Relazione presentata al convegno Musei urbani del ’900 in Italia, prima sessione Interno pubblico, interno privato, la piazza: forma e vita nella città del fascismo, Forlì, Festival “Forlì città del Novecento”, Ex-Gil, 25-26 maggio 2017, promosso dal Comune di Forlì e da ATRIUM-Architecture of Totalitarian Regimes in Urban Managements.
Introduzione
L’attività edilizia che il regime fascista realizzò in tutta Italia fu enorme e coinvolse diversi attori istituzionali: dal Partito nazionale fascista all’Opera nazionale Balilla (poi confluita nella Gioventù italiana del Littorio), dall’Istituto nazionale fascista per la previdenza sociale (INFPS) all’Istituto nazionale delle assicurazioni (INA), dal Ministero delle Finanze a quello delle Poste. Per quanto riguarda gli edifici pubblici il dato quantitativo più impressionante è quello relativo alle Case del Fascio: furono oltre 11.000 quelle che vennero costruite; diverse centinaia le Case del Balilla. Siamo di fronte a un vero e proprio mito del “costruire”, che esprimeva la determinazione a durare e a vincere la sfida del tempo. Dare l’assalto alla storia per creare un “ordine nuovo”, un “uomo nuovo”.
Il progetto politico del fascismo ebbe tra i suoi strumenti più importanti l’architettura. E gli architetti, come altre categorie tecnico-specialistiche: ingegneri, ragionieri, geometri, veterinari, agronomi – ma si pensi anche al mondo dei tecnici impegnati nei settori dei libri e delle biblioteche, delle cose d’arte e degli archivi, quella che oggi definiremmo, nel suo complesso, la materia dei «beni culturali»1 – furono pienamente integrati nel progetto totalitario. Questo non significa, naturalmente, che fossero tutti dei fascisti militanti – anzi, i militanti costituivano generalmente una minoranza –, ma erano in buona misura coinvolti nella “mobilitazione” voluta dal regime, una mobilitazione che trovava espressione nelle forme molteplici dell’intervento pubblico. Molti gruppi professionali appartenenti al mondo dei ceti medi ebbero un ruolo da protagonisti (un gradito ruolo da protagonisti) nelle opere del regime: lavori pubblici, bonifica, e nell’autarchia.
Una delle categorie più coinvolte fu appunto quella degli architetti e urbanisti, grazie alla politica edilizia del regime. La nascita, nel 1930, dell’Istituto nazionale di urbanistica ne sancì il ruolo di primo piano. Il fatto, poi, che esistesse una relativa autonomia stilistica, un certo eclettismo, che non ci fosse un canone stilistico di Stato – in architettura, così come nelle arti figurative, o anche nella cinematografia di quegli anni2 – può essere un dato importante, che interessa giustamente gli storici dell’architettura, gli storici dell’arte, gli storici del cinema, ecc., ma che non consente di delineare una separatezza di questi settori culturali dallo Stato fascista. Da un punto di vista storico-sociale e storico-politico, il dato di fondo è la mobilitazione dall’alto che coinvolse queste categorie professionali avvicinandole al regime, consolidando il consenso del fascismo e il suo radicamento nella società.
Come si legge alla voce “Architettura” nel Dizionario di politica edito dal Partito nazionale fascista nel 1940 – un’opera in quattro volumi fortemente voluta da Benito Mussolini – la “civiltà fascista” prediligeva una “architettura della durata” e una “funzione monumentale” degli edifici pubblici, perché “nell’architettura monumentale, che dura attraverso i secoli, è il simbolo della permanenza dello Stato”. Una funzione politico-pedagogica in grado di agire nel tempo grazie “all’atmosfera che [gli edifici pubblici monumentali] creano intorno a sé”; atmosfera che “modifica a poco a poco il carattere delle generazioni”3. Il fascismo fu dunque posseduto da una vera e propria mania per la monumentalità.
Se pensiamo a questi segnali evidenti, è con un certo ritardo che gli storici del fascismo hanno cominciato a considerare la teorizzazione e la produzione architettonica come un elemento essenziale per comprendere natura e caratteri politico-ideologici del regime mussoliniano. Tale sensibilità si è sviluppata negli studi storici solamente negli ultimi 20-25 anni, a partire, grosso modo, dal lavoro di Emilio Gentile su Il culto del littorio4. Questa evoluzione da parte degli specialisti di storia contemporanea ha permesso anche di creare un dialogo sempre più fertile tra contemporaneisti e storici dell’architettura, all’insegna di una reciproca contaminazione tra ambiti disciplinari prima rigidamente distinti5. E, detto per inciso, lo scambio reciproco tra i due settori di studio è agevolato sicuramente da progetti culturali come quelli promossi da ATRIUM a Forlì.
La più matura storiografia sul fascismo consente di tratteggiare un contesto che aiuta a rispondere alle domande sottese al tema di questo intervento. Il tema centrale è: se e come cambia l’interno dello spazio pubblico con il fascismo. Da cui discendono alcuni interrogativi: come si organizza il rapporto tra cittadino e servizio pubblico? Cambiano le modalità di relazione tra cittadino, istituzioni, servizi? L’edificio pubblico fascista si attesta come presenza e presidio sul territorio? Come cambiano gli edifici di servizio per adeguarsi alle necessità della “nuova vita fascista”? Per cominciare a dare delle risposte conviene fare riferimento a due precisi aspetti del dibattito storiografico. Il primo è l’impegno espresso dagli studi storici in merito al tema della modernizzazione (il fascismo come dittatura moderna); il secondo riguarda gli spunti forniti dalla nuova storia culturale.
Cominciamo dalla modernizzazione. Molti dei fenomeni che si possono incasellare nella generalità della “modernizzazione” riguardano il rapporto tra i membri della collettività e il potere, accrescono relazioni e dipendenze. Un potere accentratore come quello fascista non poteva non essere interessato a molti aspetti della modernizzazione. Peculiarità del fascismo fu il suo sforzo di indebitare massicciamente – per così dire – la società verso lo Stato6, togliendo autonomia ai corpi sociali e capacità di fare in proprio.
Anche l’affermarsi del sistema di welfare coincise in buona misura con il regime fascista. I ceti medi italiani, non diversamente da quelli di altri paesi europei, ottennero pensioni distinte per categoria e mutue nazionali finanziate dagli occupati. La differenza è che queste, alla fine degli anni Venti, non furono conquiste come altrove, ma concessioni fatte da uno Stato totalitario7. Ne è discesa una carenza di alfabetizzazione democratica, una carenza di autonomia dei singoli e dei gruppi, e invece una passiva aspettazione verso l’intervento dello Stato. Aspetto di fondo della società italiana che peserà anche sulla storia dell’Italia repubblicana.
Con ogni probabilità, nel corso degli anni Trenta, l’erogazione di servizi assicurati e di routine realizzata da una dittatura moderna (quale fu il fascismo) determinò nella cittadinanza uno spostamento di rilievo delle attese di uguaglianza dal piano giuridico e politico a quello della sicurezza sociale: assistenza al posto di libertà. È questa la gerarchia di valori comunemente accettata che sembra caratterizzare i cosiddetti “anni del consenso”. Da tale angolatura, il fascismo si presenta, dunque, come un nuovo sistema di dominio composto di burocrazie di servizio e di clientele sociali8. Tutto ciò ha inciso pesantemente sul rapporto tra cittadino e servizio pubblico e sulle modalità di relazione tra cittadino, istituzioni e servizi.
1. Palazzi delle poste, uffici statali, sedi INFPS e INA
Lo spazio pubblico del fascismo è da intendersi non come puro e semplice sfondo e palcoscenico dove sono messi in scena gli eventi, ma come principio attivo, protagonista stesso dei processi di costruzione delle identità sociali. È uno spazio che educa, che irreggimenta. Spazio, dunque, dove entrano in gioco forze sia materiali che simboliche.
Il nuovo edificio degli Uffici statali di Forlì, realizzato nel periodo 1934-38, venne pensato come un edificio svettante che assumesse il valore di vero e proprio segnale urbano, in maniera analoga alle torri del vicino Palazzo delle Poste, progettato anch’esso da Cesare Bazzani alcuni anni prima (1931-32). C’era il proposito dichiarato di innalzare e di fornire slancio maggiore al panorama urbano forlivese, altrimenti caratterizzato da uno sviluppo altimetrico piuttosto ridotto. Gli Uffici statali forlivesi vennero così dotati di una monumentalità degna di una dimensione urbana pienamente sviluppata, portando in provincia – nella “provincia del duce” – l’aura della capitale.
Si è accennato al Palazzo delle Poste di Forlì, di cui è utile mostrare qui l’ampia sala semicircolare destinata al pubblico. I palazzi postali del fascismo sono imponenti, ricchi anche sotto il profilo figurativo e dell’alto artigianato artistico. Un aspetto non trascurabile risiede nel fatto che ministro delle Poste e Comunicazioni per oltre dieci anni, dal 1924 al 1934, fu Costanzo Ciano, uomo forte del regime. È ben noto e studiato l’esempio del Palazzo delle Poste di Brescia9, ma sono molti gli esempi che si potrebbero fare. Un servizio di routine, come quello postale, si sarebbe potuto benissimo collocare all’interno di edifici semplici e neutri, e invece proprio la dimensione quotidiana del servizio postale, il rapporto assiduo tra cittadino e servizio pubblico, doveva acquisire per il fascismo una dimensione solenne attraverso pannelli decorativi, statue, busti del duce, plafoniere fitomorfe, sapienti giochi di luci con i lucernari e altre forme di “arte di Stato”.
Burocrazie di servizio e cittadini si dovevano incontrare in spazi imponenti. Nella planimetria della sede forlivese dell’Istituto nazionale fascista di previdenza sociale si individuano facilmente il “salone del pubblico” e il “salone disoccupati”, ognuno dei quali fronteggiato dagli sportelli degli impiegati, e l’ampio archivio per i fascicoli personali e le varie pratiche previdenziali. A conferma, seguono due immagini relative al palazzo della previdenza sociale di via Roma a Torino e alla sede INA di Brescia, esempio di un’architettura intesa come “arte di Stato”, per usare le parole dello stesso Piacentini, progettista dell’opera.
La riflessione sulle connessioni tra spazio e potere, sollecitata dalla nuova storia culturale (la cui importanza si richiamava nell’Introduzione), ha favorito la consapevolezza che lo Stato totalitario si esprime, si legittima, trasformando il paesaggio urbano.
2. Case del Fascio e del Balilla
Durante il fascismo, la struttura, la collocazione urbanistica e l’estetica degli edifici pubblici erano definite non solo ai fini della loro funzionalità burocratica, ma anche della loro funzionalità pedagogica e propagandistica. Questa connessione trovò la sua massima realizzazione nelle Case del Fascio. Specie negli anni Trenta, sollecitando le federazioni alla raccolta dei necessari finanziamenti, il Partito nazionale fascista si impegnò a dare impulso alla costruzione delle Case del Fascio, che dovevano esaltare il suo ruolo predominante nella vita pubblica, riunendo sul territorio in una sede unitaria tutte le organizzazioni del partito. Da qui l’importanza della stretta connessione dei due aspetti: funzionale e simbolico, e la conseguente elaborazione di un modello progettuale e di una prassi costruttiva capaci di coniugare rappresentazione ideologica e utilitarismo funzionale.
Oltre che sede degli uffici del partito, la Casa del Fascio doveva essere il centro della vita politica e sociale, luogo di venerazione del culto dei martiri e scuola di indottrinamento nei dogmi della religione fascista. Tra gli aspetti simbolici aveva particolare spicco, come segno di comando, la “torre littoria” evocatrice delle torri comunali del medioevo, con la campana civica, diretta a rivaleggiare con il campanile delle chiese. Le ampie finestrature, le grandi vetrate, che solitamente caratterizzavano questi edifici, richiamavano la metafora mussoliniana del fascismo come “casa di vetro” e volevano dare l’immediata percezione della piena integrazione del partito nella società e della diretta comunicazione fra massa e capi.
Da un punto di vista ideologico suggerire questa comunicazione diretta e immediata (tra interno ed esterno, tra il corpo sociale e i dirigenti) era fondamentale, poiché, a differenza delle Case del popolo fondate tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento dal movimento socialista, che erano finalizzate a trasformare la plebe in classe con forme di socialità autonome e autogestite, le Case del Fascio dovevano suggerire un’ordinata, disciplinata e trasparente gerarchia che faceva capo a un condottiero, nel caso specifico il segretario federale.
Accanto alle Case del Fascio, un’altra tipologia edilizia inventata dal fascismo è la Casa del Balilla. Sia sulle Case del Fascio che su quelle del Balilla il regime investì molto per concretizzare un piano di capillare fascistizzazione del territorio nazionale. Come noto, l’Opera nazionale Balilla nacque nel 1926 come ente per l’assistenza e l’educazione fisica e morale della gioventù. Nelle Case del Balilla la gioventù doveva avere il primo avviamento all’attività fisica. L’obiettivo era estendere una fitta rete organizzativa e di controllo sul tempo libero giovanile. E per dotare i giovani fascisti di strutture aggregative fu prevista la costruzione di una Casa del Balilla in ogni centro abitato o comprensorio di importanza significativa. Per fare un esempio, nell’attuale provincia di Forlì-Cesena case del Balilla o della GIL vennero pensate e costruite a Forlì, Forlimpopoli, Predappio, Savignano sul Rubicone (tutte progettate da Cesare Valle), e poi a Cesena e Mercato Saraceno. Nel complesso, furono alcune centinaia a livello nazionale.
3. Edifici funzionali e strutture dedicate all’infanzia
L’ultima parte di questo intervento è dedicata agli edifici funzionali (università, scuole, asili, colonie, ecc.), a proposito dei quali ci si concentrerà soprattutto su quelli dedicati all’infanzia e, precisamente, asili e colonie elioterapiche, perché qui emerge, con grande evidenza, un altro tema fondamentale dell’architettura e dell’urbanistica durante il fascismo: la dimensione intensiva, di massa10.
La dimensione intensiva – un autentico assillo per la quantità – si ritrova anche in strutture di grande qualità architettonica, come l’Asilo Sant’Elia di Como, considerato il capolavoro di Giuseppe Terragni. Un edificio a un piano solo, perfettamente integrato nel verde circostante, che non ha nulla di monumentale, ma che all’interno, nelle misure tridimensionali del refettorio e delle aule, ognuna delle quali era pensata per 50 bambini, rivela quell’approccio massivo di cui si diceva. La funzione pedagogica dell’edilizia scolastica propria dell’epoca fascista mirava a infondere i primordiali concetti della disciplina: in quegli ambienti così ampi, che oggi considereremmo troppo grandi per una corretta attività didattica rivolta ai bambini, lo Stato incominciava a “plasmare il futuro soldato”, inquadrandolo fin da allora in compatta schiera. Erano queste, grosso modo, le parole usate nella nota redazionale che presentava l’asilo di Terragni all’interno del numero di “Casabella” del giugno 1940, mese nel quale l’Italia entrava nella Seconda guerra mondiale.
Le mutate esigenze pedagogico-educative, fortunatamente cambiate rispetto agli anni Trenta e oggi non più armonizzabili con i grandi spazi interni di queste strutture, rappresentano una delle ragioni che hanno portato nel 2011 alla chiusura dell’Asilo Santarelli di Forlì, di cui si mostra qui una planimetria del piano terra con il ricreatorio, il refettorio e le grandi aule. L’edificio è attualmente oggetto di un progetto di recupero e rifunzionalizzazione che lo trasformerà in biblioteca moderna, centro di interpretazione per la conoscenza del Novecento e laboratorio urbano di innovazione sui temi della cultura e del turismo.
Conclusioni
L’architettura fu uno degli strumenti più importanti del progetto politico del fascismo. Agli edifici pubblici, in particolare, venne assegnata una funzione monumentale, nel quadro di un sistema di dominio composto da burocrazie di servizio e da clientele sociali. Il rapporto assiduo e di routine con il servizio pubblico (nei palazzi delle poste, negli uffici statali, nelle sedi INFPS e INA) assunse una dimensione solenne in spazi imponenti arricchiti da numerose forme di “arte di Stato”. Le ampie finestrature, le grandi vetrate, che caratterizzavano soprattutto le Case del Fascio e del Balilla intendevano rappresentare l’immagine della piena integrazione del fascismo nella vita sociale. Dall’esame degli edifici funzionali emerge, infine, la dimensione intensiva, di massa, particolarmente evidente nelle strutture dedicate all’infanzia: asili e colonie elioterapiche. Le misure tridimensionali di refettori, ricreatori e aule richiamavano una funzione pedagogica tesa a infondere i primordiali concetti della disciplina militare.
La politica architettonica costituisce uno dei più duraturi successi del fascismo, forse addirittura il più importante. Lo confermano la qualità delle costruzioni progettate e realizzate in quegli anni, le capacità professionali di molti dei suoi protagonisti, il disegno, sostanzialmente riuscito, di Mussolini e del fascismo di parlare ai contemporanei e ai posteri attraverso l’architettura. Indubbiamente la sopravvivenza di queste architetture, segni di un progetto interrotto di totalitarizzazione della società, pone ipoteche anche sulla memoria delle generazioni future. Come è stato notato, “molti italiani tornano a subire una rinnovata fascinazione per le città e i palazzi ‘costruiti dal duce’, che li introduce verso un giudizio tendenzialmente assolutorio nei confronti di un passato, in parte defascistizzato”11.
La conoscenza critica del passato è una delle questioni sulle quali ATRIUM si sta misurando con impegno da alcuni anni. Un contributo al dibattito potrebbe venire anche dall’approfondimento delle alternative presenti nel dibattito italiano ed europeo. E se monumentalità, compattezza, intensività, dimensione massiva caratterizzano la forma e la vita della città del fascismo; decentramento, diradamento, autonomia sono invece le parole d’ordine di altre idee di città sviluppatesi, ad esempio, nell’ambito del municipalismo democratico e socialista di inizio Novecento, poi riprese nella seconda metà del XX secolo dall’idea di un’urbanistica “libertaria” e di una “città sociale” intesa come intreccio di comunità12. A testimonianza della battaglia politica e culturale che si è sempre giocata sugli spazi urbani.
Note
1 Carlo De Maria, Le biblioteche nell’Italia fascista, Milano, Biblion, 2016.
2 Il riferimento è al Convegno sul Cinema del fascismo realizzato nell’ambito del Festival “Forlì città del Novecento” il 22 aprile 2017. Gli atti usciranno entro la fine del 2017, a cura di Gianfranco Miro Gori e Carlo De Maria (Bradypus Editore).
3 Antonio Pagliaro, Architettura, in Dizionario di politica, a cura del Partito nazionale fascista, vol. I, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1940. Pagliaro, filosofo del linguaggio già redattore capo dell’Enciclopedia Italiana, era il direttore dell’intera opera. Il fatto che riservasse per sé questo lemma conferma l’importanza che i temi legati all’architettura rivestivano all’interno del Dizionario di politica del fascismo.
4 Roma-Bari, Laterza, 1993. Dello stesso Gentile, Fascismo di pietra, Roma-Bari, Laterza, 2007. Si vedano, inoltre, una serie di volumi e articoli di Vittorio Vidotto su Roma nell’età contemporanea, dove si tematizza la trasformazione dello spazio pubblico realizzata dal fascismo: V. Vidotto, Roma contemporanea, Roma-Bari, Laterza, 2001; Id., La capitale del fascismo, in Roma capitale, a cura di V. Vidotto, Roma-Bari, Laterza, 2002, pp. 379-413; Id., La Roma di Mussolini, in Modernità totalitaria. Il fascismo italiano, a cura di E. Gentile, Roma-Bari, Laterza, 2008, pp. 159-170.
5 Molto utile la messa a punto sul tema di Francesco Bartolini, Architettura e fascismo. Temi e questioni storiografiche, in “Passato e Presente”, 2009, n. 78, pp. 125-137. Sul versante della storia dell’architettura: Giorgio Ciucci, Gli architetti e il fascismo. Architettura e città, 1922-1944, Torino, Einaudi, 1989; P. Nicoloso, Mussolini architetto. Propaganda e paesaggio urbano nell’Italia fascista, Torino, Einaudi, 2008; R. Capomolla, M. Mulazzani, R. Vittorini, Case del Balilla. Architettura e fascismo, introduzione di E. Gentile, Milano, Electa, 2008. Si vedano anche: F. Mangione, Le Case del Fascio in Italia e nelle terre d’oltremare, Roma, Ministero per i beni e le attività culturali-Direzione generale per gli archivi, 2003; Le case e il foro. L’architettura dell’Onb, a cura di S. Santuccio, Alinea, Firenze 2005; L’architettura delle Case del Fascio, a cura di P. Portoghesi, F. Mangione e A. Soffitta, Firenze, Alinea, 2006.
6 Luciano Cafagna, Una revisione necessaria, in Il fascismo e gli storici oggi, a cura di J. Jacobelli, Roma-Bari, Laterza, 1988, p. 24.
7 Mariuccia Salvati, Cittadini e governanti. La leadership nella storia dell’Italia contemporanea, Roma-Bari, Laterza, 1997, pp. 106-107.
8 M. Degl’Innocenti, La società unificata. Associazione, sindacato, partito sotto il fascismo, Manduria-Bari-Roma, Lacaita, 1995, p. 117.
9 Cfr. Carlo Melograni, Architettura italiana sotto il fascismo, Torino, Bollati Boringhieri, 2008.
10 Si tratta di una caratteristica che trovò espressione anche nell’edilizia abitativa. Negli anni Venti e Trenta, si affermò il modello della città compatta con edifici multipiano (appartamenti disposti, intensivamente, in edifici di almeno 4-5 piani); si andava, cioè, verso una standardizzazione tipologica che permettesse di risolvere il problema della casa per le masse. Nei decenni precedenti, invece, specie negli ambienti del riformismo democratico e socialista in Italia e non solo, era stata in auge una tipologia abitativa decentrata, ritenuta ideale per favorire la libertà e l’autonomia personale: abitazioni di 1-2 piani, con piccolo giardino, disposte a schiere diradate. L’ispirazione veniva dall’idea anglosassone della città-giardino. Tra i protagonisti di questo dibattito, il forlivese Alessandro Schiavi, figura di rilievo del riformismo municipale di inizio Novecento, in particolare sui temi dell’edilizia sociale, che egli coltivò nella Milano radicale e socialista di inizio Novecento. Cfr. C. De Maria, Alessandro Schiavi. Dal riformismo municipale alla federazione europea dei comuni. Una biografia: 1872-1965, Bologna, Clueb, 2008.
11 Paolo Nicoloso, Mussolini architetto: propaganda e paesaggio urbano nell’Italia fascista, Torino, Einaudi, 2011, pp. 280-281, 284.
12 Il riferimento è, qui, alle riflessioni di Colin Ward, architetto e urbanista anarchico inglese, scomparso pochi anni fa. Sotto la scorta di una lunga tradizione di pensiero libertario, Ward ha riflettuto sulla “città sociale” intesa come intreccio di comunità e su una urbanistica “decentrata” rispettosa dell’autonomia dei singoli e dei gruppi, sviluppando a partire da qui un vero e proprio discorso politico, tutto teso all’ampliamento progressivo di quelle “sfere di azione libere” già radicate nella nostra società: mutuo soccorso, associazioni volontarie, forme di decentramento sociale e politico, reti di relazioni informali, temporanee e autogestite improntate a uno spirito di aiuto reciproco e di cooperazione. A questo proposito, si veda almeno C. Ward, La pratica della libertà. Anarchia come organizzazione, Milano, Elèuthera, 1996 [1973].