Intervista a Mauro Roda. Il Comitato bolognese di solidarietà ai profughi dell’ex Jugoslavia: una riflessione a trent’anni di distanza (1992-2022)

Interview to Mauro Roda. The Bologna solidarity committee for refugees from ex-Yugoslavia: an analysis thirty years later (1992-2022)

In apertura: Giovani ospiti del campo di Ribnica, 1992 (Archivio privato Mauro Roda).

All’inizio degli anni Novanta, una serie di conflitti armati alimentati da spinte nazionalistiche e secessionistiche portò alla dissoluzione della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia. Sotto l’impressione di quegli avvenimenti, nel 1992 a Bologna si costituì un Comitato di solidarietà ai profughi dell’ex Jugoslavia, che rappresenta un unicum a livello nazionale per capacità di coinvolgimento e di durata. Ripercorriamo quella storia con Mauro Roda, allora coordinatore del Comitato e già dirigente della Federazione bolognese del Partito comunista italiano (Pci), poi del Partito democratico della sinistra (Pds). Oggi Roda presiede la Fondazione Duemila, centro di formazione e ricerca attivo sui versanti della cultura storica e degli studi politici, che sta intraprendendo un progetto di ricerca proprio su questi temi. L’intervista è stata realizzata da Eloisa Betti e Carlo De Maria. Si ringrazia Anna Scattini per aver lavorato a una prima trascrizione del testo.

Potresti raccontarci, innanzitutto, che ruolo avevi nel 1992 e come la militanza politica ti portò all’impegno per l’ex Jugoslavia?

Dopo una militanza nel Pci iniziata negli anni Settanta – nell’ambito della quale ero stato responsabile dei comuni dell’hinterland di Bologna e responsabile dell’organizzazione del partito, nonché capogruppo in provincia –, nel 1992 ero dipendente della federazione bolognese dell’appena nato Pds. Il mio incarico di organizzatore era ormai al termine. Dopo pochi mesi, nel maggio 1993, uscii dalla federazione e andai a lavorare come responsabile del centro macellazione carni, una grande cooperativa del territorio. La struttura del partito, infatti, si stava fortemente ridimensionando dopo la fine del Pci. Fino al 1995, comunque, ho assolto l’incarico di capogruppo del Pds in provincia.

Ho fatto riferimento al ridimensionamento organizzativo, perché, dopo il congresso di Rimini del 1991 (il XX e ultimo congresso del Pci), avevamo tutti già capito che molti di noi non potevano più vivere di sola politica. La politica sarebbe diventata un’aggiunta nella propria vita, ma non più un lavoro a tempo pieno. Siccome io stesso avevo dovuto, per il mio ruolo di responsabile organizzativo di una grande federazione come quella bolognese, congedare parecchie decine di dipendenti del partito, ero assolutamente certo (e in fondo era giusto così) che io stesso avrei dovuto presto lasciare, alla fine di quel difficile processo di ristrutturazione.

Che effetto ebbe su di te e sul tuo ambiente politico la notizia dello scoppio della guerra in Jugoslavia?

Fu un fulmine a ciel sereno. Per noi il capitalismo era consumo di risorse, era la dittatura del mercato, sostanzialmente il primato del mercato sull’uomo e fino all’inizio della guerra nei Balcani, al contrario, il socialismo era sinonimo di pace, di fratellanza, di cooperazione tra i popoli. Lo scoppio della guerra in Jugoslavia fu, dunque, uno shock. La mia generazione veniva, è vero, da un lungo periodo di riflessione sulla repressione esercitata, nel 1968, dall’URSS nei confronti del difficile tentativo di costruzione di un socialismo dal volto umano in Cecoslovacchia. Successivamente, nel 1979, era arrivata l’invasione sovietica dell’Afghanistan. Tutti esempi opposti rispetto all’idea, da noi coltivata, della costruzione del socialismo attraverso la democrazia; rispetto all’idea del socialismo come cooperazione tra i popoli, come fratellanza dei popoli, come superamento addirittura delle barriere statali. Eravamo, dunque, consapevoli delle enormi contraddizioni in essere, ma lo scoppio della guerra in Jugoslavia fu un fulmine a ciel sereno che ci lasciò tutti, in primis me personalmente, molto sbalorditi.

Ripeto, era l’esatta antitesi dell’idea che avevamo di socialismo. E allora “socialismo” non era una parola fuori misura. Era pane quotidiano nella riflessione della sinistra italiana. Potevi essere più o meno riformista, ma il fatto che l’orizzonte socialista significasse un miglioramento delle condizioni di vita, era un assunto assai diffuso. Ancora trent’anni fa era l’abc. La guerra, invece, no, non c’entrava niente.

Ricordi la prima azione concreta che tu e i tuoi compagni dell’epoca faceste alla notizia dello scoppio della guerra?

Innanzitutto, cominciammo a interrogarci e a voler approfondire in merito ai motivi per i quali si era arrivati allo scoppio della guerra in un paese che ritenevamo di conoscere molto bene. Un paese familiare… Chi di noi non aveva percorso le strade dell’ex Jugoslavia? Sia per la vicinanza ideale, sia per le bellezze naturali. Da Zagabria a Belgrado c’erano ancora le cicogne… E poi le spiagge della Croazia e così via… Certo, eravamo al corrente delle difficoltà; erano più arretrati di noi in molti campi: avevano a che fare con problemi economici non risolti, tra i quali un’inflazione cronica, ma non potevamo immaginarci un conflitto armato. La guerra è la negazione dei valori del socialismo, quindi la riflessione attorno a queste cose partì subito.

Ricordi qualche occasione pubblica in particolare?

No, se vi riferite a convegni, a dibattuti pubblici… no, era una riflessione interna. Dentro agli organismi del partito, cominciammo a interrogarci sul perché si era arrivati a quell’esito per noi inaspettato.

Si manifestò subito anche l’esigenza di esprimere concretamente il nostro rifiuto della guerra; contrastare il ricorso alla forza, l’uso delle armi, facendo prevalere altri principi, in primo luogo la fratellanza, la solidarietà tra le persone. A partire da chi? A partire dalle prime vittime della guerra: i civili, i profughi. Da qui si costituì il comitato, che era appunto un comitato di solidarietà nei confronti dei profughi dell’ex Jugoslavia, al quale pian piano aderirono un insieme di forze. Non solo partiti, ma anche sindacati, organizzazioni del volontariato, perché in tanti capimmo che non ci si poteva voltare dall’altra parte.

Come fu l’incontro con i profughi?

Erano sgomenti, non si aspettavano neppure loro quella guerra. Necessitavano del primo soccorso, dei bisogni essenziali: dal cibo al vestiario ai farmaci. Spesso scappavano senza riuscire a portare quasi nulla con sé.

Come comitato bolognese “adottammo”, per così dire, un campo profughi, d’intesa ovviamente con le autorità locali. Il “nostro” campo era collocato nella zona meridionale della Slovenia, per la precisione a Ribnica. Tra i profughi tante donne e, soprattutto, tanti bambini. I primi convogli di aiuti partirono da Bologna tra fine 1992 e inizio 1993.

A uno dei primissimi viaggi partecipò anche il sindaco di Bologna, Renzo Imbeni, che era ormai al termine del suo mandato, ma ci teneva a portare direttamente la solidarietà della sua città a quei territori martoriati. In quel caso il convoglio era diretto a Zagabria, in Croazia. Le due città, Bologna e Zagabria erano gemellate fin dagli anni Sessanta; le amministrazioni comunali si parlarono e velocemente organizzammo un convoglio che partì da Piazza Nettuno con due ambulanze, un carico di medicinali e tanti generi alimentari a lunga conservazione. Un convoglio molto partecipato, tra l’altro, con diverse rappresentanze cittadine, a evidenziare le storiche relazioni di amicizia tra le due città. Scaricammo tutto questo materiale, insieme ai rappresentanti croati, presso la fiera di Zagabria.

Da convogli di aiuto un po’ estemporanei come questo, ci si orientò sempre più decisamente verso interventi di soccorso più sistematici, cioè indirizzati a determinati campi profughi. Noi, come dicevo, ci dedicammo, in particolare, a quello di Ribnica, una località che si trovava a 40-45 chilometri a sud di Lubiana. Sto parlando di un’esperienza di soccorso che durò per 8-9 anni, fino alla chiusura del campo.

Ma oltre a questo impegno costante a sostegno del campo di Ribnica, intraprendemmo in quegli anni anche altre iniziative di soccorso, quelle ritenevamo più importanti. Ad esempio, appoggiammo un’iniziativa del Comune di Bologna che stabilì una sorta di gemellaggio con la città di Tuzla, una delle principali città della Bosnia ed Erzegovina. Uno dei luoghi della ex Jugoslavia nei quali più forte era la convivenza multietnica. Lì incontrammo un sindaco molto sensibile ai temi della convivenza e del pluralismo. Trovammo il modo non solo di andarli a soccorrere dopo i bombardamenti di artiglieria del 1995 (un vero e proprio massacro), ma anche di dargli concretamente una mano a ricostruire. Ricordo un viaggio a Tuzla con il nuovo sindaco di Bologna, Walter Vitali, il sindaco di Barcellona e la sindaca di Istanbul. Erano i comuni e le città d’Europa a muoversi per primi e cercavano di farlo in rete. Non c’era, invece, una direzione politico-organizzativa forte, come quella che, ad esempio, la sinistra italiana (e in particolare il Pci) era riuscita a imprimere a livello nazionale ai Comitati Italia-Cile negli anni Settanta.

Entrammo a Tuzla al buio, in piena notte, era una città assediata…

Quando sei arrivato cosa hai visto?

Non si vedeva niente, nessuna luce accesa, non si poteva neppure fumare per paura che la luce della sigaretta attirasse l’attenzione dei cecchini. La polizia municipale di Tuzla ci fece strada verso un albergo. Alla luce del sole, il giorno dopo, ci trovammo di fronte una città bombardata; in piazza vedevi dov’era arrivata la granata che, pochi giorni prima, aveva mietuto decine di vittime mentre c’era il mercato. Cosa potevamo fare in una situazione come quella? Semplicemente portare la solidarietà, dire “non siete soli”… In una città assediata se arriva qualcheduno dall’esterno si sta un po’ più tranquilli, tutto qua; gli porti un po’ di tranquillità, gli porti un po’ di speranza, la serenità no, quella non gliela porti davvero…

Tornando al campo di Ribnica, oltre a portare generi di prima necessità, come si articolò l’aiuto ai profughi?

Il modo migliore per aiutare i profughi è costruire (o meglio ricostruire) relazioni umane e le caratteristiche dei luoghi influiscono sulla qualità dei rapporti che vi si creano. Il campo profughi era una caserma dismessa, molto tetra, e con l’aiuto della comunità bolognese l’abbiamo rimessa in condizioni di vivibilità. Oltre a occuparci del rifornimento di cibo e medicinali, abbiamo assicurato alle famiglie dei profughi la possibilità di mandare i bambini a scuola fornendo i materiali didattici necessari. Volevamo ripristinare il diritto alla sicurezza e alla salute, ma anche all’istruzione; quindi, in qualche modo adottammo quei bambini per tutti quegli anni. Nel periodo estivo, organizzavamo vacanze in Italia per farli incontrare con i bambini italiani; i piccoli profughi uscivano dal clima della guerra e i nostri bambini potevano sensibilizzarsi ai temi della pace e dell’internazionalismo. Li portammo sulla riviera romagnola e in campi scuola a Bologna, per due o tre estati.

Ti ricordi quanti bambini c’erano?

Nel campo c’erano circa 400 persone nei periodi più intensi, la gran parte di origine bosniaca. La maggioranza erano bambine e bambini, il resto un po’ di mamme e un po’ di nonne.

Questo tipo di lavoro socio-assistenziale ed educativo, che andava ben oltre l’intervento di primo soccorso, non lo realizzammo solo nel campo profughi di Ribnica, ma anche con il Comune di Zagabria, al quale fornimmo mezzi, risorse e consulenza per rimettere in sesto le proprie colonie per l’infanzia, dislocate in Istria.

Ci parli dei tuoi ricordi personali, emozioni e sensazioni, legati all’intervento di solidarietà in ex Jugoslavia?

La prima volta è quasi indimenticabile, perché parti da una situazione normale, quella bolognese, con poca esperienza – solo dopo ci formammo un po’ di più – e arrivi in un luogo devastato dalla guerra… Anzi no, la prima volta che andammo ci portarono in tre luoghi diversi, perché le emergenze erano numerose. Furono le stesse autorità slovene a farci visitare tre campi diversi, scaricammo i materiali e incontrammo una folla di persone sole e smarrite, bisognose di tutto; bambini che si attaccavano ai nostri camion per accaparrarsi i materiali.

Lì capimmo che bisognava andarci più organizzati. Detto così forse non si capisce, ma se soccorri una massa di affamati, prima è meglio metterli in fila, altrimenti rischi che si facciano male e rischi che tra di loro nascano problemi e conflitti, perché il più forte sgomita… Devi essere attrezzato a fronteggiare situazioni di disumanizzazione vera e tanta desolazione… Mi colpivano in profondità gli occhi spenti, molto provati, di chi scappava dalla morte ed era sopraffatto dalla paura. Quel primo impatto ci fece riflettere, ci mise nelle condizioni di pensare parecchio e di affinare l’organizzazione, perché non bastava la nostra forza di volontà, bisognava davvero essere preparati e predisposti a fare le cose per bene. Altrimenti, come dicevo, rischiavi addirittura di creare problemi.

E quindi come vi siete attrezzati, se così possiamo dire?

Si rafforzarono le relazioni istituzionali del comitato bolognese con l’ufficio profughi sloveno, si lavorò sulla base dei bisogni e non più solo sulla base dell’entusiasmo. Dovete considerare, tra l’altro, che il contesto italiano di quel periodo non era dei migliori: all’ordine del giorno c’era quello che è stato definito “l’assalto alla politica”, siamo nel periodo di Tangentopoli per capirci. La politica e i partiti erano molto screditati e sotto attacco da parte dell’opinione pubblica. In quel clima, settori consistenti della cittadinanza mettevano in discussione che ci potesse essere veramente una volontà di impegno sociale disinteressato; di conseguenza, non bastava soccorrere, ma avevi anche bisogno di giustificare attentamente quello che stavi facendo, rendicontando con precisione le risorse impiegate, i risultati raggiunti, e dimostrando, a livello ideale, che si poteva dare una risposta positiva al disastro della guerra facendo prevalere sentimenti di solidarietà e fratellanza umana; avevi bisogno di reimpostare il tuo ruolo in modo tale da rendere credibile la tua azione agli occhi dei tuoi concittadini. Questo è l’impegno che rivendico ancora oggi, come coordinatore del comitato bolognese.

Chi faceva parte esattamente del Comitato bolognese di solidarietà ai profughi dell’ex Jugoslavia?

Partiti, sindacati, associazioni e istituzioni locali. Iniziarono i partiti della sinistra ma poi il coinvolgimento si allargò al cosiddetto “arco costituzionale”. Per qualche tempo, la mia vice fu la responsabile delle donne del Partito popolare, Rosa Lo Russo. Anche il mondo sindacale aderì trasversalmente: Cgil, Cisl e Uil.

Dove vi riunivate solitamente?

Allora, io ero capogruppo del Pds in Provincia, quindi qualche riunione l’abbiamo fatta nella sede della Provincia, che poi ci diede un luogo solo per noi, sotto il ponte di via Libia. Era la vecchia sede dell’Ufficio trasporti, molto ampia e, dunque, congegnale per noi, perché avevamo bisogno anche di immagazzinare e catalogare il materiale.

Tra le associazioni aderenti al Comitato te ne ricordi qualcuna particolarmente attiva?

La prima e più attiva fu sicuramente Ambulanza 5, furono i primi a prendere a cuore il nostro progetto. È un’associazione di pronto soccorso bolognese, quella che fa funzionare il 118 oggi a Bologna per intenderci, che nei decenni precedenti era stata appoggiata e rafforzata anche da tanti volontari provenienti dal Pci. Si trattava di ragazzi pronti alla solidarietà umana, furono davvero formidabili. Non si occuparono solo di soccorso sanitario, ma sulla base delle richieste che arrivavano – spesso di alimenti – loro andavano davanti alle Coop e agli spacci cooperativi, ma non solo, e dicevano chi erano, perché facevano quel lavoro e chiedevano ai cittadini di offrire qualcosa, come si fa da allora in quasi tutti i casi di terremoti e catastrofi. Le raccolte di alimenti a lunga conservazione venivano immagazzinate e man mano che arrivavano le richieste si portavano a destinazione.

Hai menzionato anche il mondo della cooperazione, tradizionalmente molto forte a Bologna e in Emilia-Romagna, che ruolo ebbe in questa vicenda?

Di grande supporto, con mezzi e competenze. Infatti, per trasformare una caserma disfatta in un luogo di accoglienza per i profughi è necessario riattivare l’acqua calda e fredda, bisogna ricostruire le mense, fare i letti, allestire tutto il necessario. Uno sforzo che non saremmo riusciti a compiere senza il supporto delle aziende pubbliche e della cooperazione.

Il momento più bello che hai vissuto?

Forse la cosa più bella che facemmo, proprio per ripersonalizzare i rapporti all’interno del campo – perché la fratellanza si pratica con le persone con nome e cognome, non elargendo una assistenza generica –, fu quella di portare un regalo a tutti i bambini chiamandoli per nome e cognome: a tutti i bambini, in relazione all’età che avevano, facemmo un regalo, un giocattolo… Chiamandoli per nome, la cosa importante era quella.

Nel 1994-95 passammo il Natale nel campo profughi. C’era ancora la guerra. Loro erano quasi tutti mussulmani, ma erano comunque contentissimi che fossimo lì con loro.

Avevate anche una consulenza pedagogica?

Assolutamente sì, a questo scopo coinvolgemmo il provveditorato agli studi di Bologna. Promuovemmo, inoltre, la creazione di corsi per la formazione dei volontari perché non basta essere generosi, bisogna anche sapere dove mettere le mani. Comune, Provincia e Regione, insieme all’Università di Bologna, realizzarono alcuni corsi per i nostri volontari. Queste iniziative formative partirono quasi subito, nel 1993.

Oltre a istituzioni locali, associazioni e imprese, anche singole personalità particolarmente significative hanno appoggiato la vostra azione. Ne vuoi ricordare alcune?

Sicuramente Dante Cruicchi, già sindaco di Marzabotto e tra i promotori dell’Unione mondiale delle città martiri, portò al Comitato di solidarietà ai profughi dell’ex Jugoslavia tutta la sua esperienza in termini di cooperazione internazionale per la pace.

Poi c’era la nostra interprete, Vinka Kitarovic, una persona assolutamente straordinaria, che ci mise il cuore, una passione autentica. Di origine croata, Vinka aveva ricoperto, giovanissima, un ruolo di rilievo nella Resistenza a Bologna e in Emilia-Romagna. Era una attivista di primo piano dell’Anpi e anche l’Anpi aveva aderito al comitato bolognese. Si mise a disposizione con grande generosità; era molto contenta di aiutare il suo popolo. Da grande pacifista, era sconvolta per quanto stava succedendo nel suo paese di origine. Ha partecipato a quasi tutti i convogli, specie quelli più difficili e delicati. Si incaricava di tutte le traduzioni, perché loro scrivevano in sloveno e in croato e non noi capivamo… Senza Vinka non avremmo saputo come fare.

L’iniziativa del comitato bolognese come si situa nella più ampia solidarietà italiana nei confronti della ex Jugoslavia? Ci furono iniziative analoghe promosse da altre realtà locali o questo attivismo “dal basso” rimase una peculiarità bolognese?

Se è vero che furono molte le iniziative promosse in Italia verso il territorio dell’ex Jugoslavia, Bologna ha una sua particolarità. Il nostro comitato operò in maniera sistematica e duratura nel tempo, riuscendo a coinvolgere in maniera trasversale una pluralità di interlocutori. Anche la curia bolognese ci diede una mano, mentre in altri contesti iniziative laiche e religiose erano spesso distinte. Unendo le forze, siamo riusciti a far partire circa 150 convogli verso la ex Jugoslavia. Una figura come quella di padre Toschi, già organizzatore dei comizi volanti nel ’48 contro il pericolo comunista in Italia, mi chiamò decine di volte in quel periodo. Credo che, quarantacinque anni dopo, avesse individuato in questa iniziativa un valore popolare che andava aldilà degli schieramenti: lo sforzo di far prevalere la solidarietà umana contro la barbarie della guerra. Secondo me fu questo.