Intervista a Michele Bulgarelli, Francesco Garibaldo e Matteo Rinaldini. Il lavoro operaio digitalizzato: fare inchiesta sulle aziende metalmeccaniche negli anni dell’industria 4.0

Interview with Michele Bulgarelli, Francesco Garibaldo e Matteo Rinaldini. Digitised blue-collar work: Investigating metalworking companies in the years of Industry 4.0

In apertura: prima della digitalizzazione: le Officine Cevolani di Bologna. Foto tratta dal progetto “Bologna metalmeccanica”, https://bolognametalmeccanica.it.

L’intervista ricostruisce i mutamenti avvenuti nelle condizioni di lavoro all’interno delle aziende metalmeccaniche di Bologna negli ultimi anni, a partire dal volume Il lavoro operaio digitalizzato. Inchiesta nell’industria metalmeccanica bolognese (Il Mulino, 2022). Ne parliamo con Michele Bulgarelli, Segretario generale della Fiom-Cgil di Bologna, organizzazione promotrice dell’inchiesta, e con i curatori del volume Francesco Garibaldo, sociologo e Direttore della Fondazione Claudio Sabatini, e Matteo Rinaldini, Professore associato di Sociologia del Lavoro presso l’Università di Modena e Reggio Emilia. L’intervista è stata realizzata da Eloisa Betti e Diego Graziola.

Quali sono le ragioni che vi hanno spinto come Fiom di Bologna a promuovere l’inchiesta alla base del volume Il lavoro operaio digitalizzato?

BULGARELLI: Quattro anni fa, in vista del congresso della Fiom di Bologna del 2018, l’allora segretario generale della Fiom di Bologna, Alberto Monti, ragionò sulla necessità di avviare un’inchiesta sugli effetti dell’applicazione nelle aziende metalmeccaniche di Bologna delle tecnologie che possono essere ricomprese nella cosiddetta industria 4.0. Accanto a questa ricerca, che poi si è tradotta nella pubblicazione, Alberto decise insieme al gruppo dirigente della Fiom di Bologna di allora, di affiancare una seconda inchiesta, affidata a Matteo Rinaldini, sulla condizione di lavoro nelle aziende medio-piccole, con l’obiettivo di capire quali erano le condizioni di lavoro del metalmeccanico di Bologna alle prese con l’impatto delle nuove tecnologie nella grande impresa capofila ma anche nell’azienda della fornitura. Ovviamente, la ricerca aveva anche l’obiettivo di capire la percezione da parte dei delegati e delle delegate del loro ruolo e gli effetti delle nuove tecnologie sulla contrattazione collettiva. Percepivamo già il rischio, che poi emerge nel libro, di una aziendalizzazione della contrattazione qualora la Fiom non si fosse dotata di un quadro teorico generale per la propria contrattazione, necessario per dare un’omogeneità al nostro punto di vista e alla sua implementazione nei luoghi di lavoro. Questa era la ragione che quattro anni fa ci portò insieme alla Fondazione Claudio Sabattini a realizzare un progetto di inchiesta, o meglio co-inchiesta, in modo da far vivere alla nostra base, sicuramente ai delegati ma anche ai lavoratori, un processo di ricerca che era anche l’occasione per sviluppare una riflessione critica sul proprio ruolo dentro i luoghi di lavoro e sulle potenzialità attuali della contrattazione collettiva.

Questa inchiesta si differenzia da quella tradizione di inchieste nei luoghi di lavoro promosse dalla Fiom a partire dagli anni Settanta?

GARIBALDO: La ricerca è in continuità con quella tradizione, poi la metodologia in questo caso è stata leggermente diversa e più semplificata. Riprende la tradizione di inchieste sviluppate a Bologna a seguito dell’introduzione nelle aziende bolognesi dell’informatica più di 20 anni fa. Allora con i miei amici psicanalisti facemmo proprio un esperimento: organizzammo dei gruppi di discussione, che sono dei gruppi nei quali tu dai un tema e la gente discute di quello. Noi registravamo quello che la gente diceva, dopodiché si facevano delle riunioni del gruppo di ricerca per cercare di capire il significato di quello che usciva da quegli incontri. Quindi non era l’inchiesta classica con le domande predeterminate. Da lì venne fuori il libro L’altra faccia della luna e si svilupparono una serie di onde lunghe. Quindi a Bologna si è costruita una tradizione che ha coinvolto anche i sindacalisti: a Bologna è normale per un sindacalista che in certi momenti bisogna andare a fare delle ricerche e che le ricerche si fanno non soltanto con delle distribuzioni massicce di questionari, ma anche invitando la gente a parlare e a discutere in gruppo. Questa è la storia passata. La novità questa volta è stata che non avendo la possibilità di farlo esattamente come abbiamo fatto la prima volta non sono stati usati gruppi di discussione, ma interviste. Le interviste sono state fatte con una tecnica che è quella dell’intervista aperta: si chiede a uno di raccontare come si è modificata la sua situazione e poi si ricostruisce. È una interazione un po’ più dialogica.

Quali sono le caratteristiche metodologiche dell’inchiesta condotta nelle aziende metalmeccaniche?

RINALDINI: Questa è davvero una delle ricerche più a carattere collettivo che io abbia portato avanti. In primo luogo, perché il gruppo, come si vede anche dalle firme che sono presenti nel libro, è vasto: tutto quello che è contenuto nel libro è stato largamente condiviso e discusso da tutto il gruppo di ricerca. In secondo luogo, questa ricerca è collettiva anche in un altro senso: è stata davvero fatta con la partecipazione attiva dei lavoratori e dei delegati della Fiom. Il percorso che è stato fatto è stato lungo, difficile, a tratti anche faticoso, perché c’è stata una partecipazione molto vasta alla ricerca, non solo dei ricercatori ma anche dei delegati delle imprese che abbiamo inchiestato e ci sono stati diversi momenti di confronto, sia prima di partire con il lavoro sul campo, che nel momento successivo di restituzione dei risultati a cui siamo pervenuti. Tutto questo ha portato, durante i tre anni di ricerca, a svolgere 187 interviste e in particolare 165 con lavoratori e 23 con tecnici, tecnologhi, HR manager ecc. Utilizzo un termine, forse anche un po’ abusato negli ultimi anni, che è quello di co-ricerca, perché effettivamente è stata una ricerca svolta insieme ai soggetti che abbiamo intervistato e non semplicemente sui soggetti e le realtà che abbiamo studiato. Da questo punto di vista, questo lavoro si collega alla tradizione di ricerca sindacale all’inchiesta sociale, che a Bologna ha vissuto stagioni gloriose.

GARIBALDO: Aggiungo una cosa soltanto a quello che diceva Matteo. Prima di entrare nelle aziende abbiamo investito mesi per discutere i concetti che dovevamo usare e familiarizzare insieme su questi concetti: una sessione su che cosa è l’industria 4.0, una sessione su cosa vuol dire la lean production, una sessione sul perché la lean production e l’industria 4.0 possono essere collegate, una sessione su cosa sono le high performance e le work practises. Non è banale, vuol dire che tu fai un lavoro di gruppo nel senso proprio che diceva Matteo, cioè che tu alla fine hai condiviso un quadro concettuale che rimane, non finisce qui, rimane per tutti i membri del gruppo come un patrimonio collettivo.

RINALDINI: Aggiungo un’ultima cosa, giusto per rafforzare ancora il concetto. Con i delegati noi abbiamo passato dei pomeriggi a ricostruire il flusso di lavoro delle imprese e dei reparti con cui lavoravano. Si tenga presente, infatti, che spesso (anzi, quasi mai) il singolo lavoratore non riesce a ricostruire, da solo, il processo di lavoro dell’impresa in cui lavora e talvolta anche il processo di lavoro che si svolge nel proprio reparto è largamente schermato. Per ricostruirlo è necessario che i lavoratori si mettano insieme e, insieme, ricompongano il quadro. Questo lavoro di ricomposizione, di integrazione delle diverse informazioni, noi lo abbiamo fatto organizzando momenti specifici in cui abbiamo messo insieme i lavoratori di una stessa impresa, perché, per noi ricercatori, era essenziale per affrontare il successivo lavoro di campo. Tutto ciò, però, ha avuto come effetto non solo l’alfabetizzazione del gruppo di ricerca, ma di tutti quelli che hanno partecipato a questi momenti, delegati e lavoratori compresi. Nel percorso di ricerca, questo è stato uno snodo fondamentale e senza i delegati, senza i lavoratori, questo non saremmo riusciti a farlo, perché la ricomposizione di tutto il processo è qualche cosa di apparentemente banale, ma in realtà è una delle questioni più complicate da affrontare.

Quanto è importante oggi nell’azione sindacale la conoscenza, il sapere e l’acquisire informazioni sul processo, sul prodotto e sulle innovazioni?

BULGARELLI: È fondamentale perché altrimenti si rischia di sviluppare una contrattazione aziendale adattativa alle scelte dell’impresa. È chiaro che questa ricerca aveva anche l’obiettivo di dotare la nostra base larga, composta dalle delegate e dai delegati eletti nei luoghi di lavoro, degli strumenti necessari per avere un proprio punto di vista autonomo e indipendente dall’impresa. La grande forza della nostra base è quando i nostri delegati riescono a risolvere il problema all’azienda, garantendo magari un migliore risultato di produzione, ma migliorando al tempo stesso le condizioni di prestazione dei propri colleghi. Quindi questa ricerca non solo si colloca in una storia importante, ma conferma che quella storia è indispensabile per rimanere noi stessi e non diventare altro: per dare un’identità e degli strumenti ai nostri delegati sicuramente ma anche per riaffermare la nostra indipendenza e l’autonomia del nostro punto di vista. Quello che è emerso è la necessità che la Fiom metta la condizione della prestazione (e cioè l’organizzazione del lavoro e la salute e sicurezza) come uno dei suoi tre capisaldi dell’azione negoziale, insieme al salario e ai diritti individuali e collettivi. Abbandonare l’organizzazione del lavoro rischierebbe di isterilire la nostra azione sindacale e disperdere quel patrimonio che ci è stato consegnato da chi è venuto prima di noi.

L’innovazione tecnologica, che voi avete studiato da vari punti di vista in questa ricerca, che impatto ha da un punto di vista qualitativo e quantitativo sull’occupazione?

GARIBALDO: Questa è una domanda a cui rispondere è estremamente difficile. Noi possiamo parlare di quello che abbiamo riscontrato, da lì a trarre conclusioni generali secondo me è un passaggio discutibile, perché le differenze tra i settori sono enormi, e all’interno degli stessi settori le differenze sono molte. Fare delle generalizzazioni non è possibile. Nelle imprese studiate non c’è un rapporto diretto in termini quantitativi tra innovazione tecnologica e occupazione, c’è una trasformazione: certe figure professionali perdono importanza e di conseguenza si verifica un ricambio del personale, che avviene su piste completamente diverse rispetto al passato. Tra le figure che declinano ci sono anche figure gerarchiche, abbiamo già delle forme di rivendicazione da parte di alcuni livelli di management che si sentono menomati nelle loro funzioni per questa trasformazione. Gli effetti che noi vediamo, ripeto, in un settore molto specifico dell’industria metalmeccanica, è un effetto più di tipo qualitativo, di trasformazione. Michele può essere più preciso ma non credo che a Bologna ci siano stati, a causa della tecnologia connessa all’industria 4.0, licenziamenti e cose del genere. Posso immaginare che in ambienti più tradizionali in cui viene introdotta la tecnologia con lo scopo unico di eliminare dei posti di lavoro si possano anche avere degli effetti importanti, però sulla base della nostra ricerca questi non ci sono stati.

RINALDINI: Confermo quello che dice Francesco. Generalizzare i risultati a cui siamo pervenuti è un’operazione che ritengo sbagliata, bisogna essere molto cauti, anche perché le differenze tra un settore e l’altro sono importanti. Rispetto al contesto che noi abbiamo studiato, però, effettivamente un effetto di diminuzione dell’occupazione queste tecnologie non l’hanno avuto. Sul piano qualitativo, invece, il materiale che abbiamo raccolto è assolutamente ricco e articolato. Da una parte, la percezione che ci restituiscono i lavoratori che abbiamo intervistato rispetto all’adozione e all’utilizzo delle nuove tecnologie è quella di un miglioramento della dimensione ergonomica e di sicurezza degli ambienti di lavoro. Per esempio, quando in una lavorazione come quella della lana di vetro, che presenta delle nocività connesse alla manipolazione di questo tipo di materiale, è introdotto un braccio meccanico, un robot, che evita all’operaio di entrare in contatto fisicamente con la lana di vetro, è evidente che la percezione di chi è addetto a questa mansione non può che essere di un miglioramento della condizione di salute e sicurezza. Il contraltare, però, è che, allo stesso tempo, l’utilizzo di queste nuove tecnologie, robot collaborativi, macchine intelligenti, digitalizzazione e tutto quello che ricade sotto il cappello di industria 4.0, fa registrare criticità in termini di qualità del lavoro. Non voglio instaurare una relazione deterministica tra nuove tecnologie e condizioni di lavoro, è evidente che tutto dipende da come queste nuove tecnologie sono integrate nei processi di lavoro, ma abbiamo registrato che la crescente adozione di nuove tecnologie può accompagnarsi a trasformazioni dell’organizzazione del lavoro che impattano sulla qualità di quest’ultimo. Ad esempio, un dato registrato in tutte le realtà inchiestate, è che le nuove tecnologie permettono importanti cambiamenti del tempo di lavoro: aumento dei ritmi, aumento della saturazione del tempo di lavoro, ossia il fatto che nello stesso lasso di tempo queste nuove tecnologie ti consentono di fare più cose, ma anche rischi di sovrapposizione tra tempo di lavoro e tempo di non lavoro. Inoltre, relativamente alle competenze, abbiamo registrato una sorta di polarizzazione all’interno delle imprese studiate: alcune mansioni, attività, ruoli si impoveriscono, perché la macchina tende a memorizzare, a sussumere alcune conoscenze che prima erano dell’operatore; in altri casi è invece evidente che c’è una crescita delle competenze necessarie appunto per governare queste tecnologie. Si tratta di traiettorie divergenti spesso presenti nella stessa impresa.

Come questi risultati condizionano l’azione rivendicativa e di contrattazione della Fiom di Bologna?

BULGARELLI: È una domanda complessa. Le riflessioni che la ricerca ci consegna, soprattutto la necessità di avere sempre come riferimento la percezione che i lavoratori hanno dei processi, anche se non è corretta, sono importanti. La realtà non è semplicemente quella scritta nei contratti aziendali o anche come viene applicata perché c’è un’altra dimensione: come il lavoratore, che è la persona che noi dobbiamo rappresentare, percepisce le situazioni. La Fiom di Bologna si dà sempre delle linee guida contrattuali; l’obiettivo è non essere subalterni all’impresa e sviluppare una contrattazione che abbia delle priorità territoriali, questo emerge anche nell’articolo di Armanda Cetrulo. Se pensiamo agli ultimi anni, è emerso sempre più l’argomento degli orari di lavoro e quindi la strategia, definita da Bruno Papignani come “la necessità di costruire una cultura favorevole alla riduzione dell’orario di lavoro”, perché Bruno era ben consapevole che c’era innanzitutto la necessità di difendere le conquiste contrattuali sulla riduzione dell’orario di lavoro. Il turno alla “bolognese”, come viene chiamato, le 7 ore pagate 8 è stata una conquista degli anni Novanta, poi consolidata e diffusa; oggi c’è la necessità di difenderla, perché in alcune occasioni le aziende a fronte di piani di investimento chiedevano di restituire quella riduzione strutturale dell’orario di lavoro, tornando al turno previsto dal Contratto Nazionale dei metalmeccanici, le 7 ore e mezza pagate 8. Quindi negli anni cosa abbiamo realizzato? Tutta una serie di accordi che hanno consegnato ai lavoratori maggiore flessibilità individuale sugli orari di lavoro: penso ad esempio all’accordo più forte in tal senso che è quello della G.D, il fatto che qualunque lavoratore della G.D (tranne il turnista che fa le 7 ore pagate 8 in qualunque giorno), in qualunque momento può entrare in una fascia oraria compresa tra le 7 e le 10.15 e fa le 8 ore di conseguenza. È chiaro che non è una riduzione dell’orario di lavoro ma è una forte conciliazione dei tempi di vita e dei tempi di lavoro che punta proprio alla riduzione degli orari effettivi di lavoro. Si pone quindi il tema del rapporto tra tempo esterno e tempo interno al luogo di lavoro: più accesso ad una strumentazione di diritti individuali e collettivi che portano ad avere dei permessi aggiuntivi o una flessibilità sull’orario di lavoro. Dall’altro lato, l’elemento di difficoltà e di presidio necessario, che anche questa ricerca riconferma come indispensabile, è il controllo dell’organizzazione del lavoro. Perché il rischio è che le aziende sono disponibili ad una contrattazione che va nell’ottica della conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro ma quando poi sei dentro alla fabbrica o anche all’ufficio c’è una grande densificazione delle mansioni e un aumento dei carichi e dei ritmi. Poi si apre tutto il grande tema del lavoro impiegatizio, il cui stress cognitivo oggi porta a quel fenomeno, che io vedo, di fuga dal luogo di lavoro e che si manifesta con la crescita delle dimissioni individuali, ma anche con lo smart working. Nella richiesta di smart working c’è sicuramente una parte di conciliazione dei tempi di vita e tempi di lavoro ma io ci leggo anche la voglia di una fetta di lavoratrici e lavoratori di scappare dalla tossicità dell’ambiente di lavoro, dallo stress al quale sono sottoposti in ufficio: quello è un carico di lavoro che il sindacato non riesce a contrattare perché sono aree di scarsa sindacalizzazione e di scarso coinvolgimento nell’azione collettiva.

GARIBALDO: Vorrei aggiungere qualcosa che non c’entra con i risultati della ricerca ma riprende delle cose che ha detto Michele. Io sono rimasto colpito, andando a presentare il libro in fabbrica, dal fatto che tra i lavoratori c’è la percezione di un cambiamento che riguarda non solo il lavoro e l’organizzazione ma l’ambiente di lavoro. Non c’è più quella cosa che era stata costruita negli anni Settanta a Bologna e in parte anche in Emilia-Romagna, che era la connessione tra il mondo della ricerca e il sindacato sul problema dell’ambiente di lavoro e in particolare della salute negli ambienti di lavoro. Tale impostazione è stata smantellata, oggi non c’è nessuna struttura che stia facendo un lavoro di questo genere. Il problema del tempo non è un tema oggi semplice, perché riguarda proprio l’utilizzo della disponibilità cognitiva delle persone, non è solo una questione che il tempo si satura, ma quel tempo che si satura richiede un’attenzione cognitiva che è uno sforzo costante molto forte non solo nei lavori più concettuali ma in tutti, perché tu devi maneggiare questi artefatti tecnologici che richiedono una forte prestazione continua di attenzione. Io non sono un medico, però mi rendo conto che questo dovrebbe essere un terreno di iniziativa e questo terreno oggi è completamente abbandonato.

Avete citato nel volume alcuni problemi deteriori della condizione lavorativa operaia e non solo: appalti, diseguaglianze, bassi salari, precarietà. Come sono emersi nell’inchiesta questi aspetti?

RINALDINI: Io dico una cosa molto veloce su questo tema. Oggi quando parliamo di una qualsiasi di queste imprese dobbiamo comunque fare riferimento ad un ecosistema che si estende ben oltre la dimensione territoriale bolognese e non a caso dovremmo parlare di catene globali del valore in cui sono inserite queste realtà. Questo rende particolarmente complesso ricostruire il quadro sia dei processi organizzativi, che delle condizioni di lavoro a questi collegati, perché i primi non solo trascendono le mura dell’impresa, ma si estendono anche a territori lontani, e conseguentemente i secondi risultano parzialmente schermati. Il problema è proprio questo: noi abbiamo provato a ricostruire, a partire dalle imprese focali, anche la rete di imprese a cui queste sono collegate e le condizioni di lavoro che sono presenti nell’intero ecosistema, però abbiamo incontrato molte difficoltà a reperire informazioni e a ricostruire il contesto e questo lo assumerei come un indicatore. Infatti, non c’è dubbio che l’introduzione e l’uso di alcune nuove tecnologie all’interno di un’impresa, per le stesse caratteristiche di interconnessione di queste nuove tecnologie, non ha solo un impatto sulle condizioni di lavoro dei dipendenti dell’impresa, ma può averlo anche sui lavoratori delle imprese collegate. Studiare questo aspetto è chiaramente importante, ma la ricostruzione di tutto questo è stata indubbiamente un problema. La ricerca si è proposta di farlo, le interviste con i lavoratori e i delegati prevedevano domande su questi aspetti e si è tentato con loro di ricostruire un quadro in grado di restituire informazioni su un contesto più ampio rispetto all’impresa oggetto di studio, ma, dobbiamo essere molto onesti su questo, non ci siamo riusciti. Tutto ciò fa emergere una sorta di paradosso: oggi, in una situazione in cui i lavoratori di diverse imprese, anche grazie alle nuove tecnologie, sono collocati in una condizione di sempre più forte interdipendenza, al punto che potrebbero considerarsi coinvolti in un unico processo organizzativo, tendono a sapere poco o niente di che cosa succede al di fuori delle mura del luogo in cui lavorano, non solo cosa succede nell’impresa che si trova dall’altra parte del mondo, ma nemmeno nell’impresa fornitrice che si trova a pochi chilometri di distanza. Quindi questo lo abbiamo portato a casa come un tema, una questione, un problema, una sfida per il sindacato.

L’idea di una contrattazione inclusiva, che tiene in considerazione le aziende più piccole e le aziende della filiera, si riconnette con un’idea più storica di riunificazione delle condizioni di lavoro fin dagli anni Settanta?

BULGARELLI: Il punto è proprio la contrattazione inclusiva sui siti e nella filiera. Dal mio punto di vista, almeno come Fiom Cgil di Bologna, siamo un po’ più avanti sulla contrattazione di sito (che vuol dire appalti e subappalti), perché cominciano ad essere diversi i casi aziendali dove riusciamo a dotarci di una contrattazione almeno sul diritto di informazione, il diritto cioè a conoscere quali sono le aziende che operano all’interno dello stesso sito, quali sono i contratti nazionali applicati evitando la presenza di contratti pirata. La difficoltà, per il sindacato, è quella di avere lavoratori e lavoratrici che, nello stesso sito produttivo, si trovano a operare con condizioni di diritti e di salari estremamente diverse. È relativamente facile organizzare i lavoratori, più difficile è ridurre quella distanza di condizioni di lavoro da un punto di vista salariale e di diritti individuali e collettivi. L’altro tema è quello che ereditiamo anche dalla reazione, sviluppatasi a partire dagli anni Sessanta e Settanta, delle imprese di fronte alla forte contrattazione aziendale della Fiom: il tentativo di scomporre il ciclo produttivo in aziende medio-piccole che quindi si trovano a lavorare in quell’ecosistema di cui parlava Matteo Rinaldini. Oggi parliamo di una vera e propria filiera anche formalizzata, nella quale il compito del sindacato è costruire una propria azione, ed è proprio quello che stiamo facendo in questi anni: abbiamo eletto anche recentemente delegate e delegati nelle aziende della filiera di IMA, ma il passaggio successivo è quello di allargare la contrattazione collettiva. Se non riusciamo ad allargare la contrattazione collettiva sia negli appalti nei grandi siti industriali, sia nelle aziende partecipate delle filiere si fa sempre più strada il rischio che la nostra specificità contrattuale diventi una “isola”, con al tempo un lavoro povero sempre più diffuso che insidia i grandi insediamenti industriali dove si rischiano anche forme di aziendalizzazione o peggio forme di corporativizzazione della nostra azione sindacale.

Bologna è ancora una città industriale, è ancora una città metalmeccanica, è un modello nazionale oppure è una realtà tra le altre? Quali sono state le macro-trasformazioni da un punto di vista delle figure del lavoro operaio?

GARIBALDO: Bologna metalmeccanica, io ora parlo per il passato, in realtà non è mai esistita; ci sono tante Bologne metalmeccaniche. Che cosa è successo nei lunghi anni Settanta e agli inizi degli Ottanta? Il sindacato ha ridotto in modo molto significativo le forti differenziazioni tra le imprese perché è riuscito a insediarsi anche nelle realtà più difficili come, ad esempio, quella della Ducati elettrotecnica, ed è riuscito a produrre un processo di convergenza. Quest’ultimo non riguarda solo la condizione lavorativa, ma in realtà, dimostrando una tesi antica, un sindacato molto combattivo che mette dei vincoli verso il basso, spinge inevitabilmente a una selezione industriale, spinge cioè le aziende esistenti a modificare la loro struttura e quindi le spinge ad affrontare gli aspetti qualitativi della produzione per poter affrontare questo vincolo verso costi bassi, in alcuni casi produce anche la scomparsa di alcuni pezzi della struttura che non sono compatibili con una situazione come quella e noi devo dire che ne eravamo consapevoli. L’operazione che è stata fatta allora ha prodotto quello che tu vedi adesso, con a sua volta delle differenze interne che non sono più così tragiche come erano allora, almeno per le aziende focali e il primo livello; dal secondo livello in là comincia un altro discorso.

RINALDINI: Bologna è certamente metalmeccanica, nonostante non sia solo questo e non la ridurrei ad un unicum. La metalmeccanica, però, è parte fondamentale del passato, del presente e, mi verrebbe da dire, del futuro di questo territorio ed estenderei questo discorso anche ad altre aree dell’Emilia. Allo stesso tempo, ribadisco la cautela a fare generalizzazioni e sottolineo nuovamente che noi abbiamo fatto una ricerca qualitativa su un preciso contesto metalmeccanico e su imprese metalmeccaniche specifiche. Detto in altre parole, Bologna è metalmeccanica, ma la metalmeccanica non è solo Bologna. Però non c’è dubbio che una parte del mondo è anche questa e cioè un mondo in cui c’è un sindacato capace di negoziare, interagire e influenzare i processi di sviluppo e le trasformazioni tecnologiche e organizzative che avvengono all’interno delle imprese. Questo avviene dappertutto? Evidentemente no, ma questa parte del mondo esiste ed è importante perché, nonostante ogni realtà abbia caratteristiche e condizioni diverse, è in grado di dirci qualcosa su quello che può fare ed essere il sindacato.

Volevate aggiungere qualcosa sulle trasformazioni di questa Bologna o “Bologne” metalmeccanica/che?

BULGARELLI: Io invece dico che Bologna è metalmeccanica, perché comunque il peso dell’industria c’è ancora e i metalmeccanici sono ancora la maggioranza assoluta di tutta l’industria. Per effetto della crisi del 2008 a Bologna un metalmeccanico su due nelle aziende industriali ora è un impiegato: dei 6.000 posti di lavoro metalmeccanici persi a Bologna durante la crisi 5.000 erano posti di operai. Questo è un effetto importante ed ha contribuito a determinare una particolarità di Bologna. La presenza così significativa di impiegati, con una maggioranza schiacciante di impiegati nelle aziende con più di 100 dipendenti, è sintomo di una trasformazione sociale della classe lavoratrice nel nostro settore che condiziona sia la nostra contrattazione che il significato dell’azione collettiva e sindacale in quell’impresa. Ha ragione Francesco, ci sono più Bologne metalmeccaniche perché ovviamente ci sono settori molto diversi, c’è l’automotive, c’è il packaging, che è “il settore” di Bologna, c’è la meccanica di precisione. In Emilia-Romagna c’è anche il radicamento del sindacato nella piccola impresa e anche nelle aziende artigiane, che è una specificità frutto secondo me di scelte strategiche e di investimento storico del sindacato dei metalmeccanici in questa regione. Non penso però che Bologna possa essere un modello nazionale, perché qui si sommano una storia, un forte insediamento e radicamento, e un rapporto anche strutturato con il mondo delle istituzioni che altrove non c’è. Quindi penso che Bologna possa rappresentare un’esperienza avanzata, nelle capacità di risolvere problemi e di innovare alcuni aspetti della contrattazione, essere quindi un punto di riferimento più che un modello; un nostro delegato diceva: bisogna fare in modo che la nostra contrattazione sia sorgente di buone pratiche perché altrimenti si rischia che sia un’isola difficilmente replicabile altrove.