La Biblioteca di storia contemporanea intitolata ad Alfredo Oriani, nel cuore della zona dantesca di Ravenna, la suggestiva “zona del silenzio”1, conserva 236 fotografie in bianco e nero formato 14×23, raccolte dall’autore in quattro album dal titolo inequivocabile: Cronistoria del fascismo ravennate dal 1921 a tutto il 1925. L’autore è il fotografo ravennate Ulderico David (12 aprile 1879 – 21 maggio 1948), protagonista indiretto di queste pagine, sul quale ovviamente avremo modo di ritornare2. Forse, visto il mio ruolo, non dovrei essere io a dirlo; ma non potrebbe esserci luogo migliore e più adatto a conservare quelle fotografie3. La Biblioteca di storia contemporanea, infatti, emanazione diretta dell’Ente Casa di Oriani istituito con regio decreto nell’aprile 1927, nasceva come Biblioteca Mussolini, con lo scopo ambizioso, fissato a norma di statuto, di acquisire e catalogare tutto quel che veniva scritto e pubblicato sul fascismo in ogni parte del mondo. Quanto meno in ogni parte del mondo raggiungibile dalle ambasciate del Regno. Per rendere testimonianza perpetua della grandezza universale dell’idea fascista, destinata – così si credeva, o si voleva credere – a dominare i secoli a venire4. L’edificio sede della Biblioteca, opera dell’architetto piacentino Giulio Ulisse Arata (che agì – così pare – sotto l’attenta supervisione dello stesso Mussolini), fu inaugurato il 13 settembre 1936 dal ministro guardasigilli Arrigo Solmi nell’ambito della grande ristrutturazione della zona dantesca, intrapresa dal fascismo da almeno un decennio. Le spoglie mortali del sommo poeta riposano a pochissima distanza. Collocazione niente affatto casuale, dunque, a connettere idealmente i tre grandi geni, Dante, Oriani e Mussolini: dal profeta e vate fiorentino, fondatore di fatto della nazione italiana, al nuovo Cesare artefice della rigenerazione imperiale d’Italia, passando per il precursore per antonomasia, quell’Alfredo Oriani la cui opera ultima, la Rivolta ideale, Mussolini considerava come il suo viatico spirituale5.
Del resto, proprio intorno al sepolcro di Dante, già luogo sacro alla tradizione nazional-patriottica prefascista6 (ad onta dei tentativi di demitizzazione dell’irriverente Olindo Guerrini, alias Lorenzo Stecchetti, che per bocca dello spettro di Dante definiva il tempietto neoclassico del Morigia una pivirola, un macinapepe)7, il fascismo aveva tenuto la sua prima vera manifestazione di massa, la sua epifania, con l’esordio ufficiale della camicia nera. Quella “marcia su Ravenna” del 12-13 settembre 1921 – a celebrare nel contempo la grande ricorrenza dantesca e il secondo anniversario della dannunziana marcia di Ronchi – che uno dei suoi principali organizzatori, il futuro quadrunviro Italo Balbo, considerava orgogliosamente l’anticipazione, la prova generale della marcia su Roma8.
Un evento che proprio le foto di Ulderico David avevano immortalato a futura memoria. Con uno scatto, in particolare, dove si vedono i due condottieri della marcia, Balbo e Dino Grandi (molto diversi fra loro, scapigliato e in divisa il primo, azzimato in elegante borghese il secondo), posare dinanzi al sacello dantesco insieme ai genitori dell’eroe dell’aria Francesco Baracca, attorniati da un florilegio di petti medagliati, labari e, appunto, camicie nere.
Un’immagine che rende appieno la sapiente regia simbolica della marcia: il fascismo erede di Vittorio Veneto che, raccogliendo la fiaccola fiumana, si consacra alla missione redentrice d’Italia «presso all’urna dove dorme il Padre spirituale della nazione»9. E che l’obiettivo attento di David ha saputo cogliere in tempo reale. Partiamo da qui.
Al momento della marcia su Ravenna Ulderico David aveva da poco passato i 40 anni; esercitava la professione di fotografo all’incirca dalla metà del 1912 (anche se figurerà regolarmente iscritto alla Camera di commercio soltanto nell’ottobre del 1927). Per la sua epoca, David è un fotografo sui generis, che «non fotografa su commissione ma, attento allo svolgersi degli accadimenti cittadini all’interno del più ampio panorama nazionale e alla vita sociale della sua città, documenta il suo tempo, proponendo mediante le immagini un racconto personale degli avvenimenti»10. Durante la Grande Guerra, il fotografo ravennate aveva raccontato in presa diretta i principali avvenimenti del conflitto a Ravenna – che, ricordiamolo, era a tutti gli effetti zona di guerra – in una serie di fotografie straordinarie, raccolte poi in degli album commemorativi11 dei quali in diverse circostanze avrebbe fatto omaggio a eminenti personalità politiche e militari del tempo, a partire dallo stesso re Vittorio Emanuele III. Non meraviglia, quindi, che con questo solido background patriottico egli potesse guardare con interesse (e forse, chissà?, anche con una qualche simpatia) al nascente fascismo, che prometteva di avverare il diritto della gioventù “trincerista” ad una più grande Italia; ma soprattutto che il suo occhio professionale cogliesse la novità e, perché no?, la “commerciabilità” di quel movimento e volesse perciò documentarne i primi passi. Che nei giorni della marcia su Ravenna erano ancora stentati, se è vero che il fascio locale non aveva ancora sei mesi di vita, essendosi costituito il 22 marzo, vigilia del secondo anniversario della storica riunione milanese di Piazza San Sepolcro. Primo segretario politico un ventiduenne studente di giurisprudenza, Alessandro “Sandro” Messeri (figlio del preside del Liceo classico), la cui firma troviamo in calce all’entusiastico telegramma, con tanto di squillante “alalà”, col quale gli squadristi ravennati annunciavano al duce l’avvenuta costituzione del loro fascio12. Un fascio, a tutti gli effetti, “di città”; il cui gagliardetto sarebbe stato ufficialmente inaugurato proprio durante la marcia su Ravenna, madrina una tal signorina Maria Caserta, che sappiamo esser stata una delle prime fasciste ravennati, tanto volenterose quanto neglette13.
Un esordio tardivo, dunque, quello del fascismo ravennate, come del resto in tutta la Romagna. Per vari motivi che sarebbe lungo richiamare qui, ma uno dei quali, forse il principale, era la presenza di un forte, radicato Partito repubblicano, nel Ravennate da sempre, con poche eccezioni, su posizioni antisocialiste (un antisocialismo uscito rafforzato dalla campagna interventista e dalla spaccatura del “fronte interno” nel dopo Caporetto), che occupava lo spazio, quello di avanguardia patriottica antibolscevica, altrove appannaggio del radicalismo nazional-fascista. Come avrebbe ricordato anni dopo un protagonista indiscusso di quei giorni, Giuseppe Frignani.
Altrove lo scendere in campo a rivendicare il sacrificio dei combattenti e ad agitare le idealità nazionali poteva costituire un’audacia ed una benemerenza, feconde di successi: non in Romagna, dove un partito, le cui tradizioni si ricollegavano alle lotte del risorgimento, aveva predicato l’intervento, sostenuto le ragioni della guerra, onorato i caduti ed i reduci, espresso dalle proprie file valorosi soldati e volontari entusiasti. I movimenti a base patriottica ivi sorti dopo la guerra e prima dell’affermazione del fascismo, le associazioni dei mutilati, dei combattenti, i gruppi dei legionari avevano finito per gravitare in massima parte nell’orbita del partito repubblicano e per collaborare con esso nell’azione diretta e combattere gli eccessi del social-comunismo14.
A Ravenna erano stati i repubblicani, con alla testa il sindaco Fortunato Buzzi15, a patrocinare la causa fiumana; loro, più di tutti, ad animare il locale “Comitato pro Fiume”, formatosi pochi giorni dopo la marcia di Ronchi; loro a organizzare il reclutamento di volontari alla volta della “città olocausta”, non pochi dei quali, per l’appunto, aderenti o variamente simpatizzanti del partito dell’edera. Scontrandosi su questo terreno, e assai duramente, coi socialisti16. Insomma, un partito dalle indiscutibili benemerenze patriottiche, con più di una carta in regola per rappresentare la nuova Italia combattente e vittoriosa.
D’altra parte, proprio in quei settori del reducismo legionario più sensibili alle sirene del “sovversivismo nazionale” il giovane fascismo urbano ravennate avrebbe reclutato non pochi adepti. La sezione di Ravenna della Federazione nazionale legionari fiumani, fondata, dopo l’esito sanguinoso dell’avventura dannunziana, da un non ancora ventenne Luciano Rambelli, non ebbe esitazioni, a differenza di quanto accadeva in altre parti d’Italia, a riconoscersi nel progetto politico mussoliniano. Anzi, come è stato rilevato, nel giro di poco tempo il legionarismo ravennate sarebbe stato «completamente assorbito dal fascismo che, col suo pragmatismo, attrasse quasi fatalmente quei giovani, sedotti dalla possibilità di proseguire nelle piazze la violenza appresa e praticata nei giorni del “Natale di sangue”»17.
Gli album di Ravenna fascista si aprono proprio con una foto della “squadra D’Annunzio”, non datata ma risalente con ogni verosimiglianza al marzo/aprile 1921. Stretti attorno ai ritratti del comandante e del duce (con il primo decisamente più grande, a sottolineare – ancora per poco – una precisa gerarchia di comando), vi si riconoscono alcuni dei principali artefici dell’originario squadrismo ravennate. C’è, primo da sinistra in seconda fila, il legionario Rambelli. Regge un bastone da passeggio, probabilmente, alla bisogna, non utilizzato solo per passeggiare. Al suo fianco siedono Guarniero “Eros” Guardigni, anche lui reduce dal Carnaro, che dopo la prematura morte diventerà un “eroe della rivoluzione fascista”18; e Giovanni Battista “Gianni” Cagnoni, squadrista fra i più violenti, figlio dell’armatore Pietro, figura centrale dell’irredentismo adriatico in versione massonica, grande “mecenate” dell’impresa fiumana nonché, più in piccolo, del movimento fascista19. In ultima fila, alla sinistra di chi guarda, accanto al ritratto di D’Annunzio, un altro legionario, quel Roldano Testoni che, al contrario del fratello maggiore Tito20, attraverserà tutto il ventennio in camicia nera fino al tragico epilogo nei giorni cupi della Repubblica sociale. Testoni veste una cravatta alla Lavallière, simbolo ribelle per antonomasia, mutuato dalla tradizione repubblicana e internazionalista. Retaggio dell’anima “di sinistra” del movimento, che ben presto il fascismo nazional-borghese dei vari Giuseppe Frignani e Celso Calvetti si sarebbe incaricato di “normalizzare”.
Una foto che è come un documento d’identità. Dalla quale emerge con evidenza un altro fattore determinante, quello generazionale, vale dire la giovanissima età della maggior parte degli squadristi21. In un ritratto di Rambelli, parte di una serie di “medaglioni” dei “benemeriti” del fascismo ravennate (questi sì, evidentemente, eseguiti dal David dietro commissione), il futuro Federale e “satrapo” di Ravenna ha in tutto e per tutto l’aspetto di un ragazzino, al punto che fa sorridere quel “Sig. Rambelli Luciano” posto dall’autore a mo’ di didascalia.
Un ragazzino dispettoso, quasi una versione sgraziata di Jackie Coogan, il “monello” dell’omonimo film di Charlie Chaplin. Protagonista, nondimeno, di una sceneggiatura assai meno poetica e divertente. Quella che si andava svolgendo, a Ravenna come nel resto del Paese, nella sostanziale indifferenza, quando non con la complicità, delle forze preposte al mantenimento dell’ordine.
La pratica della violenza politica era tutt’altro che sconosciuta ai partiti “popolari” ravennati, con socialisti e repubblicani impegnati da anni in una strisciante guerra civile che dalle tensioni del “biennio rosso” doveva trarre nuova linfa. Un episodio, in particolare, mi pare emblematico del grado di esasperazione raggiunto da quella lotta, che possedeva a tratti i caratteri di una vera e propria faida. L’8 novembre del 1920 un corteo di repubblicani, che festeggiava la vittoria alle elezioni amministrative e la riconferma di Fortunato Buzzi a Palazzo Merlato, venne a contatto con un gruppo di socialisti assembrato davanti alla Federazione delle Cooperative, all’incrocio fra via Mazzini e Piazza Byron (l’attuale Piazza S. Francesco). Ne seguì, secondo quanto si legge nella sentenza dei giudici della Corte d’Appello di Bologna, «un notevole contrasto tra i due partiti, ciascuno dei quali passò a forme accentuate e deplorevoli a base di invettive e di frasi […] e a vie di fatto dolorosissime subito dopo»22. Nel senso che il quarantaduenne barbiere Gaetano Roncuzzi, socialista, e un operaio repubblicano di vent’anni più giovane, Francesco Graziani, vennero ferocemente alle mani, armato di coltello il primo, di bastone il secondo. E che la lama affilata del Roncuzzi, lunga ben 22 cm, ferì mortalmente il corridore ciclista Guglielmo Malatesta23, anch’egli repubblicano, accorso «a scopo di pacificazione»24. Dopodiché «ne derivò una reazione vivacissima a cui prese parte la folla esasperata per l’atto feroce del Roncuzzi» e «questi fu inseguito e fatto segno a colpi di rivoltella»25. Quella volta il barbiere socialista la fece franca, cavandosela con una condanna a qualche anno di carcere. Ma evidentemente i repubblicani gli avevano giurato vendetta e si ricordarono di lui due anni più tardi, quando, sfruttando il vuoto di potere apertosi durante la marcia su Roma, penetrarono nelle carceri circondariali di Ravenna, insieme a una banda di fascisti, nel frangente loro alleati, e lo assassinarono a revolverate. Approfittandone tra l’altro per fare evadere un loro compagno, tale Morelli, che si trovava recluso per avere ammazzato un socialista a colpi di bastone26.
Né lo scontro violento riguardava solo repubblicani e socialisti; basti pensare alla sparatoria in pieno centro cittadino, con un computo finale di 18 feriti, che il 26 aprile del ’22, in occasione dell’inaugurazione del gagliardetto della sezione nazionalista di Ravenna, vide contrapposti un gruppo di nazionalisti bolognesi dei “Sempre pronti” e gli animosi avanguardisti della sinistra del Pri (fra i quali era Arnaldo Guerrini)27. Certo è che, rispetto a queste manifestazioni, per lo più estemporanee di “tribalismo” politico, i fascisti alzarono decisamente il tiro, facendo un uso sistematico e strategico della violenza per intimorire e neutralizzare i partiti avversari.
L’obiettivo di Ulderico David non si fermò dinanzi alla “nuova” violenza delle camicie nere, non si auto-censurò, anzi. Le sue foto della Vecchia Camera del Lavoro28 messa a soqquadro dai fascisti durante la marcia su Ravenna apparvero sul Bollettino mensile camerale, subito dopo i fatti, a rafforzare con la potenza e l’immediatezza delle immagini la denuncia dell’illegalismo fascista29.
Sue anche le foto della sede della Federazione delle cooperative di Nullo Baldini distrutta e incendiata dalla “colonna di fuoco” degli squadristi di Balbo nella notte tra il 27 e il 28 luglio 1922, al culmine della “conquista di Ravenna”; utilizzate esse pure abbondantemente dalla propaganda antifascista30. Possiamo quindi figurarci David come un fotoreporter free lance, che mette a disposizione di chi glielo chiede il proprio lavoro. Professionalmente, quasi in modo asettico, senza particolari coinvolgimenti emotivi. D’altronde, è stato osservato che: «Il suo taglio è analitico, preciso, quasi scientifico […]. David è figlio del suo tempo, di una cultura neopositivista che affida alla fotografia il compito di riprendere, esporre con il massimo realismo possibile il reale, l’oggetto»31.
Con lo stesso “occhio clinico” David avrebbe documentato i giorni tumultuosi della marcia su Roma. Nella notte fra il 28 e il 29 ottobre 1922 i fascisti ravennati, guidati da Giuseppe Frignani, occuparono quasi senza colpo ferire la Prefettura e tutti gli altri principali edifici pubblici. Il fotografo ravennate era lì, come sempre “in prima linea”, a riprendere gli squadristi davanti al portone della Prefettura, bivaccanti armi alla mano nel cortile, sbruffoni e tronfi dentro l’ufficio del prefetto Giuseppe Siragusa, prudentemente ritiratosi nella sua residenza privata.
Ora, c’è un’altra foto di David, presa ai tempi della guerra, che ritrae l’allora prefetto Giovanni De Giorgio seduto al suo tavolo di lavoro32. Lo sguardo del funzionario è severo, concentrato; in mano regge un fascicolo, accanto a lui il telefono pare dire che la situazione è pienamente sotto controllo. Tutto in quello scatto sapientemente costruito suggerisce l’autorità dello Stato. Che differenza con lo stesso ufficio trasformato dall’irruzione nottetempo degli squadristi in un “covo di pirati”! In quelle due immagini così diverse, in quel “passaggio di consegne”, è riassunta la capitolazione dello Stato liberale.
Particolare non secondario: nella foto dell’ottobre ’22 Muty appoggia la mano sulla spalla di Frignani, gli sorride amichevolmente. In realtà i loro rapporti, nei lunghi anni del regime, sarebbero stati tutto fuorché amichevoli. Ventuno anni dopo quella fotografia il fratello di Frignani, Giovanni, tenente colonnello dei carabinieri, già autore dell’arresto di Mussolini a Villa Torlonia nel pomeriggio del “fatidico” 25 luglio 1943, ricevette dal maresciallo Badoglio l’ordine di arrestare Muti (il quale nel frattempo aveva sostituito l’originaria y del cognome in una più italica i). Un’operazione conclusasi tragicamente con l’uccisione nella pineta di Fregene, la notte del 24 agosto ’43, del “Gim dagli occhi verdi” di dannunziana memoria. A Ravenna ci fu chi sospettò che dietro la morte dell’“eroico” Muti ci fosse lo zampino anche dell’altro Frignani, suo nemico giurato33. Illazioni, che però la dicono lunga su quel che fu davvero il fascismo ravennate dopo la “conquista” dell’estate 1922.
Un’altra immagine, fra quelle scattate da David nei giorni della marcia su Roma, racconta molto della particolare situazione ravennate. È quella del discorso di Frignani in piazza Vittorio Emanuele (l’odierna piazza del Popolo), dal basamento della statua di Sant’Apollinare, patrono della città, a conclusione del “grande corteo patriottico” del 31 ottobre. Il bianco e nero della fotografia non restituisce la policromia delle camicie, che nella circostanza non erano solo quelle nere dei fascisti (pur in maggioranza, assieme al grigioverde delle giacche militari), ma anche le rosse dei repubblicani. Non tanto quella “folcloristica” del vecchio garibaldino dalla fisionomia simpatica che s’intravede subito dietro il capo degli squadristi ravennati, alla sua destra (e appena sopra il giovane Muty). Ma soprattutto quelle degli avanguardisti ex volontari di guerra, come Romeo Piccinini, mutilato e pluridecorato, che fu tra gli oratori ufficiali del comizio insieme a Frignani e al segretario politico del fascio cittadino, l’avv. Pellegrino Ghigi. Al corteo, ci dicono le cronache, presero parte infatti, con i fascisti trionfatori, i nazionalisti e i liberali, anche non pochi repubblicani «nei caratteristici costumi»34. Uniti tutti nel festeggiare la vittoria delle “forze nazionali” e l’incarico di governo a Mussolini.
Si sa, d’altra parte, che determinante per il successo dei fascisti nella “roccaforte sovversiva” di Ravenna fu l’appoggio di una parte consistente del Pri – definiamola pure di “destra”, per comodità –, quella facente capo al cooperatore Pietro Bondi, leader del Consorzio autonomo, l’alter ego repubblicano della Federazione delle cooperative. Quella parte che non a caso, nel gennaio del 1923, in netto disaccordo con la ferrea politica antifascista dei vertici nazionali e regionali del partito dell’edera, doveva dare vita alla Federazione repubblicana autonoma della Romagna e delle Marche. Non è questa la sede per analizzare le ragioni che spinsero Bondi e compagni a schierarsi con i fascisti35; una scelta nella quale confluivano motivazioni politiche e ideologiche e altre, più spicce, di convenienza “ambientale”. Il tutto accompagnato da una pericolosa sottovalutazione – condivisa, va detto, con numerosi altri attori politici dell’epoca – della natura totalitaria del fenomeno fascista. Fatto sta che le forti divisioni interne al Pri ravennate e l’orientamento filofascista di una parte significativa di esso facilitarono non poco il compito agli uomini di Mussolini. Il che peraltro non bastò affatto a salvare l’amministrazione Buzzi, che, visto anche il progressivo assorbimento delle organizzazioni sindacali repubblicane in quelle “nazionali”, sarebbe stata costretta alle dimissioni nel febbraio del ’23.
Le successive elezioni del 10 giugno, disertate da tutte le altre forze politiche, scompaginate, minacciate e sfiduciate, consegnarono definitivamente la città nelle mani dei fascisti, che costituirono un’amministrazione monocolore con alla testa Celso Calvetti. Ma il fascismo ravennate aveva già festeggiato anzitempo la propria vittoria con una grande manifestazione in occasione del primo Natale di Roma, il 21 aprile 1923. Una mobilitazione imponente, ad anticipare i raduni di massa che sarebbero diventati consuetudine di lì poco tempo, a riprova, per parafrasare Emilio Gentile36, che il regime si instaurò già all’indomani della nomina di Mussolini alla Presidenza del Consiglio. La manifestazione (durante la quale fece il suo solenne giuramento la locale coorte della MVSN, e che si concluse con un comizio di Dino Grandi in piazza Vittorio Emanuele)37 fu, manco a dirlo, seguita passo passo da David. A questo riguardo ho scelto una foto che trovo molto bella; un particolare del corteo.
Sono visi di uomini e donne comuni (solo quattro i fascisti, in primo piano). Volti segnati di lavoratori e di lavoratrici che probabilmente appena pochi mesi prima partecipavano alle manifestazioni indette dalle due Camere del lavoro, dietro le bandiere socialiste, anarchiche e repubblicane. Quanti di loro si trovavano lì per convinzione, quanti per curiosità, quanti ancora perché costrettivi dagli organizzatori sindacali fascisti? Pochi e stentati i sorrisi; gli occhi, così almeno pare a me, esprimono per lo più rassegnazione e fastidio. Se consenso popolare fu – come ci fu –, si sarebbe costruito poco alla volta.
Ancor più che per il Natale di Roma, tuttavia, i fascisti ravennati celebrarono se stessi il 29 luglio 1923, per il primo anniversario del “martirio” di Giovanni Balestrazzi e Aldo (“Aldino”) Grossi, i due caduti delle “gloriose” giornate del luglio 1922. Il fascio organizzò una solenne cerimonia, che si sarebbe ripetuta da allora ogni anno, con modalità più o meno simili38. I questo caso la prima fotografia di David si riferisce all’inaugurazione della lapide in onore di Balestrazzi, il capo dei facchini fascisti ucciso negli scontri di Borgo San Biagio del 26 luglio ’22, con Grandi oratore ufficiale, al solito impeccabile nel suo abito borghese (mentre spettò a Balbo in divisa della Milizia commemorare il giovanissimo squadrista Grossi, suo conterraneo, caduto il 29 luglio nell’assalto a Borgo San Rocco).
La seconda mostra i parenti dei due “martiri” che assistono con espressione corrucciata alla parata militare. Hanno facce autentiche di popolani; e del resto la retorica fascista avrebbe parecchio insistito proprio sull’estrazione proletaria dei due caduti.
«Umile facchino», «operaio diciottenne» venivano definiti rispettivamente Balestrazzi e Grossi nelle lapidi a loro dedicate39 (prontamente rimosse dopo la liberazione di Ravenna), a esaltarne per l’appunto l’appartenenza al popolo, a quelle sane forze del popolo di cui il fascismo soltanto rappresentava i bisogni e le aspirazioni. Anche per questi simboli passava l’edificazione del regime, che, superata la grave crisi conseguente alla vicenda del rapimento e dell’assassinio di Giacomo Matteotti, non avrebbe più incontrato ostacoli.
L’ultima foto scelta per questo breve excursus nei primi anni del fascismo ravennate riguarda la visita “lampo” compiuta dal duce a Ravenna nel tardo pomeriggio del 22 settembre 1924, quando il capo del Governo, proveniente in auto (naturalmente «velocissima», teneva a precisare la stampa fascista)40 dalla sua residenza di Villa Carpena vicino Forlì, fece tappa nel capoluogo romagnolo dov’era ad attenderlo il treno presidenziale che doveva condurlo in Veneto. È un’immagine di folla, assembrata attorno alla statua di Luigi Carlo Farini nel piazzale dinanzi la stazione. Un gruppo di ragazzini si è arrampicato fin sopra il monumento del grande statista liberale, per meglio vedere il duce.
L’organo della Federazione provinciale fascista racconta di scene di delirante entusiasmo, soprattutto quando Mussolini, chiamato a un discorso estemporaneo dalla folla «di cittadini d’ogni classe e di lavoratori», fece appello alle «agguerriti falangi» del fascismo ravennate per contrastare e sconfiggere le «vecchie larve», le «policrome opposizioni» che approfittando della vicenda Matteotti tramavano per rovesciare il Governo41. Anche in questo caso, quasi superfluo il dirlo, è obbligatorio il beneficio d’inventario. Nondimeno, non è forse un caso se, a differenza di altre che hanno avuto ampia circolazione, questa foto di David è rimasta del tutto inedita fino a poco tempo fa42.
Recentemente a Ravenna si è molto discusso, con una vera e propria mobilitazione pro e contro sui social, se revocare o meno la cittadinanza onoraria a Mussolini, concessagli dalla Giunta Calvetti a un anno esatto dalla marcia su Roma. Chi scrive è del parere che, fatte salve le più che legittime motivazioni politiche e simboliche (tanto più comprensibili in questo particolare frangente storico, in cui da più parti sembrano riprendere slancio e vigore forze più o meno dichiaratamente fasciste), sarebbe più corretto lasciare le cose come stanno. Perché la memoria storica di una comunità è fatta di tutto ciò che quella comunità ha espresso nel proprio divenire, anche delle cose che meno ci piacciono.
Le fotografie di Ulderico David sono testimonianza del tempo in cui Ravenna, seguendo i destini d’Italia, si colorò lentamente ma inesorabilmente di nero. Non fu un caso, una fatalità fortuita. Ma l’esito di un processo politico e sociale complesso a cui dettero il loro contributo in molti, sia pure in modi e in tempi diversi. E che appartiene pienamente alla nostra storia.
Note
1 Per estensione, Ravenna è stata spesso designata la “città del silenzio”, nonostante la sua indubbia “rumorosità” politica, quanto meno a datare dalla Rivoluzione francese in avanti. S’intitola proprio così il libro più importante a oggi dedicato al fascismo ravennate: Paolo D’Attorre, Pier Luigi Errani, Paola Morigi, La “città del silenzio”. Ravenna tra democrazia e fascismo, Milano, FrancoAngeli, 1988.
2 Si consideri questo articolo come una sorta di appendice ad Alessandro Luparini, Ravenna fascista. 1921-1925, la conquista del potere, con le fotografie di Ulderico David, Cesena, Società Editrice «Il Ponte Vecchio», 2017, al quale rimando sia per una narrazione più estesa delle vicende qui trattate, con i relativi richiami bibliografici, sia per una più ampia selezione delle foto di David, che comunque erano già state in parte pubblicate in «I Quaderni del Cardello», n. 13, 2004, pp. 161-202, per la cura di Dante Bolognesi. Le fotografie sono di proprietà della Fondazione Casa di Oriani di Ravenna. È vietata la loro riproduzione con ogni mezzo, salvo previa autorizzazione che può essere richiesta a: direzione@bibliotecaoriani.it.
3 A onor del vero le lastre originali delle fotografie si trovano presso la fototeca dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea in Ravenna e Provincia, con sede ad Alfonsine (Ra).
4 Per una storia della Biblioteca Mussolini si veda Ennio Dirani, La Biblioteca di storia contemporanea, in «I Quaderni del Cardello», n. 1, 1990, monografico dedicato all’Ente (oggi Fondazione) Casa di Oriani, pp. 55-125.
5 Sul mito di Oriani nel fascismo, rimando naturalmente a Massimo Baioni, Il fascismo e Alfredo Oriani. Il mito del precursore, Ravenna, Longo Editore, 1988. Chi cercasse qualche linea di sintesi può vedere Alessandro Luparini, I precursori, in Fascismo e società italiana. Temi e parole chiave, a cura di Carlo De Maria, Bologna, Bradypus, 2016, pp. 297-306.
6 La tomba di Dante era stata meta di due imponenti “pellegrinaggi” di irredenti fiumani e giuliano-dalmati nel settembre 1908 e nel settembre 1911, al primo dei quali aveva partecipato anche Nazario Sauro. Su questi fatti, v. Paolo Cavassini, L’Ampolla e la Ghirlanda. Le feste dantesche del 1908 e il mito della «Mecca dell’irredentismo», in «I Quaderni del Cardello», n. 17, 2008, pp. 299-330.
7 Cfr. Olindo Guerrini, Una notte di Dante, in Id., Sonetti romagnoli, Bologna, Zanichelli, 1966, pp. 189-197.
8 Scriveva Italo Balbo, Diario 1922, Milano, Mondadori, 1932, p. 11: «Feci, nel settembre [1921], il primo esperimento grandioso: la mobilitazione di 3000 uomini, la Marcia su Ravenna. Per la prima volta il fascismo metteva al suo attivo una impresa di così grande portata […]. Fece in questa occasione la sua grande prima comparsa, come divisa militare, la camicia nera».
9 Così, alla vigilia della marcia, il capo dei fascisti ravennati Giuseppe Frignani, Moniti fascisti per la celebrazione dantesca, in «L’Assalto», 3 settembre 1921; anche in Id, Appunti per le cronache del fascismo romagnolo, Bologna, Licinio Cappelli Editore, 1933, p. 127.
10 Serena Sandri, La Grande Guerra nei fondi fotografici del Ravennate: un primo rilevamento delle raccolte, in La Grande Guerra nel Ravennate (1915-1918), Ravenna, Longo Editore, 2010, p. 295. Il saggio di Serena Sandri, responsabile dell’archivio fotografico dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea in Ravenna e Provincia, contiene il profilo critico-biografico più completo e circostanziato del nostro autore.
11 Quattro quelli conservati presso la Biblioteca Classense di Ravenna, i tre volumi intitolati Associazione Nazionale Combattenti Ravenna e l’album avente come intestazione Omaggio del Patronato Scolastico 1918.
12 Cfr. La fioritura dei Fasci. A Ravenna, in «Il Popolo d’Italia», 23 marzo 1921.
13 Cfr. Claudia Bassi Angelini, Le «signore del fascio». L’associazionismo femminile fascista nel Ravennate (1919-1945), Ravenna, Longo Editore, 2008, p. 22.
14 Giuseppe Frignani, Appunti, cit., p. 41.
15 Sulla figura di Buzzi: Sauro Mattarelli, Un’ipotesi laica tra massimalismo e riformismo. La figura di Fortunato Buzzi amministratore della Ravenna prefascista, Ravenna, Circolo Culturale «C. Cattaneo», 1981.
16 A questo riguardo cfr. Paolo Cavassini, L’Adriatico breve: Ravenna e l’impresa di Fiume, in «I Quaderni del Cardello», n. 14, 2005, pp. 175-200; nonché Saturno Carnoli, Paolo Cavassini, Ombre fiumane. Il fondo fotografico dei fratelli Testoni, legionari ravennati, Ivi, pp. 201-261, in cui ritroviamo volti e atmosfere delle foto di David.
17 Paolo Cavassini, L’Adriatico breve, cit., p. 193.
18 Nell’estate del 1933 gli sarebbe stato intitolato un campeggio dei “balilla moschettieri” a Marina di Ravenna.
19 Fu Pietro Cagnoni a mettere a disposizione dei primi fascisti ravennati una sede: un magazzino dismesso per lo stoccaggio del grano nella centralissima via Marco Fantuzzi. Per una sua biografia si veda Paolo Cavassini, «Navigando verso porti raggiungibili». Ascesa e declino del “riformatore” Pietro Cagnoni, in Andrea Casadio, Paolo Cavassini, Alessandro Luparini, “Un matrimonio di interesse”. L’avvento del fascismo e la Federazione delle Cooperative di Ravenna, Ravenna, Longo Editore, 2011, pp. 35-73.
20 Tito Testoni (1899-1960), tenente degli arditi, fascista diciannovista, volontario a Fiume, nell’aprile del ’21 (ancora convalescente per le ferite riportate nei combattimenti del “Natale di sangue”) fu tra i promotori del Gruppo futurista romagnolo. Repubblicano della corrente autonomista facente capo alla Federazione autonoma della Romagna e delle Marche, si staccò del tutto dal fascismo fino a scegliere la via dell’opposizione diretta ed espatriare in Francia, ove strinse rapporti con il fuoriuscitismo d’ispirazione repubblicana e dannunziano-deambrisiana.
21 Per limitarci ai nomi citati: il più anziano era “Gianni “ Cagnoni, classe 1899, seguito da Roldano Testoni (1900), Rambelli (1902) e Guardigni (1903). Si aggiunga un altro “fiumano” non presente nella foto in questione, Ettore Muty, nato il 22 maggio 1902.
22 Sentenza di rinvio alla Corte di Assise, Bologna, 26 aprile 1921, p. 3, in Archivio dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età contemporanea di Forlì-Cesena, Fondo “Gastone Sozzi”, Busta 14, Fascicolo 14. Fra i testi chiamati a deporre sul “fattaccio” anche un diciottenne Ettore Muty, sentito dal giudice istruttore di Ravenna il 15 dicembre 1920. Nel verbale di deposizione Muty veniva definito «attualmente legionario fiumano in licenza», politicamente «indifferente». Non male per colui che di lì a pochissimo tempo sarebbe diventato il simbolo dello squadrismo fascista ravennate. Processo verbale di esame di testimonio senza giuramento, Ivi.
23 L’incolpevole Malatesta sarebbe stato ascritto d’ufficio dai fascisti fra i “martiri” della “barbarie antinazionale” dei sovversivi. La prima amministrazione fascista di Ravenna gli intitolò l’antica via Sabbionara, divenuta subito dopo la Liberazione, per una sorta di nemesi della memoria, via don Giovanni Minzoni.
24 Sentenza di rinvio, cit., p. 4.
25 Ibid.
26 Cfr. L’assassino di Malatesta ucciso alle Carceri Nuove, in «Corriere di Romagna», 4 novembre 1922.
27 Su questo episodio: Paolo Cavassini, L’Ampolla e la Ghirlanda, cit., pp. 325-326.
28 A seguito della scissione sindacale dell’aprile 1910, esito del durissimo conflitto per il controllo delle macchine trebbiatrici che aveva opposto coloni repubblicani (i “gialli”) e braccianti socialisti (i “rossi”), esistevano in Ravenna due Camere del lavoro: la Vecchia, socialista (e anarchica; cui dopo la scissione di Livorno avrebbero aderito anche i comunisti), in via Pellegrino Matteucci, e la Nuova, repubblicana, alloggiata presso la grande Casa del Popolo del Pri in Palazzo Spreti.
29 Cfr. Le giornate… dantesche, in «Bollettino mensile della Camera del Lavoro di Ravenna e Provincia», n. 17, 1 ottobre 1921, p. 4.
30 Gli originali delle foto sono conservati presso l’Archivio fotografico della Federazione delle Cooperative della Provincia di Ravenna. Le si vedano nel volume Scatti di memoria dall’archivio fotografico della Federazione delle Cooperative della Provincia di Ravenna, a cura di Lorenzo Cottignoli, Ravenna, Longo Editore, 2002, pp. 250-253.
31 Enrico Para, Considerazioni sul linguaggio «autonomo» della fotografia, Ivi, p. 180, p. 181.
32 Ulderico David, Il Comm. De Giorgio prefetto di Ravenna nei primi tempi della guerra, in Associazione Nazionale Combattenti Ravenna, 1925, Fototeca della Biblioteca Classense, Fondo Ravennate, inv. Foto 15758. Riprodotta in La Grande Guerra nel Ravennate, cit., p. 219.
33 Cfr. Arrigo Petacco, Ammazzate quel fascista! Vita intrepida di Ettore Muti, Milano, Mondadori, 2002, p. 182.
34 Ravenna celebra la vittoria delle forze nazionali, in «Corriere di Romagna», 4 novembre 1922.
35 Sull’atteggiamento dei repubblicani ravennati dinanzi al fascismo si confrontino le diverse interpretazioni di Luciano Casali, Fascisti, repubblicani e socialisti in Romagna nel 1922. La «conquista» di Ravenna, in «Il Movimento di Liberazione in Italia», n. 93, 1968, pp. 12-36; e Sergio Gnani, I repubblicani ravennati di fronte al fascismo, 1919-1925, s.l., Centro di studi storici e politici del Partito repubblicano italiano dell’Emilia-Romagna, 1976.
36 Cfr. Emilio Gentile, E fu subito regime. Il fascismo e la marcia su Roma, Roma-Bari, Laterza, 2012.
37 Cfr. Sagra d’armi e festa di lavoro nel Natale di Roma, in «La Santa Milizia», 28 aprile 1923.
38 Sulle drammatiche giornate del luglio ’22 come mito di fondazione del fascismo ravennate si leggano le considerazioni di Massimo Baioni, Rituali in provincia. Commemorazioni e feste civili a Ravenna (1861-1975), Ravenna, Longo Editore, 2010, pp. 173 ss.
39 Per i nostri martiri. Le epigrafi commemorative, in «La Santa Milizia», 28 luglio 1923.
40 Le trionfali accoglienze di Ravenna fascista al Duce, Ivi, 27 settembre 1924.
41 Ibid.
42 È infatti apparsa la prima volta nel mio succitato Ravenna fascista, p. 101.