Cerchi, cesti o canestri? Pallacanestro o basket a Bologna dal fascismo all’americanizzazione

Introduzione

Nel Novecento i governi e i regimi hanno utilizzato lo sport per plasmare a propria immagine la società di massa. Le competizioni riservate ai professionisti hanno richiamato attenzioni crescenti, influenzando i gusti del pubblico e condizionando perfino le relazioni internazionali. Al tempo stesso lo sport è stato inserito nei programmi educativi rivolti agli studenti e ai giovani. La pratica delle attività ginnico-atletiche si è dunque diffusa tra le masse, talvolta come passatempo e in altri casi come addestramento pre-militare. Le politiche sportive forniscono dunque elementi per osservare l’evoluzione dei contesti nazionali e la costruzione del consenso.   

Nel 2012, avviando una ricerca sul ruolo del basket in Italia dal fascismo al secondo dopoguerra, ho affrontato un terreno poco esplorato dalla ricerca accademica. Il rapporto tra i cestisti e l’ideologia fascista si perdeva nell’ombra; eppure gli almanacchi raccontavano che la Federazione e alcune manifestazioni agonistiche nacquero negli anni Venti e proseguirono fino alla Seconda guerra mondiale. Ho dunque deciso di circoscrivere l’indagine a una realtà cittadina particolarmente rilevante per il movimento cestistico. Quale rapporto si delineò tra la pallacanestro dei pionieri e l’ideologia fascista nella Bologna di Leandro Arpinati? Perché già alla fine degli anni Quaranta la passione per lo sport più legato all’American way of life si è diffusa tra le masse proprio nella «città rossa» per eccellenza?

Per cercare risposte a questi interrogativi, dovevo rompere il silenzio con cui la critica storica del secondo dopoguerra aveva avvolto l’universo sportivo. Per raffinare gli strumenti d’indagine, ho cercato spunti analitici nei recenti lavori di analisi sul calcio, sul ciclismo e sul movimento olimpico. Ho poi recuperato le principali opere a stampa dell’educazione fascista, oltre alle pagine sportive dei quotidiani, periodici e almanacchi bolognesi fra gli anni Venti e la Seconda guerra mondiale. Mi sono posto l’obiettivo di inquadrare i meccanismi della propaganda fascista e le politiche sociali del secondo dopoguerra da una prospettiva inedita, portando inoltre alla luce informazioni sulla storia della pallacanestro bolognese.

 

Nascita e primi sviluppi del basket-ball

Il mattino del 21 dicembre 1891 James Naismith, professore di educazione fisica allo Springfield College, si trovò costretto a tenere la lezione all’interno della palestra. In condizioni normali i ragazzi avrebbero giocato a football o a baseball nelle squadre di ateneo, riempiendo così le ore degli esercizi atletici, ma nel Massachussetts quell’inverno era troppo rigido e nevoso per aprire i campi di allenamento. Per evitare che l’inattività rendesse meno competitivi i giocatori, Naismith doveva inventarsi una soluzione dinamica e coinvolgente. Ispirandosi al “pok-ta-pok”, un antico gioco delle civiltà precolombiane, fissò due cesti di pesche sulle pareti della palestra, ad un’altezza di 10 piedi (3,05m); divise poi gli studenti in due squadre, incaricandoli di collaborare per gettare un pallone sferico nel canestro avversario. Con ogni probabilità il professor Naismith non aveva pensato che nel giro di pochi anni quell’esercizio di allenamento sarebbe diventato uno sport vero e proprio, chiamato basket-ball. La flessibilità delle regole, l’assenza di contatto fisico, l’approccio collettivo e il divertimento dei partecipanti garantirono al nuovo gioco un successo straordinario nel mondo universitario, diffondendone la pratica in tutti gli Stati Uniti.

Fin dall’inizio del Novecento i missionari della Young men’s christian association portarono il basket-ball in Europa. I “pionieri” italiani ed europei erano educatori vicini alla cultura statunitense, che adattarono i principi di James Naismith alle loro esigenze. La professoressa senese Ida Nomi mostrò il lato non agonistico di quella disciplina e la trasformò in un esercizio ginnico adatto alle ragazze della polisportiva Mens Sana. Nel 1907, presentando l’esibizione delle allieve al Concorso ginnico nazionale di Venezia, definì il loro numero “palla al cerchio”. Anche il professor Guido Graziani, che aveva studiato alla Niagara University e lavorava per l’esercito, insistette sugli aspetti ludici e competitivi per diffondere il gioco fra i militari. Per distinguersi dall’interpretazione ginnica della professoressa Nomi, Graziani identificò la sua versione del basket-ball con la traduzione “palla al cesto”.

Durante la Grande Guerra i soldati dell’Intesa avrebbero conosciuto ancora meglio il basket-ball. Già nel 1917 l’esercito statunitense portò nelle retrovie dei fronti europei le attività sportive e ricreative più adatte a rinfrancare il morale dei reparti. La cessazione del conflitto segnò la nascita delle manifestazioni agonistiche in Europa: le squadre nazionali delle potenze vincitrici si sfidarono nei giochi di Joinville-Le-Pont per sancire la loro amicizia; nel 1919 anche in Italia alcuni reduci del fronte gettarono le basi del campionato nazionale e dei primi tornei cestistici. Dal momento che non era ancora nata una federazione internazionale con il compito di stabilire e presidiare il patrimonio tecnico del basket-ball, i regolamenti applicati nei vari paesi erano diversi fra loro. Non c’era nemmeno un accordo sulla traduzione di basket-ball, poiché la natura adattabile e informale del gioco ne favoriva l’assimilazione e l’integrazione nei contesti nazionali, aprendo possibilità di ibridazione linguistica e culturale. Fu la diffusione globale delle attività a stimolare la creazione delle istituzioni che avrebbero guidato l’idea del professor Naismith verso l’ingresso nel movimento olimpico.       

 

La pallacanestro nello sport fascista

In quegli stessi anni, mentre i popoli europei facevano i conti con gli squilibri sociali e geopolitici del dopoguerra, l’Italia conobbe l’ascesa del fascismo. Le camicie nere esasperarono la tendenza ad additare e aggredire il nemico interno, accattivandosi favori trasversali fra la rabbia e il disorientamento di coloro che si sentivano da una parte traditi dalla classe dirigente e dall’altra minacciati dalla rivoluzione socialista. Raggiunto il potere, il Partito nazionale fascista impose un sistema ideologico che esaltava la “giovinezza” e l’arditismo in una chiave prima nazionalistico-etnocentrica, poi sempre più apertamente razzista.

L’educazione fisica divenne un pilastro delle politiche giovanili mussoliniane. La propaganda del PNF riconduceva l’atletica e gli esercizi ginnici all’eredità spirituale degli antichi romani. Tuttavia il regime non tollerava le ingerenze o le contaminazioni straniere: si profilavano tempi difficili anche per le discipline sportive britanniche e statunitensi, tanto apprezzate per la pratica collettiva e il coinvolgimento dei partecipanti in chiave ludica. Se al foot-ball, già troppo radicato per sparire dalla scena, bastò accettare una “risciacquatura in Arno” e farsi chiamare “calcio”, altri sport rischiavano di essere messi al bando per ragioni ideologiche.

Fra i primi della lista si distingueva il basket-ball. Quello inventato dal professor Naismith non era soltanto un gioco di origine straniera, ma diffondeva anche un approccio non violento all’agonismo, poiché bandiva il contatto fisico e non consentiva agli atleti più forti di spiccare grazie alla supremazia dei loro corpi. I praticanti e gli appassionati di storia militare avevano cercato di dare alla storia del gioco connotati più marcatamente italici; eppure la logica inclusiva del regolamento e la filosofia di autodeterminazione del singolo all’interno della squadra cozzavano con il pensiero fascista, che prediligeva discipline più inclini alla formazione di rapporti gerarchici, all’educazione all’obbedienza e alla disciplina.

Intanto gerarchi, ministri e giornalisti esaltavano i trionfi della «nazione sportiva» alle Olimpiadi e ai Campionati mondiali di calcio. I successi sui campi misero dunque in ombra l’obiettivo che animava gli ideologi del fascismo nel lungo periodo. Mentre calciatori, ciclisti e atleti olimpici rubavano le scene e gli obiettivi dei fotografi, le nuove generazioni si preparavano per formare la «nazione guerriera». Da una parte i «balilla» e gli «avanguardisti» faticavano sui campi di gara per vincere su quelli di battaglia, da un’altra – rigidamente separata da quella maschile – le «piccole italiane» preparavano i corpi per generare i soldati del domani. Gli educatori erano convinti che le ragazze non avessero bisogno dell’agonismo: la partecipazione delle atlete alle rassegne internazionali, avversata anche dal barone De Coubertin, fu ammessa solo in casi eccezionali, come quelli delle sprinter bolognesi Ondina Valla e Claudia Testoni. Neppure l’educazione fisica fascista ruppe il modello dell’esclusione di genere: mentre i ragazzi giocavano e gareggiavano, le ragazze dovevano semplicemente muoversi e allenarsi. Le educatrici misero al bando i contatti fisici, poiché lo sport femminile era uno strumento a sostegno della fertilità. Quale attività di gruppo poteva rinforzare i corpi delle ragazze senza pericoli meglio della palla al cesto? Se l’universo marziale delle attività ginniche maschili ripudiava il gioco del professor Naismith, le ragioni dell’eugenetica lo ripescavano per rimpolpare il novero delle discipline femminili. Nelle organizzazioni delle “Piccole” e delle “Giovani italiane” nacquero parecchie squadre, che si sfidavano nelle ore destinate all’addestramento fisico e alle attività ricreative. Ho ricostruito sinteticamente queste vicende nell’articolo Storia dello sport nel fascismo: le donne e la nascita del basket, pubblicato sul blog Allacciati le storie.  

Nel frattempo il gioco rischiava di scomparire dal novero delle discipline maschili. Fu l’intervento di Giorgio Asinari, Conte di San Marzano, a “salvarlo”, fornendo ai giocatori e agli appassionati gli strumenti ideologici e logistici necessari per l’adeguamento all’ideologia fascista. Il nuovo Presidente della FIP ribattezzò la creatura di Naismith “pallacanestro” e la inserì nel sistema sociale fascista servendosi dell’apporto delle organizzazioni giovanili e dopolavoristiche del regime. Pur non arrivando mai neppure lontanamente vicino alla popolarità del calcio e del ciclismo, il gioco si diffuse nelle città grazie alla rete dell’Opera nazionale balilla. Una delle comunità più ricettive fu quella di Bologna, che non a caso nel secondo dopoguerra sarebbe diventata una realtà di riferimento per il movimento cestistico.

 

La pallacanestro e lo sport a Bologna negli anni del fascismo

A Bologna gli educatori sportivi dell’Opera nazionale balilla – divenuta nel 1937 Gioventù italiana del littorio – diffusero la pallacanestro fra i giovani. La realtà felsinea mostrò che il significativo decollo della popolarità del gioco fra i ragazzi avvenne negli anni Trenta, quando gli insegnanti di educazione fisica avevano bisogno di nuovi passatempi collettivi con cui allenare centinaia di ragazzi. La pallacanestro si prestava perfettamente allo scopo, poiché non richiedeva attrezzature particolarmente costose, si giocava in un campo relativamente piccolo e faceva sentire coinvolti tutti i partecipanti alle attività di gioco. Lo sviluppo dei tornei scolastici diede linfa anche al movimento federale, che sfruttò il volano propagandistico offerto dall’ONB. Alla vigilia del secondo conflitto mondiale, molti ragazzi bolognesi conoscevano la pallacanestro per averla praticata tra le file dei Balilla. Sostenendo la superiorità dello “Stato etico” sugli individui, i maestri fascisti esaltarono lo spirito cameratesco e il sacrificio che il singolo giocatore doveva compiere per il bene della squadra, determinanti per la preparazione collettiva degli sforzi bellici.

Fin dalla metà degli anni Venti, all’attivismo degli istituti scolastici, si aggiunsero gli interessi sportivi del gerarca Leandro Arpinati. Animato da idee economiche liberiste e dal desiderio di proporre un’alternativa alla leadership di Mussolini, si mostrò ben presto determinato ad acquisire prestigio politico attraverso il fascino dei successi agonistici. In qualità di presidente della Federazione italiana giuoco calcio contribuì alla crescita del Bologna Football Club: appoggiò, ad esempio, il progetto dello Stadio littoriale, intorno al quale sorse un sistema di impianti sportivi all’avanguardia per gli anni Trenta. Dopo aver ostacolato e in molti casi sciolto le società legate al pensiero socialista, incoraggiò gli atleti rimasti senza club a entrare nella “Bologna Sportiva”, un sodalizio che doveva ripetere le gesta del Bologna Football Club in tutte le discipline esistenti. I dirigenti fascisti convinsero il presidente della Società di educazione fisica Virtus ad aderire al progetto di Arpinati, inserendo i suoi uomini nella nuova “casa comune” dello sport felsineo. Tuttavia il matrimonio di convenienza fra il sodalizio ginnico-atletico della borghesia liberale e la creatura della municipalità fascista non durò a lungo, poiché nel 1933 Arpinati cadde in disgrazia e fu esautorato. Da quel momento, la Virtus ereditò il ruolo di guida dell’intero movimento bolognese e fu “adottata” dalle autorità del regime.

A metà degli anni Trenta la sezione cestistica della Virtus dovette affrontare parecchie difficoltà, poiché molti giovani di talento preferivano giocare per le squadre dei loro licei o del GUF. Anche la concorrenza di altri sodalizi ostacolava la formazione di compagini competitive, distribuendo gli atleti più dotati tra le file dei club rivali. Sulla scena sportiva muoveva i primi passi anche la Società ginnastica Fortitudo, nata dall’Opera dei ricreatori cattolici. Mantenendo un approccio particolarmente attento all’educazione cristiana dei giovani, questo sodalizio arrivò a iscrivere le proprie squadre ai campionati più importanti, ma la precarietà dell’organizzazione sportiva e alcuni contrasti con gli enti morali del regime fascista non lo portarono a conseguire risultati particolarmente rilevanti. Sul finire del decennio, invece, la Virtus formò una delle squadre migliori d’Italia e contribuì a diffondere l’amore per il gioco fra le masse, richiamando folle crescenti di spettatori in occasione dei match di campionato.

 

Il secondo dopoguerra: il ruolo dello sport nella costruzione della democrazia

Le disfatte del Regio Esercito nella Seconda guerra mondiale segnarono il crollo del regime fascista. Dopo l’armistizio con gli anglo-americani e l’occupazione nazista, una parte del popolo organizzò la Resistenza, contribuendo attivamente alla liberazione del Paese. Gli statunitensi, che avevano avuto un ruolo fondamentale nella Campagna d’Italia, s’impegnarono a inserire la penisola nella propria sfera di influenza. Mentre gli aiuti dell’European recovery program sostenevano la ripresa economica delle nazioni aderenti all’alleanza atlantica, la diffusione dell’American way of life mirava a fidelizzare le comunità dell’Europa occidentale allo stile di vita statunitense.

La supremazia della bandiera a stelle e strisce sarebbe stata più sicura se l’entertainment d’Oltreoceano avesse reso più eccitanti le esistenze degli uomini comuni. Oltre a Hollywood, già decisiva per plasmare i sogni e l’immaginario collettivo dei popoli, la classe dirigente degli Stati Uniti poteva esportare il basket-ball, l’unico sport della cultura americana adatto a una diffusione planetaria. Proprio come l’Impero britannico dell’età vittoriana aveva utilizzato il calcio per veicolare la propria immagine di cultura dominante, così i militari e gli uomini d’affari statunitensi portarono il basket in giro per il mondo.

Nell’Italia del secondo dopoguerra la “rossa” Bologna divenne subito il principale centro propulsivo del basket nazionale. A favorire l’affermazione del gioco contribuirono la capillare diffusione della sua pratica a livello scolastico e la passione dei bolognesi, che non smisero di frequentare i campi e si legarono ben presto alle principali squadre della città. Nella stagione 1946 la Virtus si ritrovò prima epurata per il passato filo-fascista del presidente, poi riabilitata grazie ai provvedimenti di amnistia alla vigilia della final-four per l’assegnazione dello scudetto. All’ultimo atto del campionato si era intanto qualificata un’altra formazione bolognese, la Società ginnastica Fortitudo, che aveva accolto tra le proprie file molti giocatori della Virtus. Poco prima delle finali, alla luce degli sviluppi giudiziari, la dirigenza della Fortitudo decise di lasciare il proprio posto alla Virtus, che vinse così il primo scudetto della propria storia. Negli anni successivi alcuni grandi giocatori e tecnici statunitensi arrivarono sotto le Due Torri per insegnare la tecnica e la tattica alle decine di ragazzi che affollavano la Sala Borsa, la storica piazza coperta della città, che ospitava sia le contrattazioni economiche, sia le partite di pallacanestro, oltre ad altri eventi sportivi (la foto di apertura dell’articolo, scattata in Sala Borsa nel secondo dopoguerra, è tratta da Virtuspedia on line, ndr).

Alcuni bolognesi si trovarono allo stesso tempo in prima linea nelle battaglie ideologiche del PCI e in prima fila sulle “tribune” del primo tempio cestistico felsineo, dove le partite di quello che era diventato il più noto tra gli sport statunitensi appassionavano intere generazioni di cittadini. La pallacanestro consentiva ai giovani di esprimere la loro vitalità e, in un certo senso, lasciava intravedere che i due poli della Guerra Fredda potevano trovare un terreno comune, uno spazio di dialogo estraneo alle logiche atomiche. Anche i sovietici avevano, infatti, conosciuto l’universo cestistico, adattando il gioco ai principi di uguaglianza e sacrificio collettivo tipici del pensiero marxista per contrastare l’approccio individualistico dei maestri statunitensi. Gli italiani, e i bolognesi in particolare, si illusero di poter tracciare una “terza via” tra le due interpretazioni esistenti; negli anni Cinquanta, il panorama felsineo vide la comparsa di parecchie squadre, che raggiunsero ottimi livelli e consentirono alla Virtus di selezionare atleti capaci di imporsi più volte nel campionato nazionale.

 

Bibliografia essenziale

  • Andrea Bacci, Lo sport nella propaganda fascista, Torino, Bradipolibri, 2002.
  • Saverio Battente e Tito Menzani, Storia sociale della pallacanestro in Italia, Manduria, Piero Lacaita Editore, 2009.
  • Maria Canella e Sergio Giuntini (a cura di), Sport e fascismo, Milano, Franco Angeli, 2009.
  • Daniel Degli Esposti, Cerchi, cesti, canestri. Pallacanestro o basket dal fascismo all’americanizzazione: il caso di Bologna, Tesi di Laurea Magistrale in Storia e Media, relatrice prof. Patrizia Dogliani, Università degli Studi di Bologna, Terza Sessione, A.A. 2011/2012.
  • Felice Fabrizio, Sport e fascismo: la politica sportiva del regime. 1924-1936, Rimini-Firenze, Guaraldi, 1976.
  • Patrizia Dogliani, Il fascismo degli italiani. Una storia sociale, Torino, UTET, 2008.
  • Emilio Gentile, La via italiana al totalitarismo. Il partito e lo Stato nel regime fascista, Roma, Carocci, 2008.

 

Fonti a stampa

  • Lando Ferretti, Il libro dello sport, Roma-Milano, Libreria del Littorio, 1928.
  • “Lo sport fascista. Rassegna mensile illustrata di tutti gli sport”, Anno 1, numero 1 (giugno 1928) – Anno 16, numeri 8/9 (giugno 1943), Milano, La Tipotecnica, 1928-1943.
  • “Il Comune di Bologna. Rassegna mensile di cronaca amministrativa e di statistica”, A. 12, n. 1 (gen. 1925) – A. 21, n. 12 (dic. 1934), Bologna, [s.n.], 1925-1934.
  • “Fides Labor. Periodico mensile. Organo della Società ginnastica Fortitudo e dei ricreatori popolari cattolici in Bologna”, A. 1, n. 1 (18 nov. 1903), Bologna, Tipografia. A. Garagnani e Figli, 1903.