’esperienza di quel tipo di hardcore-punk poté dirsi conclusa con il 1984, in realtà il fenomeno contro culturale punk continuò ad esistere. Se negli anni a cavallo tra decennio Ottanta e Novanta il punk-rock americano divenne campione di incassi (si pensi ai Bad Religion, Rancid, Offspring e Green Day), in realtà un’anima underground e più legata alla politicizzazione degli anni precedenti resistette ibridandosi poi con le specificità della realtà italiana e mondiale (fine della Prima Repubblica, crollo del Muro di Berlino, ecc.).
Gli studi sugli anni Ottanta, comunque, sono ancora agli inizi e il dibattito pubblico e accademico è aperto. In conclusione possiamo sostenere, citando De Sario, che:
L’attivismo giovanile degli anni ’80 emerge dalla messa a frutto delle – e dalla sfida alle – controculture politiche dei ’70, innestate sul precipitare nei contesti locali di comportamenti e culture giovanili transnazionali. L’innovazione, pertanto, ha preso sostanzialmente la forma di un attivismo culturale, ovvero della politicizzazione di alcuni aspetti della vita e dell’esperienza giovanile che restava fuori dall’alveo della politica moderna e delle tradizioni nazionali, in cui invece si erano collocati i movimenti giovanili del decennio precedente. Non quindi un attivismo fuori della politica; piuttosto un modo esplorativo di fare politica che ha incorporato i cambiamenti culturali, produttivi, della soggettività, divenendone un sensore non privo di contraddizioni. Per tale motivo l’inclusione di questa costellazione di esperienze nelle genealogie e nelle storie ufficiali dell’attivismo radicale del decennio successivo è stata tanto complessa. Eppure l’attivismo culturale è apparso in esperienze nient’affatto marginali, vicine alla valorizzazione produttiva di nuovi campi di pratiche e attività: l’identità, le relazioni, lo stile di vita, la comunicazione, gli affetti, la produzione culturale e informazionale16.
Note
1 Giorgio Visintini, Il consumatore degli anni ’80, in “Alimentazione & Consumi”, anno V, n. 3, settembre 1985, pp. 3-6.
2 Daniela Calanca, “La nuova generazione”: mode e costumi giovanili nell’Italia degli anni Settanta, in “Storia e Futuro”, 2011, n. 26, che cita l’inchiesta di “Panorama”.
3 Beppe De Sario, Resistenze innaturali. Attivismo radicale nell’Italia degli anni ’80, Milano, Agenzia X, 2009, pp. 87-89.
4 Alla contestazione del 1984 a Milano si riferisce l’immagine di apertura dell’articolo.
5 Intervista a Raf “Valvola”, in De Sario, Resistenze innaturali, cit., p. 107.
6 Eros Francescangeli, Creste, borchie e panini. Le subculture «spettacolari» milanesi nelle carte di polizia (1984-1985), in “Zapruder”, 2010, n. 21.
7 Riservata-raccomandata del questore del 4 giugno 1984, citata ivi p. 109.
8 Ivi, p. 110.
9 Ivi, pp. 110-112.
10 De Sario, Resistente innaturali, cit., p. 97.
11 Ivi, p. 99.
12 Marco Philopat, Lumi di punk. La scena italiana raccontata dai protagonisti, Milano, Agenzia X, 2006, testimonianza di Helena Velena, ai tempi cantante dei Raf Punk, p. 35.
13 Marco Philopat, Costretti a sanguinare, Milano, Agenzia X, 2016, pp. 136-137.
14 Philopat, Lumi di punk. La scena italiana raccontata dai protagonisti, cit., testimonianza di Giampi, dei Kina, pp. 151-152.
15 Maurizio Fraboni, Punks, in Luca Caioli et al., Bande: un modo di dire. Rockabillies, mods, punks, Milano, Unicopli, 1986, p. 188.
16 De Sario, Resistenze innaturali, cit, p. 203.