Migrazioni nella periferia di Regime. L’estate del 1940: i «Tripolini» nella colonia post-sanatoriale di Tresigallo

Migrations to the Suburbs of the Fascist Regime the Summer of 1940: the «Tripolini» in the post-Sanatorium Colony of Tresigallo

1. La microstoria dei bimbi libici: un lungo percorso di riscoperta

Le migrazioni interne nell’Italia degli anni Trenta hanno rappresentato un fenomeno che ha coinvolto un numero considerevole di famiglie italiane: si è assistito a spostamenti dalle campagne alle città, dalle montagne ai grandi centri urbani di pianura, nelle colonie d’oltremare, nelle zone di bonifica e nelle «città nuove», senza dimenticare il flusso delle migrazioni di ritorno degli italiani residenti all’estero, che meriterebbe un capitolo a parte1.

Gli studi storici si sono concentrati approfonditamente sulle dinamiche citate poc’anzi; diversamente, il trasferimento in Italia dei cosiddetti «Tripolini» o «bimbi libici»2 nel giugno del 1940, a ridosso dell’inizio del secondo conflitto mondiale, è rimasto per molti anni una microstoria d’appendice, un tema poco indagato e confinato alla memoria privata, al contesto familiare, anche a causa delle scarse riflessioni elaborate dall’opinione pubblica, del flebile dibattito storiografico relativo alle imprese coloniali italiane, del mito «italiani brava gente» duro a morire, dei molteplici distinguo e delle decontestualizzazioni relative ai personaggi del regime, che non hanno permesso di afferrare la complessità del fenomeno coloniale. A tal riguardo, basti osservare chi si è limitato ad analizzare le mosse ambigue e non sempre lineari di Italo Balbo, uno dei personaggi più in vista e contraddittori del Fascismo, che proprio nei cieli di Tobruk, in Libia, ha trovato la morte il 28 giugno 1940, colpito dal fuoco amico dell’incrociatore San Giorgio. Balbo, Governatore della Libia dal gennaio 1934, in una lettera a Mussolini del 19 gennaio 1939, affermava: «In un Paese come questo, che ha sempre avuto il grande vanto nei confronti dei Paesi vicini di consentire la più pacifica convivenza tra arabi ed ebrei, sarebbe a mio avviso consigliabile non dare caratteristica di asprezza alla lotta per la difesa della razza»3. La dichiarazione di apparente indulgenza nei confronti della comunità ebraica libica è stata spesso utilizzata dal «riduzionismo storico» per spostare il fuoco dell’attenzione ed impostare una contro-narrazione coloniale; di conseguenza per molti decenni non si è sviscerato nella sua globalità la problematicità della presenza italiana in quel Paese sin dal 1911: dalle iniziative discriminatorie prese a livello centrale alla resistenza di Omar Al-Mukhtàr già dagli anni Venti, dalla deportazione di circa 100.000 cirenaici da Gebel el-Achdar in tredici campi di concentramento alla violenza dell’esercito regio sulla popolazione civile.

Le prime analisi degne di nota sull’esperienza coloniale in Libia, di Francesco Malgeri e Giorgio Rochat, sono degli anni Settanta4; bisogna aspettare, però, Angelo Del Boca per una ricostruzione organica degli eventi capace di tener assieme diversi ambiti di studio: militari, politici, sociali e culturali5.

Una timida reazione emotiva di settori circoscritti dell’opinione pubblica italiana si è registrata all’indomani del colpo di stato del 1° settembre 1969 e della conseguente ascesa al potere del Colonnello Muammar Gheddafi, che portarono al decreto di confisca del 21/7/1970, necessario per «restituire al popolo libico le ricchezze dei suoi figli e dei suoi avi usurpate dagli oppressori».

Gli italiani residenti furono, di conseguenza, spogliati di ogni bene, compresi i contributi assistenziali, e dovettero abbandonare il Paese entro il 15 ottobre 1970. Tali decisioni furono applicate violando il diritto internazionale, più precisamente il Trattato italo-libico del 12 ottobre 1956, e neppure il Governo italiano, che si espresse attraverso il suo Ministro degli Affari Esteri Aldo Moro mediante una formale protesta contro l’esproprio dei beni e l’espulsione, riuscì a schierarsi pervicacemente al fianco della comunità italiana di Libia, soggetta ad un brusco rimpatrio e al collocamento in campi profughi. In questo contesto, l’Associazione Italiani Rimpatriati dalla Libia (AIRL), costituita a Chieti nel 1972 e trasferitasi l’anno successivo a Roma, ha avuto un ruolo chiave nella costruzione di una memoria della comunità espatriata6. Francesco Prestopino, bengasino e presidente del centro culturale dell’AIRL, è stato uno dei primi promotori, a partire dagli anni Novanta, della vicenda delle cosiddette «vacanze di guerra» al di fuori della ristretta cerchia degli italiani rimpatriati. Nel libro I bimbi libici. Storia e storie dei ragazzi della IV sponda7 rende note le testimonianze e le immagini dei protagonisti della vicenda, facendo una sintesi della documentazione raccolta fino ad allora. Escono altresì autopubblicazioni e memoriali editi da case editrici locali, tra i più importanti I ragazzi della Quarta Sponda di Grazia Arnese Grimaldi8. Anche le produzioni documentarie e audiovisive hanno iniziato negli anni Duemila a dedicare maggior spazio a questa microstoria poco conosciuta: si segnalano Vacanze di guerra (2010) di Alessandro Rossetto, andato in onda per La Grande Storia su Rai Tre, e Profughi a Cinecittà di Marco Bertozzi (2012). Infine, Manuela Piemonte, recentemente, ha dato un proprio contributo all’argomento col romanzo Le amazzoni9.

2. Italia-Libia: andata e ritorno

La memoria degli eventi è rimasta per diversi decenni appannaggio dei testimoni diretti della storia, cosicché nelle tante interviste raccolte, come ha messo in evidenza Erica Moretti nel saggio “Memorie private di infanzie pubbliche. I bambini libici tra colonia e campi vacanze”, prevale un senso di malinconia per una giovinezza perduta, «un acuto senso di nostalgia o “mal d’Africa” sia a volte nei confronti delle politiche di dominio coloniale, sia, più in generale, verso un a-storico idillio agreste: la Libia della colonizzazione demografica, un bucolico altrove di benessere morale e materiale»10. Non poteva essere diversamente per quelle decine di migliaia di italiani soggetti alla propaganda interna ed esterna del regime: la Libia rispondeva alle necessità dettate dalla lotta all’urbanesimo, sancita dal cosiddetto Discorso dell’Ascensione, e dall’urgenza di concretizzare la «battaglia demografica» e di dar respiro alle aree interne sfibrate da disoccupazione e povertà.

La geografia dell’immenso «scatolone di sabbia», così l’aveva definito Gaetano Salvemini, cambiò indelebilmente nell’arco di un lustro: Balbo, appena riuscì a sfruttare i giacimenti d’acqua, fece intervenire l’Ente Colonizzazione della Libia e l’Istituto nazionale fascista per la previdenza sociale affinché costruissero nuovi villaggi colonici.

Ogni villaggio era abitato da poche centinaia di persone: aveva un municipio, un piccolo ospedale, una chiesa, un ufficio postale, una stazione di polizia, una cooperativa di consumo, un caffè e qualche negozio. Nelle campagne furono costruite case rurali dotate di tre camere, una cucina, un cortile, i servizi igienici. Mentre venivano edificati i villaggi, Balbo preparò i piani di immigrazione: prediligeva famiglie di 8 componenti, con un capofamiglia giovane e qualche figlio già in grado di lavorare, iscritti al partito e alfabetizzati. La grande migrazione dei 20.000 era pronta per cominciare. La scelta dei candidati fu una delle questioni più spinose: i funzionari del Commissariato per l’emigrazione interna si affidarono ai consigli delle autorità locali – prefettura, questura, podestà – i quali avevano interesse ad inviare gli elementi più facinorosi e irrequieti. Veneti, lombardi ed emiliani diedero diversi problemi: le fonti governative libiche li definiscono spendaccioni e bevitori. I peggiori in assoluto erano i ferraresi: le 135 famiglie si dimostrarono estremamente scontente e rifiutavano la disciplina11.

Da Genova partì, a fine ottobre del 1938, il grosso della spedizione: a Napoli e a Siracusa si aggiunsero altri bastimenti per un totale di 17.

La signora Tani Pia è l’ultima ferrarese di quelle centinaia di ferraresi partiti per la Libia ed è anche l’ultima tripolina ad aver vissuto l’esperienza del ritorno in patria prima dell’inizio della guerra e, in parte, il periodo dell’accoglienza nella colonia post-sanatoriale di Tresigallo, in provincia di Ferrara.

Ho fatto una brutta infanzia, c’erano sempre dei pericoli, qui nel ferrarese e là in Libia. Sono nata a Medelana, il 29 marzo del 1924. Dopo alcuni problemi famigliari, sono andata in Africa assieme a mio zio. Ero vestita da ‘piccola italiana’ quando sono partita: avevo la sottana nera e la camicetta bianca col fregio raffigurante una M, sovrapposta ad un fascio stilizzato. Sono stati giorni di navigazione e spostamenti, forse 14: da Genova fino a Tripoli, da Tripoli siamo andati a Bengasi, da Bengasi siamo andati a finire nel Villaggio Baracca, al numero 51, lungo la via Principale. La nostra casa in Libia era già tutta arredata; ci han dato delle bestie, mucche con corna molto lunghe, e pecore; di fianco alla casa c’era un fienile con il portico e là andavano a dormire gli animali. Di notte venivano gli sciacalli che mangiavano le pecore, gli succhiavano il collo e la mattina le trovavamo morte. Mio zio, che io chiamavo papà, le pelava e poi le mangiavamo. Nel Villaggio si parlava in italiano, eravamo tutti italiani, avevamo la casa in centro, con la terrazza alla quale si accedeva con una scaletta. Mi ricordo le donne libiche, andavo sotto la tenda, con loro, a prendere il tè, mangiavo con loro. Erano persone buone, non ho mai avuto nessuno screzio.

Con l’avvicinarsi della guerra Italo Balbo si adoperò affinché i giovani dei coloni italiani dai quattro ai dodici anni abbandonassero il Paese: sarebbero stati trasportati in patria dalle stesse navi che avrebbero portato i soldati italiani sul fronte libico. Il 16 maggio 1940 il ferrarese inviò un telegramma a Attilio Teruzzi, Ministro dell’Africa Italiana, affermando di aver preparato l’esodo dei ragazzi. Occorreva che il Duce ordinasse a Ettore Muti, segretario del Partito Nazionale Fascista, di provvedere all’assistenza nel momento dello sbarco, alla collocazione nelle colonie della Gioventù Italiana del Littorio e al vitto. Muti approvò il budget di 12 lire al giorno per ogni bambino, dopodiché arrivò la delibera di Mussolini, approvata il 23 maggio 1940.

Dopo due settimane tredicimila bambini partirono alla volta dell’Italia. Tripoli al momento della partenza era addobbata a festa: fiori, drappi tricolori, gagliardetti, tamburi, camicie nere con fez e piccoli ascari africani con la divisa bianca e rossa. Gli altoparlanti emettevano canzoni ed inni di propaganda, da “Giovinezza” a “Tripoli bel suol d’amore”. Alcune navi risalirono l’Adriatico e si fermarono a Ravenna, altre, percorrendo il Mar Tirreno, approdarono a Napoli e a Genova. Le imbarcazioni erano prive di comfort: brande e cuccette improvvisate, penuria di coperte e cuscini, scarsa pulizia. Alcune bambine furono rasate a zero per la paura dei parassiti. I profughi furono accolti in trentasette colonie della costa tirrenica e di quella adriatica; tra le più citate nei racconti dei testimoni vi sono quelle dell’Emilia-Romagna come la “Camillo Balbo” di Cattolica, la “Principessa Piemonte” di Viserbella (Rimini), la “Maria di Savoia” di Rimini, la “Rex” di Lizzano in Belvedere (Bologna). Una di queste fu la colonia Carlo Santoro di Tresigallo (Ferrara).

3. I luoghi, il luogo: voci dalla Colonia Post-sanatoriale di Tresigallo

Alla fine di settembre del 1940, caduta l’illusione della guerra breve e del ritorno immediato dei bambini in Libia, il Comando Generale della GIL, alla luce dell’evoluzione delle vicende belliche e dei problemi scolastici incombenti, provvide al riordinamento organizzativo e logistico delle colonie. Le vacanze dell’estate del ’40 si trasformarono, così, in un incubo di peregrinazioni durato cinque anni. Le autorità italiane dovettero strutturare un piano di accoglienza articolato, a partire dalla pianificazione dell’istruzione obbligatoria: una parte degli ambienti interni di tutte le colonie venne difatti trasformata in aule scolastiche.

La colonia della «città-progetto» del gerarca Edmondo Rossoni fu costruita tra il 1936 e il 1938 per accogliere le persone guarite dalla tubercolosi dimesse dall’Ospedale di Montecatone (Imola): nella campagna ferrarese avrebbero dovuto iniziare un percorso di convalescenza, riabilitazione e reinserimento lavorativo. Nel 1939 arrivò un numeroso gruppo di donne in osservazione post-sanatoriale; esse iniziarono a seguire corsi di formazione nel campo della sartoria e della maglieria predisposti all’interno dei locali dello stabile. A pochi anni dall’inaugurazione, però, la situazione cambiò quando, nel 1941, arrivarono i tripolini e alcuni reparti dell’ospedale vennero riconvertiti: fu necessario implementare aule, bagni, refettori, camere da letto. Gli spazi si prestavano alla ricezione date la presenza di un vasto parco di circa 43.00 m2 e le dimensioni monumentali della struttura composta di un seminterrato, un piano terra, tre piani e il sottotetto. I «bimbi libici», circa 120, furono accompagnati dalle loro vigilatrici e vennero affidati alla dirigente Bucceri; arrivavano prevalentemente dalle colonie del ravennate e della Romagna.

La vita comunitaria era dura e l’educazione militaresca risentiva sicuramente della propaganda del regime: la giornata era costellata di adunate, marce, inni di guerra, attività ginnica, lezioni scolastiche, momenti conviviali e di gioco. Come ha segnalato Erica Moretti, «la formazione del bambino per le gerarchie fasciste divenne quella “di una specie di caserma in cui, attraverso un continuo addestramento fisico e spirituale, si plasmano dei soldati, persuasi che l’onore sta nelle fedeltà ai capi e non nella coscienza di servire una causa giusta, acriticamente disposti a combattere e morire per ciò che viene indicato come la grandezza della patria”»12. Ciò trova conferma a seguito dell’analisi della documentazione rinvenuta nell’archivio turistico del Comune di Tresignana (località Tresigallo) e delle interviste effettuate. Gli avanguardisti Dino De Biase, Antonino Pagliaro, Franco Mennella, Marcella Banfi, Calogero Lacagnina, alcuni di quei bambini che avevano vissuto a pochi chilometri di distanza in Libia senza conoscersi, si trovarono fianco a fianco nella Tresigallo rifondata. Essi hanno condiviso paure e speranze e hanno lasciato traccia del loro passaggio attraverso pensierini scritti sui quaderni di scuola, testimonianze e lettere. Vengono riportate di seguito alcune fonti che mostrano scorci di vita all’interno della colonia.

La vigilatrice del Manipolo «Natalino Magnani», Colonia Carlo Santoro di Tresigallo

Sono le 11 del mattino ed ha inizio la visita medica. Il figlio della Lupa Mario Giangreco, di poco più di tre anni, è un po’ indisposto di stomaco. Il medico gli ordina: «fuori la lingua», e non appena è obbedito aggiunge: «uh! Che lingua sporca, bisogna pulirla con un buon cioccolatino purgativo». Mario, il visetto intelligente e grazioso atteggiato ad espressione di chi la sa molto lunga, risponde: «fa niente signor dottore, intanto non si vede».

La vigilatrice del Manipolo «Fausto Berretta», Colonia Carlo Santoro di Tresigallo

Siamo in colonna ai primi giorni di scuola. L’insegnante della prima classe elementare, dopo una solenne ramanzina, punisce i tre alunni chiacchierini figli della Lupa Simonetti Antonio, Di Leonardo Flaviano, Battaglia Giuseppe, ordinando loro l’uscita dall’aula, cosa che essi eseguono immediatamente. Trascorsi pochi istanti da che ha ripreso la lezione, con stupore vede rientrare i tre puniti i quali, con tutta serietà e compunzione, si avvicinano alla cattedra e porgendogli alcune caramelle dicono: le abbiamo messe da parte per voi, signor maestro, perdonateci! L’insegnante non riesce più a contenere l’ilarità, invita i furbacchioni a sedere e … pace è fatta!

Mennella Franco, II classe, Colonia Carlo Santoro, Tresigallo. “Pensierino”

Le erbe del prato erano molto alte. Un mattino un gruppo di contadini sono venuti con la falce sulla spalla e hanno cominciato a lavorare. La lunga falce taglia l’erba che cade. I falciatori avanzano con la schiena curva. I grilli e le cavallette piccine, fanno salti perché la falce li disturba. Poi le contadine fanno mucchi di fieno. L’aria è profumata. Quando il fieno sarà portato via, scenderemo nel prato e ci divertiremo a correre e a far ruzzoloni e capriole.

Lettera di un bimbo libico.
Il piccolo Mario Dal Cin, scrive ad un combattente in Marmarica:

Tresigallo, 21.3.1942

Caro Goffredo, vengo a te con questa lettera per farti sapere che io sono un bambino libico e la mia famiglia si trova dove stai combattendo tu adesso. Io mi trovo in una colonia della G.I.L. di Ferrara. Noi qui in questa colonia siamo trattati molto bene, abbiamo tutto quello che ci occorre. Noi siamo qui fuori dei pericoli per merito del nostro DUCE e tante persone si occupano di noi. Andiamo a scuola e abbiamo delle insegnanti che anche loro vengono dalla Libia. Se tu sapessi che bella colonia è questa: è un grandioso palazzo di tre piani, ha bellissimi corridoi e ai lati del corridoio ci sono tutte le camerate dove dormiamo noi in letti tutti bianchi. Ci sono delle bellissime scale in marmo, poi c’è due grandi refettori, c’è due saloni di soggiorno dove stiamo noi quando fa freddo e quando piove, ci sono aule chiare e spaziose dove andiamo a scuola, al primo piano della colonia c’è una grande cappella dove alla domenica ascoltiamo la messa. Noi qui nell’ora di ricreazione ci divertiamo molto, e ogni tanto andiamo a fare delle passeggiate in paese, quasi ogni sabato andiamo al cinematografo. Quando andiamo a scuola la nostra maestra ci distribuisce i giornali illustrati dove vediamo tutto quello che fate voi soldati in Africa e in Russia, per mare, per cielo, per terra. Il tuo babbo quando è venuto a trovarci ci ha detto che tu ti trovi in Africa Settentrionale a combattere e che prima hai combattuto in Albania e in Grecia, e anche ci ha detto che quando tu ricevi posta dai bambini sei molto contento. Così io ti scrivo questa lettera per mandarti tanti auguri di buona Pasqua. Io pregherò tanto perché Gesù ti protegga e ti tenga lontano dai pericoli e che tu possa ritornare sano e salvo a casa. Tanti saluti e baci ai tuoi compagni. Ti saluto e ti bacio tanto; il tuo caro Balilla. Dal Cin Mario. Classe IV elementare.

Nel 1942, a causa delle sfavorevoli vicende belliche, si assistette ad una nuova riorganizzazione delle colonie: i ragazzi furono raggruppati e trasferiti soprattutto nelle strutture del Nord Italia e vi rimasero fino al 25 luglio 1943, dopodiché la situazione precipitò: con l’avanzata graduale delle truppe alleate i bimbi vennero spostati sempre più a Nord, a Bordighera, Ventimiglia, Druogno, Brescia. Le colonie, gestite dalla Repubblica Sociale Italiana, vennero ridimensionate e poi sciolte: i ragazzi furono affidati a parenti residenti in Italia, collegi, istituti religiosi. I maschi più grandi, invece, vennero sistemati presso famiglie contadine. Anche a Tresigallo le presenze diminuirono: i circa trenta ragazzi rimasti dovettero condividere gli spazi col personale ospedaliero proveniente da Ferrara: difatti alcuni reparti del Sant’Anna, per timore dei bombardamenti e della saturazione dei posti letto, trovarono rifugio nei quattro piani del sanatorio. Nel 1945, finita la guerra, la colonia si svuotò completamente di tutte le persone e tornò ad essere utilizzato per la cura degli ammalati di TBC.


Note

1 Stefano Gallo, Il Commissariato per le migrazioni e la colonizzazione interna (1930-1940). Per una storia della politica migratoria del fascismo, Perugia, Editoriale Umbra, 2015; Stefano Gallo, Senza attraversare le frontiere. Le migrazioni interne dall’Unità a oggi, Roma-Bari, Laterza, 2012; Anna Treves, Le migrazioni interne nell’Italia fascista, Torino, Einaudi, 1976; Riccardo Mariani, Fascismo e città nuove, Milano, Feltrinelli, 1976.

2 L’appellativo «bimbi libici» è la dicitura proposta da molta letteratura coloniale; si veda la proposta dal bengasino Francesco Prestopino, autore di una monografia dedicata ai ragazzi della quarta sponda. «Organizzati libici», invece, è la denominazione utilizzata dalle istituzioni che si occupavano dei giovani libici dopo la caduta del regime fascista nel luglio del 1943. «Tripolini» è il termine più frequente usato dai testimoni.

3 Eric Salerno, «Uccideteli tutti». Libia 1943: gli ebrei nel campo di concentramento fascista di Giado. Una storia italiana, Milano, Il Saggiatore, 2008.

4 Francesco Malgeri, La guerra libica (1911-1912), Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1970; Giorgio Rochat, Il colonialismo italiano: la prima guerra d’Africa, la guerra di Libia, la riconquista della Libia, la guerra d’Etiopia, l’Impero, Collana Documenti della Storia n. 1, Torino, Loescher, 1973.

5 Angelo Del Boca, Gli italiani in Libia. Vol. 1: Tripoli bel suol d’Amore; Gli italiani in Libia. Vol. 2: Dal fascismo a Gheddafi, Bari, Laterza, 1986.

6 L’Associazione Italiani Rimpatriati dalla Libia (AIRL) «finanziata con il contributo dei singoli soci, opera senza fini di lucro per offrire servizi adeguati ai profughi rimpatriati, rendendosi portavoce delle esigenze individuali e collettive degli stessi; inoltre ne tutela gli interessi, prospettando adeguate soluzioni ai problemi legati al loro status e promuovendo provvedimenti ed iniziative di carattere legislativo, intese ad ottenere la piena attuazione del loro diritto». Per informazioni relative all’Associazione, si rimanda al sito https://www.airl.it/

7 Francesco Prestopino, I bimbi libici. Storia e storie dei ragazzi della IV sponda, Milano, La Vita Felice, 2007.

8 Grazia Arnese Grimaldi, I ragazzi della Quarta Sponda, Milano, Editrice Nuovi Autori, 1990.

9 Manuela Piemonte, Le Amazzoni, Milano, Rizzoli, 2021.

10 Valeria Deplano, Alessandro Pes (a cura di), Quel che resta dell’impero. La cultura coloniale degli italiani, Milano-Udine, Mimesis, 2014, pp. 129-148.

11 Cfr. Claudio G. Segrè, Italo Balbo, Bologna, Il Mulino, 1998, p. 145; Giordano Bruno Guerri, Italo Balbo, Milano, Bompiani, 2013.

12 Valeria Deplano, Alessandro Pes (a cura di), Quel che resta dell’impero, cit.