Il sito internet dell’Assessorato al turismo e commercio dell’Emilia-Romagna fa sapere ai residenti in regione che hanno il privilegio di vivere nella Food Valley italiana il cui centro si situa tra Modena e Parma, là dove fioriscono prosciutti e forme di parmigiano. Food valley suona pur sempre meglio di Death Valley, ma se paragonata alla Silicon Valley californiana, culla della tecnologia contemporanea, la povera Emilia-Romagna, con questa denominazione, fa la figura di un’arretrata terra di mangioni destinata ad accogliere grassi turisti in cerca di abbuffate. Dispiace, perché non dovrebbe essere necessario ricordare che la regione conta diverse imprese (non solo alimentari) di rilievo nazionale e internazionale e altrettanti tesori storico-artistici incomparabili. Per limitarci al cuore della valle del cibo, i castelli del parmense, Fontanellato, Colorno, Torrechiara e il museo della Pilotta a Parma sono capolavori o raccolte di capolavori di assoluto rilievo. Secondo l’Unesco, invece – forse anche grazie al miope provincialismo dei nostri amministratori1 – la provincia di Parma va ricordata soltanto per la propria gastronomia. Del resto, il citato sito della Regione è fiero di ricordare che addirittura la rivista americana Forbes (sulle cui competenze in materia potrebbe essere lecito avanzare qualche perplessità) ha avuto la bontà di definire l’Emilia-Romagna la zona in cui si mangia meglio al mondo: perché sforzarsi allora di fornire un’immagine differente?
«Un luogo dove la parola gastronomia significa innanzitutto cultura: cultura da conoscere, condividere ma soprattutto da assaggiare», così recita il nostro sito non accorgendosi, evidentemente, che il modello proposto è esattamente il contrario e cioè un luogo dove la parola cultura significa innanzitutto gastronomia.
Chiedo perdono per l’avvio polemico e forse décousu, ma ne attribuisco vigliaccamente l’intera responsabilità alla lettura del bel libro di Massimo Montanari Bologna, l’Italia in tavola2 che ricostruisce con ricchezza di testimonianze l’origine dell’eccellenza delle specialità felsinee e delinea un percorso storico del tutto opposto alla vulgata contemporanea sulla cucina emiliana e bolognese. Ritengo valga la pena ripercorrerne dettagliatamente lo sviluppo per rendersi conto che l’errore di prospettiva della promozione regionale è ancora più grave se si conosce come sia nata e si sia sviluppata la gastronomia sotto le Due Torri secondo un percorso che, a mio avviso, può essere esteso mutatis mutandis, anche ad altri centri dell’Emilia Romagna.
Come sempre, gli studi di Montanari ricostruiscono scenari del tutto inaspettati e demoliscono mediocri e consolidate certezze. Apprendiamo, così, che grassa è un epiteto riferito a Bologna fin dal Medioevo e che nasce in ambito francese – la craisse Bouloigne – con riferimento alla ricchezza della città in stretta associazione con la presenza dello Studio, l’Alma mater che dal 1088 attirava studenti da ogni parte d’Europa. Il benessere bolognese è all’origine dell’eccellenza intellettuale dell’Università e quest’ultima contribuisce a diffondere la fama di Bologna oltre le mura cittadine e le Alpi: la pinguis Bononia di cui parla Petrarca è inscindibile dalla Dotta. Nella Bologna medioevale la fertilità delle campagne si accompagna alla documentata importanza della città come centro di scambi commerciali e infatti il mercato occupava un grande spazio nell’abitato antico: da Piazza di Porta Ravegnana dove sono le Due Torri, fino a Piazza Maggiore passando per l’ampia zona ancora oggi chiamata del Mercato di mezzo. Non è quindi corretto dire che la cucina bolognese nasce dal territorio: è piuttosto l’apporto dei differenti cibi che confluivano nel capoluogo emiliano da aree diverse e lontane ad aver posto le basi della varietà culinaria futura. L’interpretazione di Montanari viene qui suffragata anche da una considerazione più generale: fino all’avvento di una società borghese, liberale e nazionale, non esisteva uno stretto legame gastronomico con il territorio. Nell’epoca dell’ancien régime l’aristocrazia e le classi agiate bolognesi, come i loro omologhi di altre città, disprezzavano la cucina popolare e amavano farsi servire specialità esotiche, come il gonfaloniere conte Orsi che nel 1673 banchettò con «pollastrini alla catalana» e «piccatiglia all’inglese».
La continua e abbondante presenza in città di forestieri, studenti o viaggiatori, nel corso dei secoli ha senz’altro contributo ad ampliare l’offerta culinaria e a mantenerne elevato il livello. Lo testimoniano le ordinanze cittadine del XVI secolo che favorivano le importazioni di olii forestieri e prescrivevano dettagliatamente le forniture alimentari minime di cui gli osti dovevano disporre. Non per caso, dunque, al padre di Goethe, di passaggio a Bologna qualche decennio prima del figlio, venne offerta in una locanda la scelta tra una tavola alla francese e una alla tedesca.
Diverse sorprese attendono il lettore nei capitoli centrali del libro. Una di queste consiste nella fama goduta da Bologna nel Medioevo non tanto come città di salumi quanto piuttosto come terra di produzione di ortaggi. I cavoli, i finocchi e perfino le olive bolognesi erano noti ancora nel XVI secolo e la specialità petroniana più citata nei ricettari antichi è la «Torta d’herbe alla bolognese», fatta di bietole tritate, formaggio grattugiato, erbe aromatiche, spezie e uova. Certo, molto nota e sviluppata era la produzione dei salumi, il cui più famoso esponente resta la mortadella, tanto strettamente associata alla città da essere spesso chiamata soltanto Bologna. Anche in questo caso, però, vengono ribaltati gli stereotipi tradizionali: a lungo la mortadella veniva preparata anche cruda, come testimonia Gioachino Rossini che si fece spedire a Parigi due mortadelle specificando che fossero cotte. Inoltre, la preparazione di salumi cotti come la mortadella ha forse più di qualche affinità con il würstel tedesco. Non manca anche una parte dedicata alla fame e alle tante carestie che misero seriamente a rischio l’alimentazione e la salute cittadine in particolare alla fine del XVI secolo: pensando alle misere condizioni di tanti non si può evitare di provare un certo disagio nella rievocazione di quella festa di San Bartolomeo in cui ogni anno alle genti basse radunate in Piazza Maggiore veniva gettata dall’alto del Palazzo Comunale una grande porchetta che veniva presto sbranata dalla folla. Diceva Pellegrino Artusi che Bologna sarebbe la sede ideale di un Istituto culinario nazionale e questo non solo in virtù dell’eccellenza della cucina felsinea, ma anche, e secondo Montanari soprattutto, per la capacità dimostrata dal capoluogo emiliano di essere luogo di mediazione gastronomica dove molte specialità diffuse in varie regioni italiane vengono portate a livelli di eccellenza. È il caso del tanto amato tortellino, esempio di pasta ripiena molto diffusa nel nostro paese, che però – attenzione – si è farcito a lungo con midollo di bue e cappone e non con carne di maiale! Montanari conclude la sua piacevole rassegna di storia della cucina bolognese con l’avvertimento a non ridurne la ricchezza a pochi e inflazionati piatti eletti a simboli immutabili e spesso preparati in serie per un pubblico di forestieri inesperti.
Volendo riassumere in poche parole l’analisi proposta dal libro, la cucina bolognese si sviluppa come conseguenza della ricchezza materiale della città, del suo importante ruolo commerciale, del suo alto livello di cultura, della continua presenza di stranieri. È quanto si può presumere anche per Parma una città in cui esisteva una celebre scuola di diritto già a partire dal 962 e un’Università vera e propria, di grande importanza viene fondata nel 1412 grazie a Niccolò III d’Este. Una piccola, ma ricca capitale che i Farnese, i Borboni e Maria Luigia trasformarono in un centro artistico tra i più significativi in Italia ed Europa dove operarono, tra gli altri, Parmigianino e Correggio.
La reductio ad cibum dell’Emilia Romagna proposta dal modello della Food Valley è, quindi, sbagliata, perché facendo della gastronomia il principale elemento di attrazione della regione capovolge la storia della cucina stessa fraintendendone completamente il ruolo; perché, anche in un’ottica di promozione turistica, umilia la ricchezza storica e artistica del territorio; e, last but not least, perché sottovaluta il dinamismo e l’innovazione che caratterizzano l’economia locale contemporanea.
Tornando a Bologna, è, perciò, avvilente constatare che alla città, nella già deprimente cornice della Food Valley, sia stato assegnato il ruolo di sede di un parco di divertimenti alimentare che il suo fondatore celebra come Disneyland del cibo. Il luogo di divertimenti fondato da Walt Disney in California nel 1955 era concepito come luogo di evasione in un mondo fiabesco volutamente opposto alla dimensione quotidiana dell’esistenza, mentre la cucina bolognese, come ogni cucina, della vita quotidiana è parte integrante e non può essere ridotta ai «salami in vetrina» di gucciniana memoria.