In apertura: il Duca di ferro, in “Testimonianze”, copertina, luglio 1955.
1. Introduzione
A giugno 2022, alcuni docenti del Liceo scientifico “Amedeo di Savoia duca d’Aosta” di Pistoia hanno avanzato la richiesta di cambiare la denominazione dell’istituto. La scuola era stata intitolata nel 1942 al principe sabaudo, morto, nel medesimo anno, in un campo di prigionia britannico in Kenya, dove era stato recluso dopo la cattura. I proponenti hanno motivato l’iniziativa affermando che il duca fu «un illustre rappresentante» del regime, al quale rimase «sempre fedele», e apparteneva al casato Savoia, «protagonista in negativo di molti momenti della storia italiana»1. La proposta non recava cenni al fatto che Amedeo d’Aosta fu un esponente di rilievo del colonialismo italiano. Il 17 giugno, il Collegio dei docenti si è espresso a favore della modifica, ma nelle settimane successive il Consiglio di Istituto ha dato parere contrario.
In parallelo alla discussione interna agli organi scolastici, l’iniziativa ha suscitato un acceso dibattito, non circoscritto al contesto locale. Alcuni l’hanno sostenuta, reputandola un’opportunità sia per modificare un’intitolazione controversa sia per dedicare il liceo a una personalità distintasi in campo scientifico, come il matematico pistoiese Enrico Betti, le scienziate Margherita Hack e Rita Levi Montalcini. Molti cittadini hanno però reagito freddamente, non comprendendo il senso di intervenire su una denominazione vecchia di ottant’anni, mai toccata in precedenza (sebbene in passato tentativi vi fossero stati). L’avere un istituto intitolato a un protagonista del colonialismo ha poi poco influenzato le opinioni dei contrari. Il nome del liceo, del resto, è solo uno dei tanti odonimi coloniali presenti a Pistoia, similmente ad altre città italiane. Denominazioni con cui la cittadinanza convive da decenni, sovente inconsapevolmente, ma talora serbando una memoria positiva delle imprese d’oltremare. Questi atteggiamenti sono spesso dovuti alla mancanza, nel grande pubblico, di una piena presa di coscienza della dimensione storica del colonialismo italiano2. Il che induce a interrogarsi sulle modalità con cui la proposta è stata avanzata: tali iniziative – modifiche di denominazione, come progetti di “risignificazione” – dovrebbero giungere al termine di percorsi volti a promuovere tra il pubblico la conoscenza storica del colonialismo, superando la narrazione mitizzata che ancora permane.
Una retorica che ha riecheggiato negli interventi dei circoli monarchici, di politici di destra, della stampa conservatrice, di associazioni reducistiche e di cultori dell’epopea coloniale, spesso attive sul web. Pur con diversi accenti, questi soggetti hanno accusato i promotori del cambio di intitolazione di condurre un’operazione ideologica di cancel culture3. Hanno parlato del duca in termini apologetici, evocando vari topoi: il pioniere dell’aria, l’eroe dell’Amba Alagi, lo sconfitto omaggiato dal nemico, il “buon colonialista”, una personalità estranea al fascismo, fino ad essere definito un «grande oppositore del regime»4 in una petizione online. Questa rappresentazione celebrativa, frutto della memorialistica e della pubblicistica coeva, è preponderante sul web e sugli organi di informazione, caratterizzando persino la pagina Wikipedia e servizi Rai sul principe5. Si tratta dei media attraverso cui il grande pubblico “consuma” prevalentemente la storia. La figura del duca d’Aosta è stata affrontata, anche solo en passant, in più saggi storici, ma questi restano materia per gli specialisti. I difensori della memoria del duca, invece, non sembrano interessati a considerare studi che vanno a confliggere con la narrazione mitica. Anzi, come si è visto in queste settimane, tendono a derubricare i tentativi di problematizzare il personaggio a contraffazioni della storia. Anche per questo, appare opportuno procedere ad analizzare criticamente la figura di Amedeo d’Aosta e la sua rappresentazione pubblica, restituendolo a una dimensione storica. È ciò che si prova a fare in questo contributo, presentando i risultati di un primo sondaggio sulla saggistica e sulle fonti a stampa.
2. Origini e prime esperienze
La ricostruzione del contesto familiare di Amedeo d’Aosta è il primo passo per esaminare la sua parabola e il suo mito. Nato nel 1898, l’erede del ramo cadetto dei Savoia intraprese la carriera militare e poi, giovanissimo, partecipò al primo conflitto mondiale come volontario. Si distinse sia per la rapida scalata gerarchica, per meriti di guerra, sia per il modo inusuale di intendere la leadership: familiarizzava con i soldati e condivideva con essi i disagi del fronte6. La sua leggenda iniziò a comporsi nel solco delle orme paterne. Il padre, Emanuele Filiberto, comandante della III armata, divenne uno dei generali più celebrati durante e dopo la Grande Guerra, noto come il “duca invitto” nel discorso patriottico, protagonista – a sua volta – di un racconto epico con varie omissioni e distorsioni.
In questa analisi, la figura paterna assume soprattutto importanza per il rilevante ruolo politico che giocò nel primo dopoguerra, con inevitabili ricadute sull’avvenire del casato. Il “duca invitto” supportò apertamente l’impresa di Fiume, scontrandosi con il governo Nitti, e successivamente sostenne Benito Mussolini. Al punto che, secondo testimoni del tempo, fu dietro ai preparativi per la marcia, pronto persino a sostituire il re qualora questi si fosse opposto all’ascesa fascista. Voci mai confermate, ma che condizionarono il sovrano7.
Quale parte ebbe il duca delle Puglie (titolo spettante all’erede dei Savoia-Aosta) in queste vicissitudini non è chiaro. Una volta smobilitato, Amedeo alternò brevi periodi in Italia, per continuare gli studi e la carriera militare, a lunghi soggiorni in Africa, prima con lo zio Luigi, il duca degli Abruzzi e imprenditore coloniale, poi in Congo alle dipendenze, sotto falso nome, di un impresario britannico. Proprio la data di conclusione del soggiorno congolese è dibattuta: per una versione, il gennaio 1923, per un’altra il settembre 1922, quando si sarebbe riunito al suo reggimento a Palermo. La questione è solo in apparenza di poco conto. Infatti, nella seconda ricostruzione, Amedeo, a fine ottobre, avrebbe raggiunto Roma per presenziare, in camicia nera, alla sfilata delle squadre fasciste davanti al Quirinale8. Se questa versione fosse confermata, ciò comporterebbe una sua adesione al fascismo, antecedente all’instaurarsi del regime, in linea con le posizioni del casato.
I Savoia-Aosta persero peso politico negli anni ’20, ma si mantennero vicini al regime, che continuò a servirsene a scopo propagandistico, specie del giovane principe. Con il suo stile di vita, si prestava ad essere presentato come un modello dell’uomo nuovo fascista: anticonformista, d’indole avventurosa, amante dei “motori”, appassionato dell’Africa e protagonista delle imprese coloniali9. Tra il 1925 e il 1931, infatti, Amedeo prese parte alla riconquista italiana della Libia, un conflitto asimmetrico che il governatore Pietro Badoglio e il suo vice Rodolfo Graziani vinsero ricorrendo ad una strategia spietata e terroristica10. Del suo coinvolgimento nella spedizione libica resta un ritratto romanzesco, legato alle sue azioni alla testa dei “meharisti”, le truppe indigene montate sui dromedari, e ai suoi voli nel deserto. Una rappresentazione figlia della pubblicistica fascista, che lo ribattezzò il “principe sahariano”11.
Tuttavia, sorgono interrogativi sulla sua partecipazione alle attività repressive. Il duca, del resto, ebbe incarichi non secondari: fu, tra l’altro, collaboratore di Graziani durante le operazioni nel Fezzan e contro l’Oasi di Cufra (gennaio 1931)12. Merita soffermarsi sul secondo episodio, per le responsabilità che ricadrebbero sul principe. Stando alla stampa e alla memorialistica, il duca delle Puglie, comandante in seconda della “colonna della Cirenaica”13, prese parte all’attacco con l’aviazione, effettuando ricognizioni, bombardando il centro e inseguendo, dall’alto, i senussi in rotta. Per la rivista “Time”, in un articolo risalente a una fase in cui i rapporti italo-americani potevano dirsi ancora buoni, Amedeo si distinse nel bersagliare, con bombe e mitragliatrici, i fuggiaschi, tra cui vi erano donne e bambini14.
3. Viceré d’Etiopia
Rientrato in Italia, Amedeo – divenuto, intanto, capo del casato – visse alcuni anni a Trieste. Fu un periodo di relativa quiete, ma caratterizzato da una forte presenza pubblica, con interventi a cerimonie, gare ed eventi del partito. Appariva una personalità inserita nel regime, ma senza incarichi di peso. L’occasione giunse nel 1937, quando Mussolini gli offrì la carica di viceré e governatore generale dell’Etiopia: avrebbe sostituito Graziani, che aveva messo a ferro e fuoco il dominio per reprimere la resistenza etiope, senza riuscirvi. La scelta ricadde sul duca per vari motivi. L’appartenenza alla famiglia reale e il suo prestigio lo ponevano al riparo dalla competizione degli altri gerarchi. Inoltre, così facendo, il dittatore coinvolgeva i Savoia nell’avventura etiope, rivolgendosi però a un profilo politicamente affidabile, visto il filofascismo degli Aosta. Infine, gli apparati di regime lo reputavano una figura manipolabile, poiché il principe non aveva mai ricoperto importanti cariche e non era esperto di affari coloniali, nonostante la laurea in giurisprudenza con una tesi in diritto coloniale15.
Assunto l’incarico, il duca intendeva orientarsi verso una politica più conciliante, in controtendenza con il predecessore16. Nel primo periodo del mandato ebbe difficoltà ad attuarla. Respinse il tentativo di Graziani di rimanere a capo delle truppe, ma faticò a imporsi sul vicegovernatore Enrico Cerulli e sul generale Ugo Cavallero, nuovo comandante delle forze in Africa Orientale Italiana (AOI). Il secondo, detentore in sostanza del potere militare, gestì la campagna di “pacificazione” in continuità con Graziani: in questa fase si verificò la strage di Zeret (9-11 aprile 1939)17. Sembra che il viceré non approvasse tali metodi, ma accettò la strategia decisa dal suo sottoposto. Ad ogni modo, non è improprio ritenere il duca corresponsabile delle operazioni repressive attuate da Cavallero: è vero che non deteneva il comando militare, ma era pur sempre la massima autorità dell’AOI. Del resto, quando Mussolini, incoraggiato dai successi iniziali, ordinò di perseverare con questo approccio, il principe assicurò che la direttiva sarebbe stata eseguita con la massima energia18.
Rimossi Cerulli e Cavallero (primavera 1939), il viceré ebbe più margini d’azione, pur tra vari ostacoli. Cercò di valorizzare settori della società etiope e di restaurare il prestigio dell’aristocrazia, ma, oltre a scontare la diffidenza dell’élite indigena, fu frenato dai vertici del regime, contrari a forme di “dominio indiretto”. Le trattative con la resistenza diedero scarsi frutti, così le operazioni repressive proseguirono, pur cercando ora di tutelare i civili. Non discusse, poi, le direttive di Roma, neppure quelle controproducenti per le sue politiche. Nel suo mandato trovò applicazione la legislazione razziale, promulgata dal 1937, che, normando la subalternità dei nativi, esacerbava le divisioni tra dominatori e dominati19.
Di lì a poco, la crisi internazionale rese prioritaria l’organizzazione dei piani di guerra. L’AOI versava in situazione critica, accerchiata da colonie britanniche, difficilmente rifornibile dalla madrepatria e difesa da un contingente, per metà composto di coloniali, logoro e male attrezzato. Il viceré chiese rinforzi, ma fu accontentato in minima parte20. I territori del Corno d’Africa erano destinati ad essere perduti. Assalito dai dubbi e scettico sull’intervento, il principe sostanzialmente si adeguò e, scoppiato il conflitto, assunse il comando delle forze regie nella zona. Occupato il Somaliland (estate 1940), il quadro strategico precipitò: la ribellione prendeva vigore, alimentata da Londra, e la controffensiva britannica appariva imminente21. Nel dicembre 1940, gli fu proposto un armistizio separato, ma rifiutò perché avrebbe significato tradire il sovrano, la patria e Mussolini22.
Amedeo è spesso descritto come una personalità autonoma, ma le vicende citate restituiscono lo spaccato di una figura inquadrata nel regime, a cui fu fedele nei passaggi più controversi. Il suo atteggiamento dipendeva da un coacervo di fattori (la formazione militare, l’educazione patriottica, la tradizione familiare), che forse includeva un’adesione tutt’altro che formale al fascismo, ma legata, in buona misura, alla devozione per il duce, come sembra emergere dai resoconti dei colloqui con la moglie del sovrintendente generale britannico in Kenya, Katharine Fannin23. Un’indagine sui diari del duca, di prossima pubblicazione, potrebbe restituire elementi per chiarire questo aspetto.
4. Il mito
Nei primi mesi del 1941, le truppe regie furono travolte dalla controffensiva del contingente anglo-indiano, a cui si unirono le formazioni irregolari etiopi. Il 6 aprile Addis Abeba veniva liberata. Ai resti dei contingenti regi non rimaneva che ritirarsi in vari ridotti. Il duca d’Aosta, alla testa di 7.000 uomini (di cui 3.000 coloniali), ripiegò sul massiccio dell’Amba Alagi, dove confidava di resistere tre mesi, stando alle scorte accumulate24. Lì si sarebbe consumata la battaglia che costituisce il nucleo del suo mito. Prima che la narrazione epica divenisse dominante, alti ufficiali criticarono la scelta25, in seguito giudicata dallo stesso Del Boca «inspiegabile e irrazionale»26. Il gruppo montuoso difettava di difese e non aveva le risorse idriche necessarie al fabbisogno di migliaia di uomini. Vi erano, per di più, alternative migliori, come unirsi ai 40.000 uomini del generale Nasi nel Gondar, che avrebbe capitolato solo in novembre. A condizionare le mosse del duca furono poi, forse, la poca esperienza nel comandare, errori di valutazione (comuni a generali navigati) e una concezione premoderna della leadership, fondata sul carisma e sull’ostentazione delle virtù, ma slegata dalla pianificazione. La scelta ricadde sulla montagna tigrina anche per assicurarsi, nel disastro, una fine memorabile, emulando le gesta del maggiore Pietro Toselli, che nel dicembre 1895 cadde sull’Amba Alagi assieme ai suoi soldati, divenendo così oggetto di una grande celebrazione nazionale.
Il 17 aprile, il duca d’Aosta si ritirò sul gruppo montuoso, che il 1° maggio fu cinto d’assedio. Dapprima sperò di prolungare la resistenza, ma il quadro presto si aggravò: i bombardamenti erano incessanti, i viveri scarseggiavano e mancavano gli spazi per ospitare i feriti. L’8 maggio furono presi contatti per negoziare la resa, frenati dalla ritrosia del viceré a capitolare, che temeva di infangare il suo nome e quello del casato (probabilmente, ebbe un suo peso la memoria del padre, il “duca invitto”). Neppure l’autorizzazione di Mussolini a trattare lo smosse immediatamente. Il tempo perduto nei parlamentari comportò lo spargimento di altro sangue. Alla fine, acconsentì alla resa: a persuaderlo fu, forse, il timore che l’assalto finale sarebbe stato condotto dagli irregolari etiopi, di cui si temevano le rappresaglie.
Il 19 maggio, il contingente regio lasciò il ridotto, transitando davanti al picchetto d’onore anglo-indiano. È tra gli aspetti che più ha alimentato il mito del principe ed è stato evocato anche nel recente dibattito. Nondimeno, è opportuno contestualizzare meglio la vicenda. Gli onori militari furono una delle concessioni, assieme alle garanzie per i suoi uomini, che il viceré ottenne dai negoziati. Dapprima aveva posto l’irrealistica condizione di rimanere sul caposaldo con un presidio sino alla fine del conflitto, cessando ogni attività bellica. I britannici opposero, però, un netto rifiuto. Così, ripiegò su una richiesta più modesta, ma percorribile, che, infatti, gli fu accordata27. Dopotutto, la prassi dell’onore delle armi, seppur di grande valore simbolico, non aveva costi strategici per il vincitore, al contrario consentiva di risparmiare risorse e agevolava il controllo dei catturati nelle fasi successive alla cattura. Alla luce di ciò, senza negare il valore delle truppe regie, l’atto dei comandi britannici non può essere considerato spontaneo e disinteressato. Inoltre, quanto avvenuto sull’Amba Alagi non fu un unicum nel corso della Seconda guerra mondiale. Durante l’invasione della Francia, i tedeschi garantirono simili onori ad alcune guarnigioni arresesi. Proprio nel teatro africano, i britannici omaggiarono più volte gli italiani sconfitti (a Uoghiddi, a Galla Sidama, a El Alamein).
Ad ogni modo, la propaganda fascista cavalcò tale aspetto per addolcire la notizia della disfatta, che preannunciava l’imminente, ma si credeva temporanea, perdita dell’AOI. La sconfitta dell’Amba Alagi divenne oggetto di un culto nazionale, costruito sul parallelo con lo scontro del 1895: il cinegiornale Luce proclamò la montagna «due volte sacra all’Italia»28. Il viceré divenne l’eroe di questo racconto epico. Fu accostato ad altri celebrati personaggi del colonialismo, come Toselli29. La pubblicistica germanica lo paragonò al generale Paul Emil von Lettow-Vorbeck, “leggendario” comandante del contingente tedesco in Africa Orientale durante la Grande Guerra30. Al pari di altri “insuccessi gloriosi” del colonialismo italiano, la commemorazione della sconfitta aveva una duplice funzione: magnificare le virtù guerriere italiane e alimentare la revanche nazionale. Il motto “ritorneremo” campeggiava sulle immagini del duca, risuonava nelle canzoni sulla battaglia31. Di lì a breve, questa retorica avrebbe attinto nuova linfa dalla morte del viceré in prigionia (3 marzo 1942), per il tifo e la malaria. Il regime sfruttò la notizia per demonizzare i britannici e fece del duca un eroe-martire da vendicare. La sua figura fu esaltata in pamphlet e iniziative pubbliche. Gli furono dedicati edifici pubblici, come il Ponte Principe “Amedeo Savoia Aosta” e la Galleria del Gianicolo a Roma, e il Liceo scientifico di Pistoia.
Nel secondo dopoguerra, non soltanto i settori monarchici, gli eredi del fascismo e gli ambienti militari custodirono la memoria di Amedeo d’Aosta. Le stesse istituzioni repubblicane, che non avevano del tutto rinunciato alle aspirazioni coloniali, lo celebrarono, pur avendo bandito i Savoia dai propri confini. Nell’aeroporto di Gorizia, nel 1962, il presidente della Repubblica Antonio Segni inaugurò il Monumento all’Aviatore, un complesso ospitante una statua in travertino alta 5 metri del duca sabaudo, in uniforme da pilota e con il volto simbolicamente rivolto verso l’Africa, attorniata da dieci cippi commemoranti le sue imprese militari (dal Sabotino, nella Grande Guerra, a Cufra, in Libia, fino all’Amba Alagi).
Al di là delle celebrazioni ufficiali, il viceré venne presentato con accenti apologetici anche in film (La pattuglia dell’Amba Alagi, del 1953), in documentari prodotti dalla RAI e in reportage dei giornali patinati32. In essi, il duca era ricordato come un “colonialista buono”, una rappresentazione che ben si accordava col mito del “bravo italiano”. Negli anni successivi, le iniziative commemorative si sono via via rarefatte e la memoria di Amedeo d’Aosta è stata soprattutto coltivata in ambiente militare e dai nostalgici dell’epopea coloniale. Eppure, la rappresentazione romantica e malinconica, dai tratti quasi agiografici, del duca sopravvive. Sotto la coltre di un mito, «nel complesso […] falso, o falsificabile»33, vi è però una vicenda tutt’altro che lineare, con passaggi controversi e oscuri, che un’indagine storica puntuale dovrebbe farsi carico di ricostruire.
Note
1 “Report”, https://www.reportpistoia.com/pistoia-il-liceo-scientifico-amedeo-di-savoia-potrebbe-cambiare-nome-la-proposta/, ultima consultazione: 27 agosto 2022.
2 Francesco Filippi, Noi però gli abbiamo fatto le strade, Torino, Bollati Boringhieri, 2021, pp. 9-15.
3 Stefano Bartolini, Amedeo di Savoia fra mito, storia e memoria pubblica, in “Amici di Passato e Presente”, 4 luglio 2022, https://amicidipassatoepresente.wordpress.com/, ultima consultazione: 23 agosto 2022.
4 Italiacoloniale.com, https://italiacoloniale.com/2022/06/22/petizione-per-non-cambiare-nome-al-liceo-duca-daosta-di-pistoia-firma-anche-tu/, ultima consultazione: 25 agosto 2022.
5 Muore Amedeo di Savoia, in “Il Giorno e la Storia”, Rai Cultura, https://www.raicultura.it/storia/accadde-oggi/Muore-Amedeo-di-Savoia–b603a3b4-713f-4e29-b786-a048d5db24ab.html, ultima consultazione: 23 agosto 2022.
6 Nicola Labanca, Savoia Aosta, Amedeo di, duca d’Aosta, in Dizionario Biografico degli Italiani, 91, Roma, Treccani, 2018.
7 Andrea Merlotti, Savoia Aosta, Emanuele Filiberto di, duca d’Aosta, ivi.
8 Gianni Oliva, Duchi d’Aosta, Milano, Mondadori, 2003, pp. 174-175.
9 Giulietta Stefani, Colonia per maschi. Italiani in Africa Orientale, Verona, Ombre Corte, 2007, pp. 60-62.
10 Nicola Labanca, Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, Bologna, Il Mulino, 2002, pp. 172-175.
11 Sandro Sandri, Il principe sahariano, Roma, Ed. dell’Azione Coloniale, 1933.
12 Angelo Del Boca, Gli italiani in Africa orientale, III, La caduta dell’impero, Bari, Laterza, 1982, p. 377.
13 A. Bollati, Amedeo di Savoia Duca d’Aosta, in “Rivista delle Colonie”, 1942, a. XVI, n. 3, p. 239.
14 Italy: Avalanches; Senussi, in “Time”, 9 febbraio 1931; Federica Saini Fasanotti, Libia 1922 – 1931, Roma, USSME, 2012, pp. 292-294.
15 Labanca, Savoia Aosta, Amedeo, cit.
16 Id., Oltremare, cit., pp. 172-175.
17 Matteo Dominioni, Lo sfascio dell’impero. Gli italiani in Etiopia (1936-1941), Roma-Bari, Laterza, 2012, pp. 210-214.
18 Del Boca, Gli italiani in Africa orientale, III, cit., p. 325.
19 Nicola Labanca, La guerra d’Etiopia (1935-1941), Bologna, Il Mulino, 2015, p. 185.
20 Dominioni, Lo sfascio dell’impero, cit., pp. 243-254.
21 Giorgio Rochat, Le guerre italiane del fascismo, 1935-1943, Torino, Einaudi, 2008, pp. 299-300.
22 Anthony Mockler, Haile Selassie’s War, Oxford, Oxford University Press, 2003, pp. 303-306.
23 Alessandro Pes, British Eyes on the Fascist Empire: il viaggio di Katherine Fannin nell’Africa orientale italiana, in Id. (a cura di), Mare Nostrum. Il colonialismo fascista tra realtà e rappresentazione, Cagliari, Aipsa, 2012, p. 26.
24 Alberto Rovighi, Le operazioni in Africa orientale, II, Documenti, Roma, USSME, 1995, p. 340.
25 Enrico Caviglia, Diario (aprile 1925-marzo 1945), Roma, Casini, 1952, p. 340.
26 Del Boca, Gli italiani in Africa orientale, III, cit., p. 479.
27 Ivi, pp. 491-494.
28 Archivio storico Istituto Luce, Alcune scene retrospettive dell’Amba Alagi, 22 maggio 1941, C014606.
29 Eroismo dei legionari del Duca di ferro, in “Il Legionario”, 1° giugno 1941, n. 11, p. 8.
30 “Rassegna settimanale della stampa estera”, a. XVI, f. 22, 30 maggio 1941, p. 1416.
31 C.M. Errichelli, Ritorneremo, in “L’Impero illustrato”, maggio 1941, a. III, n. 4-5, p. 1.
32 Alfredo Ferruzza, Saliamo sull’Amba Alagi sacra a Toselli e al duca d’Aosta, in “Oggi”, 15 maggio 1958.
33 Labanca, Savoia Aosta, Amedeo, cit.