Il documentario Paura non abbiamo è nato dalla necessità di raccontare una storia perduta nelle pieghe del tempo, che correva il rischio di scomparire per sempre, assieme alla memoria di ciò che hanno realmente rappresentato gli anni Cinquanta. In un’epoca in cui il documentario ambisce a diventare altro, preso nella morsa tra finzione e animazione alla spasmodica ricerca della spettacolarizzazione a tutti i costi, si è voluto prendere le distanze dalle mode del momento per realizzare un documentario di taglio classico, che potesse raccontare quello che fino a oggi nessuno aveva raccontato sui primi anni della Guerra Fredda.
Partendo dalla storia di Anna e Angela, che l’8 marzo 1955 furono arrestate a Bologna e incarcerate un mese per aver distribuito la mimosa, Paura non abbiamo (trailer) narra l’Italia degli anni Cinquanta attraverso le lotte per i diritti delle donne e del lavoro, la repressione poliziesca nei confronti dei lavoratori, i racconti dei prigionieri politici che transitarono nel carcere di San Giovanni in Monte, oggi sede del Dipartimento di Storia Culture Civiltà dell’Università di Bologna. È proprio da lì che è nato il nostro progetto, da quelle fredde celle che oggi sono luoghi di cultura, aule, biblioteche, studi di ricercatori e professori.
Per narrare il lato nascosto degli anni Cinquanta, ancora scarsamente canonizzato dalla grande storia e ormai dimenticato dalla memoria collettiva a causa della progressiva scomparsa dei testimoni di quegli eventi, non è stata casuale la scelta di una piccola storia al femminile. Il medium cinematografico consente di enfatizzare le piccole storie come quelle di Anna e Angela, amplificandone la portata e restituendo loro dignità, al fine di sviluppare una narrazione che, proprio a partire dalle vite d’illustri sconosciute, restituisca le sfaccettature e il significato profondo di un periodo storico particolarmente controverso della nostra nazione come i primi anni della Guerra Fredda.
Le vere protagoniste del film sono le donne, impegnate nella difesa dei propri diritti di lavoratrici e cittadine, interpreti di quell’anomalia bolognese che le vedeva impiegate, spesso al pari degli uomini, anche in importanti fabbriche metalmeccaniche come la Ducati, la Weber, la Giordani. La storia di Anna e le altre riporta alla luce un attivismo femminile diffuso e di massa, largamente ignorato dalla storiografia e rimosso dall’immaginario collettivo che associa le grandi battaglie delle donne unicamente al neo-femminismo degli anni Settanta. La generazione di Anna, dopo l’impegno resistenziale, ha continuato a battersi per ottenere pari diritti nel lavoro e nella famiglia, che la società italiana del dopoguerra continuava a negare loro nonostante l’approvazione di un’avanzatissima Carta costituzionale. È una generazione celebrata per il ruolo nella Resistenza, ma dimenticata quando si è trattato di descriverne l’attivismo politico nell’Italia democratica, che ha indubbiamente posto le basi per la conquista di diritti che hanno trovato piena realizzazione nei lunghi anni Settanta. Le diverse istanze, linguaggi e paradigmi concettuali di una nuova generazione, che ha acquisito piena dignità politica con il Sessantotto ed è divenuta egemonica nel decennio successivo, hanno provocato una rottura insanabile con la generazione precedente, che è così scomparsa dal ritratto collettivo del secondo Novecento.
Costruire una narrazione corale degli anni Cinquanta è stato fin da subito uno degli obiettivi del progetto, per evitare di raccontare ancora una volta una storia parziale. La scelta di rendere le donne protagoniste e gli uomini comprimari, è stata funzionale a offrire una focalizzazione del punto di vista al femminile, senza sgravare il racconto dal ruolo della controparte maschile. Più ci inoltravamo nelle ricerche e nella scrittura, più emergevano singole storie di donne e uomini, spesso intrecciate tra loro, che portavano la narrazione in direzioni nuove, consentendo quel bilanciamento tra i generi che la declinazione reiteratamente al maschile della storiografia ha per lungo tempo impedito. In fase di montaggio, ci siamo resi conto che dividere il film in capitoli, utilizzando come filo conduttore della storia il diario di Anna Zucchini (trasposto sullo schermo grazie alla voce di Camilla Filippi), era il modo migliore per restituire unità a un puzzle, le cui singole tessere vanno gradualmente a ricomporre il quadro di un’era intrisa di paradossi e contraddizioni.
Si è scelto di utilizzare esclusivamente fotografie come materiali d’archivio, perché più emblematiche e puntuali rispetto ai filmati coevi nel raccontare le vicende narrate. Complessivamente, sono state impiegate oltre 250 fotografie d’epoca, la maggior parte delle quali inedite. Molte di queste provengono dall’archivio fotografico dell’Unione Donne in Italia di Bologna e dall’Archivio Storico Sindacale Paolo Pedrelli, nei quali sono state reperite preziose testimonianze iconografiche delle lotte per il lavoro e i diritti, degli scioperi, delle manifestazioni e delle assemblee femminili. Altre provengono dalla Fondazione Gramsci Emilia-Romagna, dalla Fondazione Cineteca di Bologna e dall’Archivio Fotografico dell’Università di Bologna. Delle migliaia di fotografie raccolte in fase di ricerca, che hanno contribuito a gettare le fondamenta della scrittura, si è optato per una selezione che aprisse uno squarcio dettagliato su persone, luoghi ed eventi al centro della narrazione. Cristallizzando l’attimo documentato durante lo scatto, tali fotografie contribuiscono a sottolineare la continuità spaziale dei luoghi della memoria, rimasti architettonicamente immutati ma completamente rifunzionalizzati. Alle carrellate virtuali delle fotografie del passato fanno eco le carrellate negli ambienti al presente, che diventano veri e propri personaggi.
Il risultato, è ciò che può essere al tempo stesso considerato un documentario storico e un film carcerario in assenza, nel quale il carcere è presente unicamente come luogo della memoria. Da questo intreccio tra ricerca storica e recupero della memoria, ha preso le mosse l’esigenza di ritrovare i protagonisti di quegli episodi di repressione ancora in vita e riportarli dentro a quegli spazi – ieri buie celle, oggi luminosi ambienti del sapere – per fissare sullo schermo emozioni e ricordi. Reminiscenze angosciose di privazione della libertà da parte dei testimoni, sono mitigate dal ricordo della straordinaria solidarietà di un’intera comunità, che non mancò mai di far sentire la sua presenza agli attivisti ingiustamente incarcerati, attraverso donazioni di cibo, denaro, beni di prima necessità, ma anche sostegno morale, assistenza legale e tutto ciò che occorreva ad alleviare le sofferenze della vita carceraria.
La memoria di quegli anni è divisiva, l’estrema connotazione ideologica che la caratterizzava si è andata via via perdendo negli anni successivi, e si è preferito rimuovere gli eccessi di quel periodo. All’epoca, Bologna era la roccaforte comunista in Italia e come tale rappresentava una minaccia all’ordine costituito della Guerra Fredda. Le tensioni tra governo centrale e amministrazione comunale sfociarono in una vera e propria repressione poliziesca volta a contenere comportamenti non allineati con il pensiero dominante. È solo prendendo in considerazione l’humus socio-culturale in questione, che si può comprendere come un innocuo fiore come la mimosa sia potuto assurgere a vero e proprio simbolo sovversivo, sinonimo della lotta per l’emancipazione femminile, e incarnazione di quel paradossale scontro ideologico che il governo Scelba condusse colpevolmente verso un’escalation di violenze e privazioni delle libertà individuali, per certi versi paragonabili a quelle perpetrate durante il ventennio fascista.
Il film è stato realizzato in modo completamente indipendente grazie a una campagna di raccolta fondi dal basso che ha visto il coinvolgimento di numerose persone, associazioni, archivi e istituzioni culturali. Ciò ha garantito totale libertà creativa e in un certo senso ha contribuito a ricreare dal punto di vista produttivo quello spirito solidale che caratterizzava i protagonisti degli eventi narrati. Uno dei messaggi che era nostra intenzione far passare, infatti, è l’importanza di unirsi contro le ingiustizie. In un mondo come quello contemporaneo, dove i lavoratori e gli individui in generale sono sempre più soli e abbandonati a se stessi, Paura non abbiamo diviene particolarmente attuale nell’offrire un’alternativa sostenibile alla deriva individualista che stiamo vivendo.
Ciò in parte aiuta a risponde alla domanda: perché proprio oggi un documentario sugli anni Cinquanta? La ragione principale per cui a nostro avviso il film è particolarmente attuale, però, ha a che fare con le inquietanti similitudini tra la situazione della donna oggi e quella di sessant’anni fa: disparità salariale, dimissioni in bianco, erosione crescente dei diritti, ecc. Mostrando quello che è accaduto in passato, il documentario vuole mostrare quello che rischia di succedere nell’immediato futuro, se non si mette un freno alla deregolamentazione selvaggia del mercato del lavoro.
L’esigenza di comunicare un messaggio, andava ovviamente di pari passo con la necessità di far circolare il film il più possibile. È per questo che si è optato per il modello distributivo theatrical on demand, che ci ha consentito di dimostrare che, contrariamente ai luoghi comuni consolidati della distribuzione cinematografica, nell’era di Netflix e della fruizione inscatolata nei monitor di computer e tablet, esiste un pubblico disposto ad andare al cinema a vedere un documentario storico. Il successo di pubblico e l’entusiasmo degli spettatori durante l’uscita in sala nel mese di maggio 2017, che ha toccato 20 città, ci ha spinto a estendere il ciclo di proiezioni fino alla primavera 2018 (info), in una modalità ibrida che mischia nuovi modelli distributivi con il tradizionale e intramontabile passaparola di città in città, che richiede tempo e pazienza, ma può dare enormi soddisfazioni, particolarmente al giorno d’oggi dove i destini di un film vengono decisi dal primo weekend di programmazione, che non lascia scampo ai film non allineati con gli standard commerciali dominanti.
Quando si realizza un film, ci si pone sempre un obiettivo. Nel nostro caso, l’intento principale era restituire dignità al gesto di consegnare la mimosa, risemantizzato dalla banalizzazione della cosiddetta festa della donna, per riportarlo verso il suo significato originario che in Italia accompagna da sempre la Giornata Internazionale della Donna, ovvero: un fiore che ritorna finalmente a essere sovversivo e di lotta, attraverso la potenza e il fascino che solo la narrazione cinematografica sa avere.